- Tribunale di Nola, decreto di rigetto n. 18203/2015
- Tribunale di Nola, sentenza n. 993/2016
- Corte di appello di Napoli, sentenza n. 6038/2016
- Corte di cassazione, sentenza n. 14527/2018
Prologo
Parte del fascino e delle asperità di ogni riflessione critica sui diritti sociali e del lavoro sta nello sguardo prospettico che impone: si è continuamente spinti al confronto con l'attualità più incandescente, con i segni di un incombente e spesso inquietante futuro, ma, nello stesso tempo ed allo stesso modo, si è continuamente tirati all’indietro, verso le ragioni profonde per le quali l’affermazione di questi diritti è sempre oggetto di formidabili ed inesauste resistenze. Quelle ragioni profonde che rendono la lotta per il loro riconoscimento simile ad una traversata stremante e tenace che non conosce approdo.
La coscienza di queste ragioni è, peraltro, offuscata dalla necessità d’essere sempre “sul pezzo”, imposta dai cambiamenti, spesso radicali, che si succedono senza posa sia sul lato degli assetti sociali e delle relazioni industriali che su quello di sedicenti e compulsive riforme legislative, necessità che sovente comprime la riflessione in una angusta bidimensionalità.
Fin tanto che, con una sorta di puntuale periodicità, vicende politiche, sociali o giudiziarie ad esse ci richiamano.
1. La vicenda oggetto di causa: il giudizio di merito
La vicenda in commento attiene al licenziamento disciplinare di cinque lavoratori della FCA Italy s.p.a.-Stabilimento di Nola, loro intimato per:
1) avere allestito, il 5 giugno 2014 nell’area antistante il fabbricato Giambattista Vico Logistic di Nola, un manufatto in legno riproducente un patibolo dotato di un cappio che stringeva al collo un manichino penzolante, a grandezza naturale e raffigurante l’amministratore delegato di FIAT s.p.a. e di FIAT Group Automobiles s.p.a., dott. Sergio Marchionne, simulandone l’impiccagione e avere partecipato all’affissione sul palo verticale del patibolo di un manifesto con sfondo raffigurante il viso dell’a.d. e sul quale era scritto: «Il mio lascito prima del mio ultimo respiro: preso atto del mio piano fallimentare chiedo agli Agnelli, ai politici e ai sindacati: quelli che verranno dopo di me, se ci sarà la conduzione manageriale F.C.A., spero che siano non attenti solo al profitto, ma al benessere dei lavoratori licenziati e cassaintegrati. Inoltre chiedo come atto di clemenza la riassunzione di tutti i 316 deportati a Nola nello stabilimento di Pomigliano D’Arco. Chiedo perdono per le morti che io ho provocato. Sergio Marchionne»;
2) aver steso a terra, nell’area intorno al patibolo, diversi indumenti da lavoro, cosparsi di vernice di colore rosso al fine di simulare macchie di sangue;
3) essersi, nella stessa giornata, recati in Napoli, davanti alla sede regionale Rai, ivi allestendo il medesimo patibolo con un manifesto del tutto identico, pendente dal petto del manichino;
4) aver collocato il giorno 10 giugno 2014, alle ore 5.30 circa davanti all’ingresso n. 2 dello stabilimento (riservato ai dipendenti addetti al primo turno di lavoro) un vecchio baule aperto, con all’interno un manichino identico a quello utilizzato nelle rappresentazioni del giorno 5 giugno e intorno alcuni lumini funebri, simulando un funerale, ponendo altresì a terra indumenti da lavoro cosparsi di vernice di colore rosso.
Il giudice della fase sommaria, ripercorsi i principi enucleati dal giudice di legittimità sulla rilevanza disciplinare dei comportamenti extra-lavorativi riconducibili all'obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cc letto secondo i generali principi di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 cc), le cui violazioni «siano tali, per la loro gravità e natura, da far venir meno quella fiducia che integra il presupposto essenziale della collaborazione fra datore di lavoro e lavoratore», ha affrontato la questione del punto di equilibrio tra l’esercizio del diritto di critica all’operato del datore di lavoro garantito dall’art. 21 Cost. e «l'interesse della persona o dell'impresa oggetto di affermazioni lesive», ricordando che, a tal fine, «assume rilievo la continenza (esposizione veritiera e corretta) del fatto nell'esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sia dal punto di vista sostanziale che formale» e che, pertanto, «sotto il primo profilo, i fatti narrati devono appunto corrispondere alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva e, sotto il secondo, l'esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari».
Muovendo da questa premessa, escluso che potesse essere ravvisato nel caso concreto un esercizio di attività sindacale [1], ha ritenuto superati i limiti di continenza sostanziale sia quanto al riferimento a pretesi intenti discriminatori nel trasferimento di circa trecento operai da Pomigliano d’Arco a Nola e alla pluriennale condizione di cassintegrati, sia quanto al riferimento ai suicidi di lavoratori del sito industriale, poiché non sarebbero emersi elementi di connessione con la «conduzione manageriale del gruppo FIAT» e sarebbero risultate infondate le critiche ai risultati industriali della dirigenza aziendale.
Ha altresì ritenuto superati i limiti della continenza formale nell’attribuzione all’a.d. della personale responsabilità per i suicidi; per le condotte di «deportazione» di dipendenti; per la «fin troppo realistica rappresentazione del suicidio a mezzo di impiccagione dello stesso Marchionne con successivo funerale», con lesione dell’onore, decoro e reputazione tanto dell’a.d. che della società.
Non ha avuto miglior sorte il ricorso nella fase a cognizione piena. Il secondo giudice ha, infatti, ripercorso pedissequamente lo stesso iter decisionale, sottolineando che l’attribuzione «aperta e pubblica» di tale responsabilità non potesse essere giustificata neppure da una lettera che collegava espressamente il suicidio alla condizione lavorativa patita e che la rappresentazione scenica aveva violato il limite della continenza formale, dovendosi ritenere «…che l’immagine del manichino raffigurante il dott. Marchionne, impiccato, e successivamente sistemato in un baule, costituisca un rappresentazione scenica forte (in quanto è comunque raffigurata la morte del soggetto che si identifica con la società datrice di lavoro) ed eccessiva rispetto allo scopo perseguito dai manifestanti di criticare le politiche aziendali in tema di lavoro».
La sentenza della Corte d’appello di Napoli n.6038 del 27 settembre 2016 ha ripercorso gli stessi identici principi attraverso una lettura minuziosamente attagliata all’analisi dei fatti, pervenendo ad un esito diametralmente opposto.
Così la Corte d’appello: «Il fulcro della questione» sta nella necessità di «valutare se le manifestazioni di protesta-denuncia dei lavoratori reclamanti abbiano travalicato o meno i limiti elaborati dalla giurisprudenza in tema di legittimo esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro … in presenza di più interessi collidenti, e cioè l’interesse della persona o dell’impresa oggetto di affermazioni lesive, e l’interesse contrapposto di chi ne è l’autore – costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost. sulla libertà di manifestazione del pensiero − occorre trovare un punto di intersezione e di equilibrio, che va individuato nel limite in cui il secondo interesse non rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione ed al decoro di chi ne è oggetto, persona fisica o società. Dunque assume rilievo la continenza (esposizione veritiera e corretta) del fatto … sia dal punto di vista sostanziale che formale … sotto il primo profilo, i fatti narrati devono appunto corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma soggettiva e, sotto il secondo, l’esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari».
