Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Nuove riforme, vecchi stereotipi

Il dialogo tra giurisprudenza e psichiatria non sarà possibile senza una rivoluzione culturale. L’indispensabile necessità di superare le criticità insite nella chiusura degli OPG, le misure di sicurezza detentiva e le REMS.

1. Premessa

Da sempre la psichiatria è schiacciata sul binomio cura/custodia. La corrente culturale che definiva, sulla base di una riduzione positivistica (tipica della seconda metà dell’800) la psichiatria strettamente legata alla neurologia, ha consentito delle spinte verso il controllo sociale, che fino al 1978 sono state garantite dal manicomio. Ciò a causa del pregiudizio che la patologia psichiatrica fosse associata alla pericolosità. Nella legge del 1904 che ha governato il sistema fino al 1978, questo approccio era esplicitato nelle ragioni del ricovero in Ospedale Psichiatrico “pericoloso a sé e agli altri o di pubblico scandalo”, così come anche dal fatto che la decisione per l’internamento definitivo venisse presa da un magistrato. Gli esiti di queste decisioni andavano in molti casi a configurare il cosiddetto ergastolo bianco, laddove mancando i presupposti e la volontà di attuare un cambiamento, la revoca di questa condizione non avveniva mai. Inoltre, il paziente internato veniva iscritto nel casellario giudiziario, interdetto e perdeva il diritto al voto. 

Questo pre-giudizio incide fortemente ancora oggi sulla cultura complessiva nel campo della salute mentale determinando stereotipi dei quali sono vittime i cittadini, gli utenti e purtroppo qualche volta anche gli operatori dei servizi. Da ciò nasce “l’alleanza” tra psichiatria e giustizia correttamente analizzata Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia ne La maggioranza deviante (1971).

Con la rivoluzione basagliana l’attenzione è stata spostata dagli aspetti custodialistici e repressivi che oggettivavano il paziente, agli aspetti di presa in carico e di cura sanitaria (modello bio-psico-sociale). La Legge 180 confluita nella Legge n. 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, purtroppo aveva lasciato irrisolta la questione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e quindi degli autori di reato. Lo stesso Basaglia (1979) si proponeva di combattere il manicomio giudiziario in quanto alla stregua di una «prigione speciale». 

La prospettiva non è solo quella di modificare i luoghi con il rischio di un mero trasferimento da un’istituzione a un’altra, ma di portare avanti una specificità e differenziazione degli interventi (Piccione, 2014).

Ciò detto, un susseguirsi di tragici fatti di cronaca nera che hanno visto come attori negativi persone con presunto disagio psichiatrico, spesso di natura assai complesso e incerto per il sovrapporsi di uso di sostanze e non solo, ha rianimato il dibattito sulla presunta necessità di aumentare i posti letto nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) e i modi di trattare i cittadini autori di reato dichiarati incapaci di intendere e volere per infermità totale o parziale di mente al momento che hanno commesso il fatto reato, ovvero non imputabili. 

Formule che possono proporre la tentazione, in una certa politica animata da un consenso di opinione pubblica basato sull’emozione del tragico, a un ritorno al passato con «tentazioni iper-restrittive», piuttosto che sforzarsi di completare la riforma definita con la Legge 81/2014 sulla chiusura degli OPG, sciogliendo le criticità ancora presenti e rinforzando la necessità di costruire una dialettica costruttiva tra magistratura e psichiatria, in una prospettiva eticamente e scientificamente progressista per il bene della collettività, per non lasciare indietro nessuno assicurando i diritti di tutti.

Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nella Relazione al Parlamento (2022) sottolinea (pag.54) che «ci sono ombre che ciclicamente tornano e che rendono sempre poco visibili e nitidi gli oggetti su cui si posano. Questa immagine ben si addice al dibattito che ritorna di tanto in tanto, attorno alla paura delle diversità, dei disturbi comportamentali e, in particolare, delle persone con grave disagio psichico. La dimensione sociale di tale disagio e il conseguente approccio multiforme per la sua composizione indolore, lascia così spazio alla assolutezza della malattia e a un approccio unidirezionale centrato sulla sicurezza: della persona e ben di più della collettività esterna».