La Corte ha quindi confermato la legittimità [2] delle critiche relative alle «scelte fallimentari» di FCA sotto il profilo industriale, «trattandosi di una mera valutazione soggettiva peraltro del tutto generica» ed alla «deportazione» di 316 dipendenti da Pomigliano a Nola, trattandosi di una circostanza oggettivamente vera e non essendo mai stato contestato che tutti i lavoratori trasferiti, fra i quali i ricorrenti, fossero «ininterrottamente sospesi dal lavoro dal 2008». Quanto alla «macabra rappresentazione scenica del finto suicidio» dell’a.d. e del suo successivo funerale ha valutato che «…la rappresentazione scenica realizzata, per quanto macabra, forte, aspra e sarcastica, non ha travalicato i limiti di continenza del diritto di svolgere, anche pubblicamente, valutazioni e critiche dell’operato altrui (quindi anche del datore di lavoro), che in una società democratica deve essere sempre garantito» e che il collegamento i suicidi e le strategie aziendali, corrispondeva alla «verità soggettiva» dei licenziati.
Diversamente dal giudice di primo grado, la Corte napoletana è pervenuta a tale conclusione attraverso una tenace ricerca della verità processuale ed in tale caparbia fatica risuonano gli echi di un modello di giudice del lavoro «più attento alla sostanza dei fatti che alle forme, direttamente coinvolto e responsabilizzato nel dovere di ricostruzione delle circostanze che hanno determinato il conflitto» [3], modello fortemente appannato in tempi in cui convergenti spinte dovute alle ragioni dell’economica e connesse esigenze di certezza e prevedibilità delle decisioni, da un lato e alle richieste di maggiore «produttività» degli uffici giudiziari, dall’altro, hanno generato una giurisprudenza di merito difensiva, acriticamente ossequiosa del precedente di legittimità, renitente alla faticosa ricerca dei fatti, immemore della funzione riequilibratrice che dovrebbe svolgere.
Ha così rilevato la Corte di merito che: uno dei lavoratori suicidi aveva lasciato uno scritto che spiegava il drammatico gesto proprio con le condizioni lavorative di cassintegrato; l’altra lavoratrice, suicida nel maggio 2014 (una settimana prima della famosa rappresentazione) molto impegnata sindacalmente, aveva pubblicato un scritto intitolato Suicidi in fabbrica, con questo incipit: «Non si può continuare a vivere per anni su ciglio del burrone dei licenziamenti»; quest’ultima nel 2009 aveva rilasciato un’intervista, inserita in un film dal titolo La fabbrica incerta, nella quale raccontava della propria depressione e dell’uso di psicofarmaci a causa della condizione di lavoro patita; le accuse mosse all’a.d. non erano di istigazione al suicidio, che presuppone il dolo, ma l’avere determinato le morti con le scelte aziendali adottate; le problematiche erano da tempo note alla pubblica opinione, «come provato dalla copiosa rassegna stampa prodotta» [4]; della situazione dei cassintegrati del Polo Logistic di Nola si era interessata anche la Giunta regionale campana ed era stata oggetto di un’interrogazione parlamentare; in una precedente manifestazione di protesta, in occasione del funerale della lavoratrice suicida, molti colleghi si erano stesi vicino ai cancelli indossando indumenti macchiati di vernice rossa.
Quanto, invece, alla continenza formale, la Corte ha ritenuto la «durezza» delle rappresentazioni giustificata dalle reali modalità di quei tragici fatti: la lavoratrice suicida era stata trovata riversa nel suo letto immersa nel sangue, dopo essersi inflitta tre coltellate al ventre e l’altro lavoratore si era impiccato. Gli indumenti macchiati di vernice rossa, a simulare il sangue, sono stati apprezzati quale «prova evidente della immedesimazione emotiva che ha legati i manifestanti alla sorte dei compagni morti suicidi» e la rappresentazione duramente sarcastica, ma senza alcuna istigazione alla violenza, contrariamente a quanto affermato nelle contestazioni disciplinari, come priva di «espressioni offensive, sconvenienti o eccedenti lo scopo della critica», inidonea a causare nocumento morale all’azienda o al suo amministratore delegato, diretta solo ad accendere l’attenzione della pubblica opinione su fatti già noti [5].
Collocata, dunque, la condotta nell’alveo del legittimo esercizio del diritto critica, è stata esclusa una violazione degli obblighi del lavoratore tale da determinare quella irrimediabile lesione del rapporto fiduciario che avrebbe potuto giustificare il recesso per giusta causa, con conseguente insussistenza dell’illecito disciplinare e applicazione della tutela reintegratoria.
2. La pronuncia della Cassazione
La Corte di cassazione, con la sentenza del 6 giugno 2018 in commento, ha ritenuto fondati i primi sei motivi del ricorso: violazione e falsa applicazione degli art. 21 e 2 Cost. in relazione all’art. 2119 cc, per avere «accolto un’inaccettabile dilatazione del diritto di critica sottraendolo ad ogni contemperamento con l’interesse della controparte» (i primi due); violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cc, per non avere ritenuto giusta causa di licenziamento comportamenti che compromettevano l’immagine morale del datore di lavoro; violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 1175 e 1375 cc in relazione all’art. 2119, per avere trascurato di considerare la portata ampia dell’obbligo di fedeltà del lavoratore, che si estende anche ai comportamenti extra-lavorativi contrastanti con il suo inserimento nella struttura organizzativa aziendale e tali dal ledere irrimediabilmente il legame fiduciario fra le parti; violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cc per avere la Corte di merito trascurato la natura non vincolante delle previsioni disciplinari dei contratti collettivi in tema di licenziamento per giusta causa; violazione e falsa applicazione dell’art.2106 cc, per avere la Corte «trascurato la gravità della messa in scena allestita dai cinque lavoratori ai fini del giudizio di proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione».
Premessa la condivisione del principio di diritto della necessità di trovare un punto di equilibrio fra l’interesse soggetto leso e l’interesse del lavoratore a una libera espressione di pensiero e dell’individuazione di tale punto di equilibrio nella linea di confine superata la quale il secondo interesse finisce per arrecare pregiudizio ad onore, reputazione e decoro del titolare del primo, la Cassazione ricorda come in questa ricerca del punto di equilibrio, laddove la critica si esprime attraverso la satira, si debba tener conto della natura del mezzo espressivo, caratterizzato da «un linguaggio colorito» e dal ricorso ad «immagini forti ed esagerate», non potendosi assegnare a talune espressioni il «significato letterale che potrebbero avere nell’uso comune» né compiere «estrapolazioni dal contesto». E, quanto al diritto di critica connesso al libero esercizio dell’attività sindacale (art. 39 Cost.), in astratto non confliggente con il dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 cc, rileva che, in concreto, il punto di equilibrio è da ritenersi travalicato ogni qual volta la critica trasmodi nell’attribuzione «di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati».
Sennonché, esposti tali condivisibili principi, la parte più propriamente demolitoria della pronuncia in esame si connota per un’assertività che non agevola l’individuazione del principio di diritto violato o falsamente applicato dalla Corte territoriale.
Secondo il giudice di legittimità «la rappresentazione scenica» avrebbe «esorbitato i limiti della continenza formale attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili, in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione», travalicando dunque quel punto di equilibrio più volte evocato, giacché anche la satira richiederebbe «forme espositive seppur incisive e ironiche, ma pur sempre misurate» e così «spostando una critica sindacale anche aspra, ma riconducibile ad una fisiologica contrapposizione fra lavoratori e datori di lavoro, su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario, fine a se stesso, senza alcun interesse a un confronto con la controparte, annichilita nella propria dignità di contraddittore». Fin qui parrebbe solo una più articolata declinazione dei medesimi principi posti a fondamento della pronuncia di merito. Occorre, dunque, cercare altrove.
Ad esempio, laddove la Cassazione rileva come il diritto di critica, anche sindacale, non possa comunque mai contravvenire «al c.d. minimo etico ossia a quei doveri fondamentali che si concretano in obblighi di condotta per il rispetto dei canoni dell’ordinaria convivenza civile» o laddove afferma che la sentenza impugnata debba esser cassata «avendo violato il parametro normativo che prevede il bilanciamento effettivo di due interessi costituzionalmente rilevanti (il diritto di critica e la tutela della persona umana)». E proprio in tale aggettivo parrebbero condensarsi le ragioni della censura: non vi sarebbe, dunque, «effettivo» bilanciamento quando l’esercizio del diritto di critica abbia violato il sopra ricordato minimo etico ovvero i «doveri fondamentali alla base dell'ordinaria convivenza civile» richiamati in massima.
Ma quand’è che il giudizio di bilanciamento fra i contrapposti interessi del diritto di critica (art. 21 Cost.), e in ispecie di critica sindacale (art. 39 Cost.), da un lato e dell’onore e decoro (art. 2 Cost.), dall’altro, deve ritenersi non correttamente eseguito perché in violazione del “minimo etico” evocato dalla suprema Corte o, comunque, perché non “effettivo”? E quale è il limite del sindacato di legittimità quando il giudice di merito ha, come avvenuto nel caso di specie, scandagliato i fatti in profondità ed ampiamente motivato sul percorso di sussunzione nella fattispecie giuridica astratta?
L’argomentare astratto e del tutto avulso dalla concretezza del fatto si traduce in una motivazione tautologica.
Né giova alla chiarezza del descritto percorso argomentativo la lettura dei precedenti citati a sostegno dell’argomento secondo cui «anche la satira non si sottrae al limite della c.d. continenza formale»: Cass. 7091/2001; Cass. 14485/2000; Cass. 7471/2012.
Con la sentenza n. 7091/2001, è stata cassata la sentenza del Tribunale di Milano di accoglimento del ricorso di due dipendenti di Italcementi spa e CTG spa, investiti di cariche sindacali, che erano stati licenziati per avere distribuito volantini che ritenuti fortemente diffamatori nei confronti della società e del suo amministratore delegato, in occasione della presentazione del nuovo logo societario. Sennonché, in quel caso, le censure della Cassazione si erano accentrate espressamente sulla contraddittorietà delle motivazioni della sentenza di secondo grado. In primo luogo, perché il Tribunale, che prima aveva definito l’espressione secondo cui il nuovo logo era «un simbolo del c…» scurrile, inopportuna e tale da suscitare ripugnanza in chi leggeva, poi concludeva escludendone l’efficacia offensiva dell’onore e decoro del gruppo. In secondo luogo, perché, prima aveva ricordato l’accostamento, fatto nel volantino, dell’amministratore delegato ad un soggetto psicopatico che si esprimeva in modo sconnesso ed aveva un madre di facili costumi e poi aveva omesso di valutare se da tali accostamenti fossero derivati effetti offensivi per l’onore ed il decoro della società.
Alla Corte sembra però essere sfuggito il seguito processuale di quella pronuncia. La Corte d’appello di Brescia, decidendo quale giudice di rinvio, ha infatti confermato la dichiarazione di illegittimità del licenziamento ed il successivo ricorso datoriale è stato rigettato da Cass. 18570/2005 evidenziando il limite del sindacato del giudice di legittimità una volta che il giudice di rinvio abbia esaurientemente motivato in fatto con riferimento a tutti i canoni indicati nella pronuncia rescindente [6].
In Cass. 14485/2000, è stato invece respinto il ricorso del settimanale L’Espresso e di un suo editorialista, con cui si denunciava la violazione o falsa applicazione di norme di diritto nella condanna di risarcimento danni loro inflitta per le espressioni gravemente offensive rivolte, in un articolo ivi pubblicato, nei confronti di un noto giornalista. In quell’occasione il giudice di legittimità ha ritenuto non pertinente l’argomento dei ricorrenti che faceva leva sulla necessità di collocare diversamente il limite della continenza a seconda che si discuta di esercizio del diritto di cronaca o del diritto di critica e ciò ancor di più quando quest’ultimo si esprima nel linguaggio della satira, in quanto «l'indubbia differenza tra il diritto di cronaca ed il diritto di critica, l'esercizio dei quali esclude l'illiceità del fatto, non comporta che il requisito della correttezza della forma espositiva (c.d. continenza) sussista soltanto per il primo diritto, e non anche per il secondo». Anche in tal caso, tuttavia, si tratta di un principio in nulla confliggente con quanto affermato dalla Corte napoletana.
E lo stesso può dirsi di Cass. 7471/2012, la quale ha solo ribadito che, sebbene il lavoratore sindacalista si collochi, rispetto al datore di lavoro, in un duplice ruolo − di subordinazione nella qualità di suo dipendente e di pari ordinazione nell’esercizio della carica sindacale − la critica da questi espressa non è sottratta al giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco che si è più volte ricordato [7].
3. Il diritto di critica nel rapporto di lavoro subordinato
L’attrazione all’interno del rapporto lavorativo di comportamenti apparentemente del tutto estranei al sinallagma contrattuale, quale l’espressione di opinioni o giudizi, e la loro conseguente rilevanza ai fini dell’esercizio degli strumenti di autotutela disciplinare del datore di lavoro è resa possibile solo da una interpretazione molto estensiva, ma peraltro pacifica, dell’obbligo di fedeltà di cui all’art.2105 cc quale specificazione dei doveri di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375, giustificata dall’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa. Di talché la violazione di tale obbligo, così ampiamente inteso, è ritenuta idonea a determinare un’irrimediabile lesione del vincolo fiduciario che può giustificare il recesso ai sensi dell’art. 2119. Un unicum nel panorama della contrattualistica civile.
Si fronteggiano, com’è noto, due beni di rilievo costituzionale: il diritto alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost. ed art. 1 Statuto dei Lavoratori), di cui la critica del lavoratore è espressione ed il decoro, onore e prestigio del datore di lavoro, quali beni inviolabili della persona umana ai sensi dell’art. 2. E il diritto di critica è spesso connesso allo svolgimento dell’attività sindacale (art. 39 Cost.) e quindi tutelato, oltre che dall’enunciato dell’art. 1, anche specificamente dagli artt. 14, 20, 21 e 25 del medesimo Statuto.
Si fa risalire a Cass. 1173/1986 la prima ricostruzione del percorso valutativo affidato al giudice:
«1) in primis, se i comportamenti addebitati si traducono in obiettiva lesione della reputazione dell'impresa e dei suoi dirigenti;
2) se le accuse (in ipotesi) infamanti sono state espresse per la realizzazione di interessi giuridicamente rilevanti;
3) se le modalità e l'ambito di diffusione delle notizie sono ragionevolmente adeguati alla protezione di tali interessi;
4) se i fatti denunziati sono in parte o in tutto veri e come tali apprezzati dai diffusori» [8].
Il primo elemento non è altro che la mera esplicitazione dell’esistenza del contrapposto interesse tutelato che è quello dell’onore, decoro e prestigio del datore di lavoro.
Il secondo elemento [9], invece, aggiunge un quid pluris estraneo alle disposizioni statutarie e, soprattutto, alla norma costituzionale. Infatti, l’esercizio della critica, espressione del fondamentale diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero, dovrebbe realizzare di per sé solo un interesse giuridicamente (costituzionalmente) rilevante e non è chiaro perché dovrebbe, invece, patire restrizioni rispetto ad una sola categoria di cittadini, i lavoratori subordinati.