 

2. Storiografia e introduzione al dibattito

Attualmente attraverso il lungo processo di deistituzionalizzazione iniziato con la rivoluzione etica, culturale e socio sanitaria iniziata a Gorizia[1] (1961) dal movimento basagliano e poi realizzatosi pienamente, dapprima con la trasformazione dell’Ospedale Psichiatrico (OP) di Trieste (1978) e parallelamente e subito dopo in tanti altri manicomi italiani (Parma, Perugia, Arezzo; Venezia; Genova; Roma, ecc.), e suggellato legislativamente con  la promulgazione della Legge 180/78 che sanciva la definitiva chiusura dei Manicomi italiani - e solo parte del regio decreto del 1904 il cui retaggio concettuale è ancora ben rappresentato -, si è al momento definito con Legge 81/2014. 

Atto che ha sancito la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, in luogo dei quali, le persone autori di reato ritenute non imputabili (artt. cp 85, 88, 89), ma pericolose socialmente (art. cp 203), sono accolte per il diritto alla cura e alla corretta applicazione delle misure di sicurezza detentiva, in «misura residuale», solo qualora non siano possibili altri interventi di cura territoriali per la persistenza della pericolosità sociale nelle REMS (art. cp 222).

È necessario sottolineare che la scelta e l’interpretazione della Legge 81/2014 e quindi l’indicazione esplicitata dal legislatore è che le REMS non siano i soli strumenti atti a sostituire gli OPG, ma l’insieme dei servizi sanitari e sociali di una comunità che è chiamata a farsi carico della persona a cui vengono riconosciuti doveri (ad esempio aderire alle prescrizioni del giudice), diritti e garanzie. In questo spirito la Legge dispone che la durata della misura di sicurezza non possa essere superiore alla pena massima edittale prevista per il reato commesso e definisce che la mancanza di programmi territoriali non possa essere utilizzata come motivazione per la permanenza in OPG (Pellegrini P., 2017).

La 81/2014 dispone inoltre che gestione delle strutture sia di tipo sanitaria mentre la vigilanza esterna sia affidata alle forze dell’ordine (non penitenziarie). Di fatto la regolamentazione della vigilanza esterna è stata poi realizzata attraverso le indicazioni dei Prefetti in cui insiste la REMS con tutte le diversità del caso.

È inoltre opportuno ricordare che la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) avvenne a seguito dei lavori di una Commissione d’inchiesta del Senato, che nel 2011 denunciò le condizioni disumane degli OPG italiani e determinò le condizioni per le Leggi 9/2012 e 81/2014. Il primo OPG per la custodia, e teoricamente la cura, nasce in Italia nel 1876. Si trattava quindi di strutture oramai datate perché pensate per la custodia piuttosto che per l’assistenza.

La realizzazione delle REMS (che trova un suo primo movens nell'allegato C del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1°aprile 2008[2]) e l’applicazione a regime della Legge 81/2014 nei Tribunali - «con l’affidamento della valutazione tecnica peritale (CTU) a consulenti psichiatri spesso privi di esperienze lavorative e formative nei Servizi territoriali pubblici e la mancata dialettica con i Servizi (che non può essere di sovente la sola richiesta di materiale clinico cartella/relazione sanitaria)» -, se non ben interpretata e opportunamente modificata alla luce delle indicazioni della Corte Costituzionale, può rappresentare un sovvertimento dell’impianto culturale ed etico della riforma psichiatrica italiana del 1978 e successivamente articolata con i PON 1992-94; 1996-1998; 1998-2000 e a cascata l’approccio globale alla Salute Mentale nei Servizi territoriali. 

Si assiste infatti, a un inesorabile avvitamento del sistema salute mentale da una parte, in quell’antico binomio tra necessità di cura nella custodia e dall’altra nella pretesa pressante di atti medico legali, richieste continue e asfissianti da parte delle Autorità Giudiziarie di notizie cliniche a volte fuori dalle garanzie istituzionali, consulenze, profili di personalità, ricoveri, visite preventive,  che schiacciano i Servizi territoriali della salute mentale su un’attività fortemente indirizzata sulla questione forense/peritale/custodiale, tralasciando così la mission prioritaria quale la prevenzione, la riabilitazione e la cura delle persone da disagio mentale (PANSM; PON, ecc…) e quindi la tutela della Salute Mentale dei cittadini.