Gli ultimi due elementi racchiudono poi il nucleo della valutazione, sintetizzata nei canonici riferimenti alla cd. “continenza” sostanziale (verità oggettiva e verità soggettiva) e formale.
La casistica consente innanzi tutto di escludere la sovrapponibilità fra illecito disciplinare del lavoratore e reato di diffamazione, sia sotto il profilo degli elementi costitutivi della presenza di almeno tre persone ed assenza del destinatario delle affermazioni potenzialmente offensive [10], sia sotto quello dell’elemento psicologico, che nell’illecito disciplinare può consistere nella mera colpa: così Cass. 1173/1986 e più garantista Cass. 1749/2000, secondo la quale trattarsi di colpa grave [11].
Passando alla cd. continenza sostanziale appare talvolta controverso se debba trattarsi di verità oggettiva o di «verità soggettiva» o «putativa», considerato che in diverse pronunce il giudice di legittimità, la «verità oggettiva» diviene poi verità putativa del lavoratore allorché si attribuisce rilievo giustificativo all’affidamento sulla verità dei fatti narrati [12]. Contraddizione in realtà risolta nelle pronunce in cui il concetto di «verità soggettiva» o «verità putativa» è chiarito attraverso il richiamo all’atteggiamento psicologico del lavoratore, che deve necessariamente essere qualificabile quanto meno come colposo perché il limite della continenza sostanziale possa dirsi superato [13].
Il principio è, del resto, pacifico nelle pronunce in tema di risarcimento danni per illecito extra-contrattuale e alla lettura di quelle in materia di diffamazione a mezzo stampa vale la pena di rimandare anche per un altro aspetto ossia l’origine del riferimento alla finalità di «realizzare interessi giuridicamente rilevanti», contenuto nella ricordata pronuncia del 1986 [14] e che si rivela altro non essere che la trasposizione nel giudizio sul recesso dal rapporto di lavoro, dell’elemento enucleato in tema di illeciti commessi a mezzo stampa della cd. «pertinenza» [15]. Si tratta, tuttavia, di un’indebita sovrapposizione di piani, in quanto tale limite al diritto di cui all’art. 21 Cost. è giustificato esclusivamente dall’incontrollabile diffusività del pensiero affidato ai media, caratteristica estranea alla critica del lavoratore subordinato ex se considerata.
Infine, vi è il limite della continenza formale, concetto mutuato anch’esso dalla giurisprudenza in tema di illecito a mezzo stampa, costituito dalla necessità che la critica avvenga con «correttezza formale dell'esposizione che non travalichi lo scopo informativo» (Cass. 5947/97; Cass. 6877/2000; Cass.8953/2006). O, più diffusamente, che «l'attività giornalistica, quale manifestazione del diritto di critica, pur esprimendosi in un giudizio o, più genericamente, in un'opinione − che, come tale, non può che essere fondata su un'interpretazione dei fatti e, quindi, non può che essere soggettiva − è condizionata, quanto alla legittimità del suo esercizio, dal limite della continenza (…) e presuppone, quindi, da un lato, che il fatto o comportamento oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa (…) e, dall'altro, che la narrazione, pur potendosi manifestare con l'uso di un linguaggio colorito o pungente, non trascenda mai in affermazioni ingiuriose e denigratorie o in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira» ( Cass. 22042/2016). Con la precisazione che «nella valutazione del legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della continenza c.d. formale, comportante anche l’osservanza della correttezza e civiltà delle espressioni utilizzate, è attenuato dalla necessità, ad esso connaturata, di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpretazione dei fatti, anche con espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite» (Cass. 996/2017).
È il limite più controverso nella definizione e con le maggiori difficoltà applicative, perché inevitabilmente esposto all’influenza di fattori metagiuridici, provenienti dal bagaglio culturale ed esperienziale dell’interprete. Rischio che può essere contenuto solo ancorandosi ad un saldo quadro valoriale di discendenza costituzionale.
Anche perché la concreta individuazione del punto in cui tale limite va collocato non può prescindere dalla modalità espressiva adottata, essendo evidente che la «correttezza formale dell’esposizione» assume un significato diverso a seconda che si giudichi, ad esempio, di espressioni contenute in un articolo di stampa o servizio televisivo, in un’opera letteraria o cinematografica, in un pezzo satirico.
Quanto all’opera artistica o letteraria è stata chiarita «la profonda diversità esistente tra la notizia giornalistica, l'attività saggistica o documentaristica, da una parte, e l'opera artistica, sia essa teatrale, letteraria o cinematografica, dall'altra», le prime avendo «lo scopo di offrire al lettore o allo spettatore informazioni, notizie, fatti, vicende, esposte nel loro nudo contenuto o ricostruite attraverso collegamenti e riferimenti vari», le seconde caratterizzandosi «per l'essenziale connotato della creazione, ossia di quella particolare capacità dell'artista di manipolare materiali, cose, fatti e persone per offrirli al fruitore in una visione trascendente gli stessi, tesa all'affermazione di ideali e di valori che possano trovare riscontro in una molteplicità di persone». L’opera artistica, aggiunge la suprema Corte «adopera gli strumenti della metafora, del paradosso, dell'iperbole; comunque, esagera nella descrizione della realtà tramite espressioni che l'amplificano, per eccesso o per difetto». Ben diverso è, dunque, il tipo di accertamento demandato al giudice rispetto a quello da condurre «con riguardo all'esercizio dell'attività giornalistica e documentaristica (…) in quanto l'arte non è affatto interessata, né deputata ad esprimere la realtà nella sua verità fenomenica» [16].
E specularmente per la satira: «Diversamente dalla cronaca, la satira è sottratta al parametro della verità in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto, pur rimanendo assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito». E viene inoltre e in particolare specificato molto chiaramente: «Conseguentemente nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato (Cass. 8 novembre 2007, n. 23314; inoltre, sulla possibilità che la satira non rispetti fedelmente la realtà dei fatti, cfr. anche Cass. 29 maggio 1996, n. 4993)» [17].
Né sono ravvisabili differenze di impostazione nella giurisprudenza penale di legittimità in materia, come ben si legge in Cass. 37706/2013, densa di importanti riferimenti sia quanto alla differenza fra cronaca e critica, a cui sono poi maggiormente esposti i potenti [18], che quanto alle peculiarità della critica è espressa in forma satirica: «Con riferimento specifico al diritto di critica politica (…) il rispetto della verità del fatto assume rilievo limitato, necessariamente affievolito rispetto alla diversa incidenza sul versante del diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010 - dep. 10/02/2011, Simeone e altri, Rv. 249239). Tale affermazione trova eco in una recente decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo (sez. 2, sentenza del 27 novembre 2012, Mengi v. Turkey), che distingue tra “giudizi di fatto” e di “valore”, laddove mentre l'esistenza del fatto può essere soggetta a prova, il giudizio di valore non può esserlo, poiché la richiesta di dimostrare la verità di un giudizio di valore determina un evidente effetto dissuasivo sulla libertà di informare.
2.2 Il limite immanente all'esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituito dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico e che comunque non si trascenda in gratuiti attacchi personali (Sez. 5, n. 8824 del 01/12/2010 - dep. 07/03/2011, Morelli, Rv. 250218; Sez. 5, n. 38448 del 25/09/2001, Uccellobruno, Rv. 219998).
2.3 Va poi tenuto conto della perdita di carica offensiva di alcune espressioni nel contesto politico, in cui la critica assume spesso toni aspri e vibrati e del fatto che la critica può assumere forme tanto più incisive e penetranti quanto più elevata è la posizione pubblica del destinatario (Sez. 5, n. 27339 del 13/06/2007, Tortoioli, Rv. 237260). (…) Di conseguenza quanto maggiore è il potere esercitato, maggiore è l'esposizione alla critica ….». E ancora «la continenza formale non equivale a obbligo di utilizzare un linguaggio grigio e anodino, ma consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della polemica, ai fatti narrati e rievocati. Tale considerazione è tanto più valida, allorché il giornalista ricorra ad argomenti ironici o satirici (…) lo scritto satirico, al pari della vignetta, mira all'ironia sino al sarcasmo (…) nell'apprezzare il requisito della continenza, allora, il giudice deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale dello scritto satirico, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell'espressione».
Da ultimo appare necessario ricordare, sia pur brevemente, l’orientamento in tema di critica sindacale e di critica al datore di lavoro anche quando formalizzata in una vera e propria denuncia penale.
Riguardo alla prima, sono sufficientemente indicative due pronunce, una molto risalente ed una molto recente, già segnalate in un intervento di un anno fa [19]. Cassazione 11436/95, secondo la quale «il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale, ha distinti rapporti con il datore di lavoro. Quale lavoratore subordinato è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti; in relazione alla sua attività di rappresentante sindacale si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro che esclude che sia proponibile un qualsiasi vincolo di subordinazione. La sua attività infatti è espressione di una libertà garantita dalla Costituzione, articolo 39, ed in quanto diretta alla tutela di interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro non può essere in qualche modo subordinata alla volontà di quest’ultimo. La contestazione dell’autorità e supremazia del datore di lavoro, mentre costituisce insubordinazione nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, è caratteristica della dialettica sindacale. Non può perciò essere sanzionato disciplinarmente tale comportamento del lavoratore sindacalista (…)». Particolarmente significativa ai nostri fini è poi Cass. 3484/2017, perché riferita ad un licenziamento intimato ad un proprio dipendente ed attivista da Fiat Group Automobiles s.p.a., poi divenuta F.C.A. Italy s.p.a. ovvero la ricorrente nella sentenza in commento e perché in quell’occasione le critiche del delegato sindacale licenziato avevano un tenore obiettivamente molto più aggressivo rispetto all’onorabilità ed al decoro del destinatario. Così le ricostruisce la Cassazione: «La società gli aveva addebitato di aver inviato a 44 lavoratori, utilizzando l’indirizzo di posta elettronica dell’azienda, una mail contenente frasi offensive nei confronti del vertice aziendale F. quali “i ricatti posti in essere da F. nei confronti dei lavoratori di Pomigliano”, esortando altresì i colleghi destinatari a mettersi in contratto con tali lavoratori ed allegando una lettera asseritamente proveniente dai lavoratori della sede di T. in Polonia, in cui vi era l’incitamento conclusivo a “resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni ed ora ci sputa addosso”». In quell’occasione, tuttavia, la suprema Corte ha confermato la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, ritenendo «che l’invio della mail, oggetto di contestazione, rientrava comunque nel diritto di critica e di libertà sindacale derivatagli dagli artt. 1 e 14, legge n. 300/70 e dall’articolo 21 Costituzione, in quanto rientrante a pieno titolo nell’esercizio del diritto allo svolgimento di attività sindacale, di cui sono titolari tutti i lavoratori indistintamente, anche a prescindere da una specifica carica rappresentativa sindacale. E ciò, sia in ragione del contenuto della mail, sia delle modalità espressive utilizzate, sia della salvaguardia del normale svolgimento dell’attività aziendale. Asserendo − ancora in adesione del pensiero espresso dalla corte d’appello − che per valutare il tenore delle espressioni usate, queste andassero lette, non a sé stanti, ma nel contesto della conflittualità aziendale che, in relazione alla vertenza di Pomigliano, aveva raggiunto, notoriamente, toni forti, documentati da molti articoli di stampa nei giorni precedenti» [20].
E nello stesso Cass. 18176/2018: «Il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, in relazione all'attività di sindacalista si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest'ultimo».
Allorquando la critica sia trasfusa in un vero e proprio atto di denuncia, infine, il punto di equilibrio si sposta sensibilmente in favore del diritto di critica del lavoratore: “L'esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall'art. 333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell'illecito o della estraneità allo stesso dell'incolpato». Ciò in ragione del fatto che «la collaborazione del cittadino, che risponde ad un interesse pubblico superiore, verrebbe significativamente scoraggiata ove quest'ultimo potesse essere chiamato a rispondere delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi a seguito di denunce che, sebbene inesatte o infondate, siano state presentate senza alcun intento calunnioso». Dovendosi, pertanto, «escludere che nell'ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all'autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore» (Cass. 4125/2017).
4. Una conclusione?
Nella pronuncia oggetto del presente commento, come si è detto, il principio di diritto violato dalla Corte territoriale è stato individuato sul terreno della continenza formale, rispetto al quale la Cassazione introduce riferimenti restrittivi apparentemente impercettibili, ma che tali, a ben vedere, non sono soprattutto se confrontati con gli arresti precedenti sopra riportati.
Ci dice, anzitutto, che la satira, pur essendo per propria natura strutturata sul metro del grottesco, del paradosso e dell’iperbole, richiede comunque «forme espositive misurate», perché altrimenti si correrebbe il rischio di «annichilire» il contraddittore ed esondare dai «canoni dell’ordinaria convivenza civile». Per cui non sarebbe «effettivo» un giudizio di bilanciamento fra i più volte ricordati diritti costituzionali che non tenesse conto di tali specificazioni, assunte semplicemente come autoevidenti, senza individuare il punto di crisi delle argomentazioni del giudice di merito.
Così ragionando finiscono per dissolversi, perché non richiamati né sostituiti da altri, una serie di fondamentali parametri di giudizio: le ragioni del dissenso espresso; la «rilevanza sociale dell’argomento»; la natura «gratuita» o meno delle espressioni potenzialmente lesive dell’onore e del decoro; l’interesse pubblico generale che legittima la satira ad assumere «forme tanto più incisive e penetranti quanto più elevata è la posizione pubblica del destinatario». Finanche la stessa consapevolezza della storia millenaria della satira, che ha avuto per esplicito obiettivo la fustigazione dei potenti fin da quando Seneca «zucchificò» [21] l’imperatore Claudio additandolo a emblema di arroganza e stupidità.
Paragonata a quell’antichissimo esempio, la rappresentazione scenica del funerale dell’amministratore delegato F.C.A. (la cui «posizione pubblica» non sarà stata pari a quella d’un imperatore romano, ma non era di certo poco «elevata»), allestita da operai sindacalisti che avevano vissuto il dramma dei suicidi di propri compagni dovuti alle situazioni lavorative vissute, non pare proprio trasmodare in offese gratuite addirittura tali da «annichilire» il destinatario delle stesse.
Viene alla mente una vecchia espressione, apparentemente oramai in disuso, ma che pure non ha perduto nulla della sua attualità: «politicità della giurisdizione». In un profondo commento al bel libro di Giovanni Palombarini e Gianfranco Viglietta sulla storia di Magistratura democratica [22], Nello Rossi ha ricordato come quella storia abbia avuto origine da tre grandi fratture con il passato. La terza di tali fratture, quella che qui interessa, concerneva la separazione da «una vetusta idea della neutralità del magistrato, una frattura coscientemente perseguita in tempi in cui il diritto era essenzialmente tecnica (…) di più, era dogmatica giuridica (…) attraverso la dogmatica il passato dominava il presente, condizionava il futuro. La trama dei rapporti sociali sottesa alle norme giuridiche era ben poco visibile. I destinatari del diritto diventavano figure astratte, uguali, nonostante le loro diversità sociali ed economiche. Di fronte alla corposità della dogmatica, la prima parte della Costituzione repubblicana sembrava un testo aereo, impalpabile. Non vero diritto, ma una sorta di generico programma politico, che si poteva ignorare o relegare sullo sfondo nell’applicazione quotidiana del diritto positivo. Il diritto dogmatica, il diritto tecnica era dunque un formidabile strumento di potere, amministrato in naturale sintonia con il modo di sentire delle classi dominanti dalla stragrande maggioranza dei magistrati».