I Servizi territoriali della salute mentale deprivati come sono di risorse umane, economiche e tecnologiche, vivono una lunga stagione di affanno e talvolta diventa complesso poter applicare pienamente la Legge 81/2014 in un trattamento territoriale inclusivo, soprattutto se non sarà accompagnato da una corretta interpretazione della posizione di garanzia che vincola lo psichiatra al mandato di custodia.

Quanto sopra detto, si abbinata dall’altra, a un periodico forviante contributo giornalistico, fatto da una scorretta comunicazione che spesso purtroppo ripropone costantemente nell’opinione pubblica vecchi stereotipi, mai sopiti, di pregiudizio verso le persone con disagio mentale nell’equazione: sofferenza mentale uguale pericolosità criminogena, in quella che potremmo definire una “cultura d’opinione”. Si tratta di una forma di cultura che diviene “dominante” in cui «l’opinionismo» distrugge la cultura umanistica, scientifica e sociopolitica (De Rita G., 2022). «Le menzogne convenzionali impediscono l’espressione della intelligenza e della ragione. Sono costruzioni difficili da smontare perché si alimentano con il pregiudizio» (Corleone F., 2019).

Morsa che viene usata in parte anche per delegittimare l’impianto culturale ed etico della Riforma psichiatrica basagliana e attualmente la Legge 81/2014.

Legge 81/2014 che vive una cultura ancora non adeguata a dare piena realizzazione ai suoi contenuti e recentemente oggetto della Sentenza n. 22/2022 della Corte Costituzionale la quale, pur riconoscendone la costituzionalità, «prefigura interventi correttivi al sistema che, se letti da legislatore in modo restrittivo, possono essere interpretati come un sostegno per un passo all’indietro» [Relazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale al Parlamento 2022]. Opinione ripresa dal portavoce del Coordinamento nazionale delle REMS nel documento Note sulla Relazione al Parlamento 2022 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Pellegrini P. et al., 2022).

Attualmente lo scenario che si vorrebbe imporre per risolvere il problema del «dilagare dei folli rei», si associa a una visione anacronistica e ideologica istituzionalizzante, in cui si chiede un aumento del fabbisogno di posti letto REMS - laddove dovrebbero rappresentare per il legislatore una scelta residuale. Richiesta che raccoglie una concreta difficoltà di applicazione della Legge, associate a politiche sanitarie ancora prive di un concreto investimento di risorse nei Servizi territoriali e nel potenziamento del dipartimento per l’esecuzione penale esterna (DAP).

La lezione basagliana in tema di politica sanitaria è chiara: «un servizio dovrebbe ridurre il fenomeno per cui è stato creato come risposta ad una carenza tecnico funzionale. Invece, nel momento in cui il nuovo servizio non può che tendere - come ogni istituzione inserita nel ciclo produttivo - alla propria sopravvivenza, la finalità è la produzione nel cui cerchio il malato viene assorbito come un nuovo oggetto e non come il soggetto per cui bisogni il servizio è stato creato» (Ongaro, Basaglia, 1971 pag. 31).

La proposta di aumentare le REMS è di fatto miope o ideologica, perché non si tratta di un mero problema di luoghi e contesti di cura, ma soprattutto di interpretazione e corretta applicazione della Legge 81/2014. Scelta che senza un potenziamento reale e concreto dei Servizi vedrebbe riproporre subito dopo, la necessità di trovare nuove situazioni residenziali a prova di pericolosità sociale, che richiederebbe sul territorio un ulteriore bisogno indotto di strutture residenziali che dispongano di posti dove ricoverare (leggi case di cura psichiatriche accreditate), attraverso un sistema dei vasi comunicanti, gli ospiti delle REMS. Luoghi dove si mettono in scena presunti trattamenti territoriali intensivi, gestiti formalmente dai centri di salute mentale ma appaltati alle cliniche del privato accreditato. Analisi anti-istituzionalizzazione scevra da un’ideologia fine a sé stessa, ma piena di prassi economica ovvero corretta governance della spesa. Il costo indiretto che un DSM subisce per la residenzialità psichiatrica presso le strutture private accreditate è la metà del suo budget [Monacelli G. 2022; Ministero della Salute. Rapporto salute mentale. Analisi dei dati del Sistema Informativo per la Salute Mentale (SISM) 2017; 2018; 2019; 2020]. 

Lo scenario descritto rappresenterebbe un ulteriore tassello per lo smantellamento silenzioso della matrice culturale etica e scientifica della riforma psichiatrica anti-istituzionale e del Sistema Pubblico della Salute Mentale. Si riproporrebbe nuovamente una logica di potere, gerarchia, capitale e custodia in cui la psichiatria rischierebbe di essere ancor più schiacciata «nell'alleanza originaria della psichiatria con la giustizia» (Ongaro, Basaglia, 1971).

Allora quali altre scelte andrebbero fatte? Ebbene questo lo vedremo dopo.

A proporre l’aumento delle REMS per il miglioramento della 81/2014, vi è anche la Corte Costituzionale[3].

La Corte Costituzionale, nella risposta al giudizio di legittimità costituzionale dell’impianto della Legge 30 maggio 2014, n. 81, promosso da un Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli, ricorda che le REMS «sono state concepite dal legislatore, nel 2012, come strutture residenziali caratterizzate da una logica radicalmente diversa dai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), caratterizzati da una logica esclusivamente custodiale». Mentre sostiene che «le REMS, dice che sono state - pensate invece in funzione di un percorso di progressiva riabilitazione sociale, - come - strutture di piccole dimensioni che devono favorire il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno, alle quali il malato mentale può essere assegnato soltanto quando non sia possibile controllarne la pericolosità con strumenti alternativi, per esempio con l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale». Sottolinea inoltre che la normativa che permette «la totale estromissione del ministro della Giustizia da ogni competenza in materia di REMS – e dunque in materia di esecuzione di misure di sicurezza disposte dal giudice penale – non è compatibile con l’articolo 110 della Costituzione». Sollecita inoltre che la Legge 81/2014 sia riportata dentro l’alveo della Giustizia. Infine detta un monito al legislatore «affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema, che assicuri assieme: 1) un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza e 2) la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente 3) potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività». E infine «4) forme di idoneo coinvolgimento del ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario». La Corte indica il potenziamento dei posti in REMS specificandone il quantum, passando dai 652 posti attuali a 740 «perché già avviati o in programma». Nella risposta al giudizio di legittimità costituzionale dell’impianto non è certo compito degli scriventi laddove il lavoro della Corte Costituzionale vola sempre alto per l’affermazione, il rispetto dei diritti fondamentali nelle norme rispetto la Carta Costituzionale[4].

Indicazioni quelle della Corte Costituzionale, che ci trovano in sintonia per la parte in cui chiede una riforma legislativa sulla nuova misura di sicurezza se inteso come superamento del doppio binario e quindi delle misure di sicurezza quindi nel potenziamento delle strutture sul territorio in termini di risorse umane, economiche e tecnico strumentali per i DSM, ma non sull’aumento diffuso dei posti residenziali psichiatrici tout court sul territorio nazionale che vedrebbe leso l’intero impianto della Legge 180 del 1978 e successive e non solo la Legge 81/2024.

Sostanzialmente la richiesta di aumentare i posti REMS, ripropone un vizio antico e circolare, come ci ricorda Slavich (1961): «la società aveva bisogno di nuovi manicomi per includervi le devianze dall'ordinata e legittima convivenza civile, complice il medico delegato. […]  In quegli anni era in dirittura d'arrivo la Legge 431 del 1968 (Mariotti) che i manicomi li voleva solo più piccoli e meno affollati. Il libro bianco del ministero del 1966 stimava la necessità di altri 50.000 nuovi letti negli ospedali psichiatrici italiani che per noi era un errore madornale, che non veniva di certo compensato dalla cancellazione dello stigma del casellario giudiziario e dalla possibilità di ricovero volontario né dall'aumento previsto ma potenziale del personale di assistenza una vera riforma psichiatrica doveva poter fare a meno dei manicomi».