Il riferimento alla politicità della giurisdizione è stato, dunque, nel contempo, uno smascheramento, l’acquisizione di una consapevolezza ed una scelta di campo. Lo smascheramento della finta neutralità proposta dalla dogmatica giuridica, l’acquisita consapevolezza della «ineliminabile discrezionalità interpretativa del magistrato», la scelta trasparente di orientare quella discrezionalità in senso costituzionale, attraverso «l’immissione della Costituzione e delle sue norme nella concreta attività dei giudici, non come disposizioni meramente programmatiche, ma come le prime e fondamentali regole da applicare nell’amministrazione della giustizia» [23].
In un altro breve, ma memorabile intervento, un collega che ci ha lasciati troppo presto, Carlo Maria Verardi, ricordava il «ruolo essenziale» della giurisdizione nella «grande sfida democratica», la quale «… non si consuma soltanto in uno scontro fra schieramenti politici ma propone una costante tensione di valori che trovano inevitabilmente nella giurisdizione, il luogo di visibilità, di conflitto e di possibile affermazione. Ciò avviene sul metro non delle compatibilità economiche ma del diritto, dei princìpi di questa Costituzione e dei diritti fondamentali sanciti a livello internazionale: sta in ciò l’insopprimibile politicità della giurisdizione e di quella civile in particolare» [24].
O ancora, per dirla con Giovanni Palombarini, la critica mossa in quegli anni «…postulava il tendenziale rifiuto dei procedimenti astrattizzanti che caratterizzavano e caratterizzano il modello tradizionale di interpretazione della legge, fondato sull’inversione idealistica del rapporto fra norma e realtà, in virtù della quale è la norma e non la realtà ad essere assunta a oggetto naturale e primario di conoscenza, mentre la realtà, i fatti, scadono a “fattispecie giuridiche”, a riflessi mutevoli e contingenti degli immutabili schemi normativi» ed ancora [25], «non è più la norma che è assunta quale dato naturale di cui è scontata, secondo le soluzioni giurisprudenziali canonizzate della tradizione, la capacità rappresentativa del fatto, ma è il fatto ad essere assunto come oggetto primario e privilegiato di conoscenza, non più segmenti frazionati e avulsi dal contesto come il formalismo postula. (…) In forza di questo capovolgimento il giudizio non consisterà più nell’estrarre dal fatto gli elementi “giuridicamente rilevanti” rispetto alle norme da applicare, dommaticamente assunte a schemi rigorosi e coerenti di interpretazione del mondo, bensì, al contrario, nell’estrarre dalle norme, con procedimento inteso a conoscerne e a risolverne di volta in volta sulla base del caso concreto le innumerevoli ambiguità e contraddizioni, i criteri di valutazione e di giudizio “fattualmente rilevanti”, cioè volta a volta più adeguati al fatto considerato e appreso nella sua interezza» [26].
Non è allora difficile riconoscere nella pronuncia della Corte d’appello di Napoli lo sforzo cognitivo volto a far emergere «la trama dei rapporti sociali sottesa alle norme giuridiche». La Corte napoletana ricostruisce in modo compiuto il tessuto normativo sotteso alla vicenda, i principi che lo innervano ed il percorso valutativo da compiere per assicurarne il necessario equilibrio. Del pari, essa procede anche alla tenace ricerca dei fatti, alla ricostruzione del contesto in cui compiutamente si declinano e fa sì che siano proprio i fatti del mondo a dotare di senso norme e principi astratti, altrimenti esposti ad «ambiguità e contraddizioni», oltre che ad un opaco esercizio della discrezionalità dell’interprete.
Ed altrettanto difficile è non vedere, nelle censure della Cassazione, forti tracce di quella dogmatica giuridica che fa delle norme e dei principi da esse estratti «schemi rigorosi e coerenti di interpretazione del mondo» attraverso i quali diritti costituzionali fondamentali tornano ad essere relegati sullo sfondo. Il giudice di legittimità declina formule giuridiche, «dogmi» per dirla con Rossi e Palombarini e ne dà per acquisita quella pertinenza che avrebbe dovuto, invece, quanto meno esplicitare. Che la rappresentazione allestita dagli operai licenziati fosse macabra è indubitabile, ma macabro non vuol dire osceno e nemmeno offensivo è il mezzo usato. Quello della rappresentazione scenica teatrale, era un mezzo che di per sé stesso si basava su una associazione (morte e morte) di tipo visivo e non di tipo verbale. Lo scritto era illustrativo della scena in cui il suicidio era per pentimento (e dunque nella prospettiva della rappresentazione una cosa buona e non cattiva). La Cassazione non spiega perché una simile rappresentazione evocherebbe «uno scontro violento e sanguinario» ed addirittura «annichilirebbe nella propria dignità» il datore di lavoro. Si limita ad enunciarlo e tanto dovrebbe bastare. Enumera una serie di aggettivi («riprovevoli», «disonorevoli», «violenti», «deprecabili»), ma palesemente omette di argomentarne la riferibilità ai fatti. Eppure la verità dei suicidi non può essere negata, come non può essere negato che siano stati determinati dalla condizione di cassintegrati in cui si trovavano i lavoratori da oltre sei anni, dal limbo degradante dell’assenza del lavoro e della dignità che ne consegue. Non possono essere negate le modalità cruente con cui sono stati eseguiti, non può essere negato il dramma vissuto dai compagni di lavoro superstiti, la contiguità temporale (una settimana appena) fra il secondo suicidio e la rappresentazione, la notorietà di quei tragici eventi già oggetto di analoghe critiche da parte dei media e della politica regionale e nazionale, tanto da suonare amaramente paradossale che solo ai compagni dei morti la critica debba essere interdetta e, con essa, la possibilità di manifestare le ragioni del loro dolore. Tanto più che, a guardarla con le lenti della nostra Costituzione, quella messa in scena altro non sembra che la rappresentazione della morte della «responsabilità sociale dell’impresa» di cui all’art. 41.
Giunti a questo punto, la ricerca dell’ampiezza prospettica evocata all’inizio, dovrebbe portarci ancor più all’indietro, per far riemergere consapevolezze che, in decenni di meccaniche ripetizioni di formule, paiono sprofondate nell’inconscio collettivo dei «cultori della materia».
Prima d’ogni altra, la consapevolezza del fatto che, a fondamento dell’intera costruzione dei limiti al diritto di critica del lavoratore subordinato, sta un’interpretazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cc che va talmente oltre la lettera della norma da assumere un valenza, per quanto pacifica e mai contestata, questa sì incontestabilmente creativa [27], giacché la clausola generale da cui tutto discende non è neppure contenuta nel testo normativo, ma solo nella sua rubrica.
Eppure, attraverso quel riferimento in rubrica alla “fedeltà”, l’obbligo per il lavoratore subordinato di «non … trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio» si è trasformato in un dovere di conformazione che investe un’amplissima gamma di comportamenti che nulla hanno a che fare con l’adempimento contrattuale e possono investire fatti socialmente o eticamente riprovevoli [28], fatti penalmente rilevanti [29] o, appunto, l’esercizio del diritto di critica che sovente è anche manifestazione del conflitto di classe. Del quale, pertanto, l’obbligo di fedeltà si presta ad essere un efficace mezzo di prevenzione e profilassi.
Come ricordavano due maestri della materia, «tutti i debitori e tutti i creditori devono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e secondo buona fede (art. 1375 c.c.); come dire oltre la lettera della legge e del contratto. Ma è opinione orrente che dai debitori di lavoro si debba pretendere una buona fede particolarmente accentuata e dunque un comportamento che, improntato a spirito di iniziativa o (a seconda delle circostanze) di sopportazione, permetta lo svolgersi in quiete del lavoro. Tutti i debitori e tutti i creditori debbono onorare la parola data, come vuol far capire la retorica legislativa (“il contratto ha forza di legge fra le parti”: art. 1372, 1° comma c.c.). Ma è opinione corrente che dai loro debitori i creditori di lavoro devono potersi aspettare atteggiamenti di natura sentimentale o psicologica d’intensità paragonabile a quella che un coniuge ha diritto di aspettarsi dall’altro. Insomma, sono in parecchi a ritenere che sia insufficiente il richiamo alle clausole generali della correttezza e della buona fede in funzione interpretativo-integrativa del contratto di lavoro e della sua disciplina; l’elasticità dei loro contenuti è sembrata inadeguata sia dal punto di vista quantitativo sia, e soprattutto, dal punto di vista qualitativo. Per questo si è creduto di dover richiamare la più pregnante delle clausole generali, la fedeltà, che è anche la più dotata di carica emotiva e, a differenza delle altre, capace di coinvolgere la persona del lavoratore nella sua interezza per il raggiungimento del fine produttivo» [30].
È probabilmente in queste amare considerazioni il nucleo rimosso degli infiniti ragionamenti attorno al diritto di critica del lavoratore subordinato, troppo spesso condotti, per tornare a quanto appena detto, secondo i canoni di quella dogmatica giuridica che pretende di acconciare i fatti alle proprie formule e di scolorire il dramma del conflitto, nel «diseguale» rapporto di lavoro, dietro un giudizio meramente formale di bilanciamento fra contrapposti interessi.
[1] Ritenendo determinante la circostanza che i lavoratori risultavano essere militanti del sindacato COBAS che non aveva rappresentanti nello stabilimento ed il fatto che avessero dichiarato di avere agito quali semplici componenti del «comitato di lotta dei licenziati e cassintegrati FIAT».
[2] Ritenuta anche dal giudice della fase a cognizione piena.
[3] C. Ponterio e R. Sanlorenzo, E lo chiamano lavoro…, Edizioni Gruppo Abele, 2014, Torino, p. 37. Un giudice, per usare ancora le efficaci parole delle autrici, cui «non è più consentito nascondersi dietro lo schermo del formalismo per evitare di andare incontro alle persone e alle questioni che queste portano nelle aule ed è richiesta anzitutto attenzione e, perché no, umana curiosità sull’effettivo svolgimento dei fatti raccontati negli atti del fascicolo».
[4] Sia consentito ricordare l’articolo dedicato a tali vicende, come sempre molto efficace ed approfondito, dal compianto Alessandro Leogrande, https://www.internazionale.it/reportage/maila-iacovelli/2014/10/27/reparti-confino-in-italia-9
[5] L’assenza del concreto danno materiale e morale, peraltro né allegato né tantomeno provato dal datore di lavoro, ha indotto il giudice del reclamo ad escludere anche che la condotta contestata potesse ricadere nell’ipotesi di illecito disciplinare descritta dall’art. 32 del CCNL, che proprio nel danno ha un suo elemento costitutivo.
[6] Cfr. Cfr. M. Meucci, In tema di critica e di satira sindacale, www.filodiritto.com, 28 febbraio 2017.
[7] Risuona, semmai, significativa la puntigliosa ricostruzione, ivi operata, delle differenze fra giudizio di merito e di legittimità: «Va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass.16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718). Infatti, il controllo in sede di legittimità della adeguatezza della motivazione del giudice di merito non può servire a mettere in discussione il convincimento in fatto espresso da quest'ultimo, che come tale è incensurabile, ma costituisce lo strumento attraverso il quale si può valutare solamente la legittimità della base di quel convincimento e neppure consente di valutare l'eventuale ingiustizia in fatto della sentenza; pertanto, il vizio riscontrato deve riguardare un punto decisivo, tale, cioè, da rendere possibile una diversa soluzione ove il relativo errore non fosse stato commesso (Cass. 12 febbraio 2000, n. 1595; Cass. 16 maggio 2003, n. 7635; Cass. 16 gennaio 1996, n. 326)».
[8] R. Beninato, I labili confini del diritto di critica dei lavoratori nei confronti dell’ente datoriale, www.altalex.com, 31 maggio 2007 e, nello stesso senso P. Rocchetti, Diritto di critica del lavoratore, suoi limiti ed esercizio, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale, in questa Rivista on-line, 17 maggio 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/diritto-di-critica-del-lavoratore_suoi-limiti-ed-e_17-05-2017.php.
[9] Nella citata sentenza n.1173, così espresso: «Il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero in forma critica non basta di per sé a legittimare la lesione di beni costituzionalmente garantiti, ma questa può essere giustificata se l’azione che la pone in essere sia ragionevolmente e prudentemente ordinata al soddisfacimento di interessi di rilievo almeno pari a quello del bene leso».
[10] Ad es. Cass.7091/2001: «Non è necessario ancorare la condotta del rappresentante sindacale alla precisa violazione dell'art. 595 del codice penale, perché in presenza di norme costituzionali di tutela della dignità della persona, è possibile la configurazione di un illecito in termini civilistici ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., integrabile quindi anche con un comportamento meramente colposo (al di fuori del dolo generico richiesto dalla norma penale), che si svolga anche alla presenza, dell'offeso (diversamente da quanto prevede la norma penale)».
[11] In questa pronuncia, relativa alla vicenda di un lavoratore poi licenziato che aveva enunciato per estorsione il datore di lavoro la Cassazione ricorda che «spetta al giudice del merito, adito in sede civile per la verifica della legittimità o della illegittimità del licenziamento (…), accertare tutte le modalità del caso concreto (…) e appurare se il lavoratore si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o con colpa grave, la soglia del rispetto di quella verità oggettiva di cui è sopra parlato».
[12] Ad esempio, in Cass. 4952/1998, che in parte motiva parla, non di verità, ma di “veridicità” o in Cass. 29008/2008, nella quale, con riferimento alla divulgazione di notizie diffamatorie in danno del datore di lavoro, si stigmatizza il comportamento del lavoratore “che aveva tutte le possibilità di documentarsi sulla veridicità o meno delle proprie accuse prima di lanciarle in pubblico”.
[13] Cass. 21362/2013 e la recentissima Cass. 18176/2018 a proposito di un documento che era costato il licenziamento ad un lavoratore sindacalista, afferma: «Non risulta esorbitare dal diritto di critica legittimante esercitabile dal dipendente nei limiti della continenza e della veridicità dei fatti menzionati (…), assumendo rilievo l'esposizione veritiera e corretta di un fatto nell'esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sia dal punto di vista sostanziale che formale. In particolare, sotto il primo profilo, i fatti narrati devono appunto corrispondere alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva … (Cass. n. 22375 del 2017, Cass., n. 23798 del 2007)». Nello stesso senso la già citata Cass. 7471/2012, sempre con riferimento a sanzione disciplinare inflitta ad un lavoratore sindacalista: «In tema di esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, è necessario che il prestatore non travalichi, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva».
[14] Afferma, ad es., Cass. 14822/2012: «In conformità a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte Regolatrice, a partire dal noto arresto del 18 ottobre 1984, n. 5259, per considerare la divulgazione di notizie lesive dell'onore lecita espressione del diritto di cronaca ed escludere la responsabilità civile per diffamazione, devono ricorrere tre condizioni consistenti: a) nella verità oggettiva (o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca); b) nella sussistenza di un interesse pubblico all'informazione, vale a dire nella c.d. pertinenza (Cass. civ. 15 dicembre 2004, n. 23366; Cass. civ. Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259); c) nella forma “civile” dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, e cioè nella c.d. continenza, posto che lo scritto non deve mai eccedere lo scopo informativo da conseguire; deve essere improntato a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio; deve essere redatto nel rispetto di quel minimo di dignità cui ha pur sempre diritto anche la più riprovevole delle persone (Cass. 18 ottobre 1984 n. 5259)». Nello stesso senso Cass. 5259/1984; Cass. 1205/2007; Cass. 23366/2004.
[15] Cfr., ex multis, Cass. 16311/2018, laddove è detto che «è appena il caso di osservare che giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità la lesione dell'onore e della reputazione altrui non si verifica quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, condizionato all'esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva della notizia pubblicata; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); la correttezza formale dell'esposizione (c.d. continenza)». Nello stesso senso, Cass. 4871/95, Cass. 8284/96, Cass. 5947/97.
[16] Cass. 7798/2010. Vds. anche Cass. 1434/2015: «La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo stabilito che il diritto di cronaca e quello di critica sono tra loro non coincidenti, in quanto il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione veritiera di fatti, ma si esprime in un giudizio che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi, fermo restando che il fatto presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa …. (sentenza 6 aprile 2011, n. 7847). Il diritto di critica, in quanto manifestazione della propria opinione, non può essere, per sua intrinseca caratteristica, totalmente obiettivo e può manifestarsi anche con l'uso di un linguaggio colorito e pungente (sentenze 9 maggio 2011, n. 10125, non massimata sul punto, nonché 6 agosto 2007, n. 17180)». Nello stesso senso Cass. 25420/2017. Illuminante Cass. 10495/2009. Sulla rappresentazione ispirata alla nota tragedia di Vermicino del 1981, monologo messo in onda dalla RAI, nel quale, tra l'altro, si affermava: «Sono le mamme che gettano i bambini nei pozzi; Alfredino, Jessica, Tommaso non sono caduti per sbaglio nei cunicoli, sono le mamme che li hanno buttati, poi hanno inscenato il pianto e la disperazione, le ipocrite assassine, le infanticide; nessuna mamma uccide per uccidere la sua creatura, Alfredino, Jessica, Tommaso, ma per farla tornare nel ventre, nelle ovaie e così apre la terra come una vagina, senza il minimo di rimorso o di ripensamento». La Corte ha accolto il ricorso avverso la sentenza di condanna rilevando: «La profonda diversità esistente tra la notizia giornalistica, l'attività saggistica o documentaristica, da una parte, e l'opera artistica, sia essa teatrale, letteraria o cinematografica, dall'altra», le prime avendo «lo scopo di offrire al lettore o allo spettatore informazioni, notizie, fatti, vicende, esposte nel loro nudo contenuto o ricostruite attraverso collegamenti e riferimenti vari», le seconde caratterizzandosi «per l'essenziale connotato della creazione, ossia di quella particolare capacità dell'artista di manipolare materiali, cose, fatti e persone per offrirli al fruitore in una visione trascendente gli stessi, tesa all'affermazione di ideali e di valori che possano trovare riscontro in una molteplicità di persone»… l’opera artistica «adopera gli strumenti della metafora, del paradosso, dell'iperbole; comunque, esagera nella descrizione della realtà tramite espressioni che l'amplificano, per eccesso o per difetto». Ben diverso è, dunque, il tipo di accertamento demandato al giudice rispetto a quello da condurre «con riguardo all'esercizio dell'attività giornalistica e documentaristica (…) in quanto l'arte non è affatto interessata, né deputata ad esprimere la realtà nella sua verità fenomenica». Nello stesso senso, fra le tante, Cass. 7798/2010.
[17] Cass. 28411/2008.
[18] Coerentemente con l’idea, espressa, quasi un secolo or sono, dal grande giudice della Corte suprema statunitense Louis Brandeis, secondo cui «L'attenzione pubblica è giustamente lodata come rimedio ai mali sociali e industriali. La luce del sole è considerata come il migliore dei disinfettanti; la luce elettrica il miglior poliziotto».
[19] M. Meucci cit.
[20] Così riassume M. Meucci, In Tema di Critica sindacale, cit.
[21] Seneca (4 a.C. - 65 d.C.), Apokolokýntosis .
[22] N. Rossi, Magistratura Democratica tra eresia e riforma, in Questione Giustizia trimestrale, vol. 1, 2012, p. 171, Franco Angeli editore, Milano.
[23] N. Rossi, cit..
[24] C.M. Verardi, L’orgoglio di stare in Magistratura democratica, in Questione Giustizia trimestrale, edizioni Franco Angeli, Milano, n. 5/2001, pp. 819 ss., in Il Foro Italiano, Vol. 124, n. 11 (novembre 2001), pp. 359-360 e pp. 363-364, con il titolo L’insopprimibile politicità della giurisdizione; in Quaderni di Questione Giustizia, L. Pepino (a cura di), Diritto, giurisdizione, democrazia. Per una tutela effettiva dei diritti. Atti del XIII Congresso nazionale di Magistratura democratica, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 240 ss. e, da ultimo, in http://www.magistraturademocratica.it/mdem/50anni/l-orgoglio-di-stare-in-magistratura-democratica.php.
[25] Citando Le parole con cui Luigi Ferrajoli, in un convegno catanese dal titolo volutamente polemico (L’uso alternativo del diritto) che scatenò innumerevoli ed interessate reazioni, descriveva quel metodo alternativo di interpretazione che ci si proponeva.
[26] Giudici a Sinistra-I 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp.105-106.
[27] Il tenore estremamente ampio, indeterminato ed elastico che l’obbligo di fedeltà del lavoratore assume, secondo l’interpretazione che si va a ricordare, pur essendo «patrocinata sulla base di elementi extra testuali», non ha mai sollevato dubbi analoghi a quelli da cui muove, ad esempio, Cass. 25201/2016, per censurare l’opinione secondo cui per ritenere legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si dovesse provare l’esistenza di un andamento economico aziendale negativo. Eppure anche in questo caso potrebbe dirsi, mutuando le parole usate in quella pronuncia, che si è «affidato al giudice il compito di contemperare ex post interessi confliggenti, stabilendo quello prevalente», sebbene «un tale potere non trovi riscontro nella legge».
[28] Ex plurimis, Cass. 1978/2016, relativa ad un caso di licenziamento di un lavoratore che aveva ripetutamente approfittato dei favori sessuali di una persona in evidente stato di bisogno e con gravi problemi psichici, al di fuori dell’orario di lavoro ed all’interno della propria autovettura, pur parcheggiata nei pressi dei locali aziendali.
[29] Ad es.: Cass.2626/1998 ha ritenuto giusta causa di licenziamento la falsa testimonianza resa dal lavoratore in un processo civile fra terzi; Cass. 9299/2004, relativa al licenziamento di un operaio caposquadra arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti; Cass. 3270/1998, relativa al licenziamento di un assistente di volo trovato in possesso di grammi 8 di marijuana, fatto ritenuto non punibile in sede penale per destinazione ad uso personale dello stupefacente.
[30] G. Ghezzi, U. Romagnoli, Il rapporto di lavoro, terza ed., Zanichelli, 1999, Bologna, pp. 173-174.