Anche per il Garante è indubbio che «un eccessivo aumento della disponibilità di posti prefigura, infatti, il rischio reale di un uso diffuso e generalizzato della misura detentiva, assecondando, di fatto, quelle istanze securitarie ancora oggi presenti anche nella cultura della magistratura giudicante. Si darebbe in tal modo nuova linfa a quel paradigma culturale che, identificando il disturbo mentale con la pericolosità, legittimava l’ingresso della persona in Opg. […]. Come sottolineato prima il tentativo di ricondurre la gestione delle REMS dell’albero delle competenze giudiziarie seppur affievolite rischierebbe di fatto di inficiare il processo di riforma intrapreso in favore di un ritorno al passato quando la cura della persona in OPG era affidata a una sanità che soggiaceva alle esigenze prioritariamente associata alla custodia […].Scivolare in derive contenitive è direttamente facile, più difficile invece tenere la barra salda sul bisogno di una riabilitativa individualizzata considerando che se si esclude la possibilità di responsabilizzare la persona anche quella con malattia psichiatrica si escludono anche le condizioni per la sua risocializzazione possibile commissari commisurata alle sue effettive potenzialità e così il ricercato perseguimento della tutela della collettività» (Relazione al Parlamento 2022 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, luglio 2022. Pag.57 e succ.).

I dai presentati nella Relazione al Parlamento del 2022, indicano che la popolazione delle REMS è molto variegata, con la presenza di seminfermi e di persone con persone in misura di sicurezza provvisoria (oltre il 40%), situazioni non idonee alla mission di cura e riabilitazione delle REMS e che richiedono soluzioni diverse dalla misura di sicurezza detentiva. Inoltre da quanto indicato le “liste di attesa” per accedere in REMS si stanno riducendo e, pur nelle difficoltà e i limitati finanziamenti, si sta attuando la riforma e si sta realizzando un sistema di cura e giudiziario di comunità: un sistema che può essere reso ancora più efficiente incrementando il dialogo tra giustizia e servizio sanitario, tra magistratura e dipartimento di salute mentale. Si segnala che vi è stata una drastica riduzione del numero di persone sottoposte a misure di sicurezza detentiva, passate da 1387 internati in OPG al 31.12.2011 a 629 il 30.05.2019 e si evidenzia, un alto tasso di turn over, il che conduce a ritenere che, nella gran parte dei casi, il ricovero in REMS costituisca una misura transitoria, di durata limita (Melani G., 2019).

Le precedenti stime indicano che le liste di attesa per accedere in REMS oscillavano tra le 750 (stima del Dap) e le 578 (stima della Conferenza delle Regioni) persone in attesa di un posto in REMS. Numero che è destinato - come è stato - ad aumentare non essendo cambiati i criteri di invio. Come precisato dal coordinatore delle REMS, i pazienti dimessi dalle REMS sono assorbiti dal sistema di comunità, e si stima che attualmente segua 4200 pazienti sul territorio (Pellegrini P. 2022). La lista delle persone in attesa di essere inserite in REMS, è fornita dal DAP ma non trova sempre una corrispondenza coni dati che invece risultano ai Responsabili delle REMS. Questo potrebbe accadere in quanto quando vengono aggiunte le nuove richieste non vengono sottratti i casi che trovano soluzione, attraverso la modifica della misura o l’inserimento in comunità o altre residenze. Questi cambiamenti non sono comunicati al DAP e quindi la lista di attesa si allunga, favorendo strumentalizzazioni inaccettabili.

Gli autori sono invece in disaccordo con chi sostiene che il fabbisogno attuale delle REMS sia stato viziato dalla stima epidemiologica iniziale in quanto, sotto una spinta «ideologia antimanicomiale e l’indignazione pubblica contro gli ergastoli bianchi», sia stato «calcolato sulla base di un clamoroso errore analitico del flusso in/out degli internati in OPG a ridosso della loro chiusura […] che ha portato a sottostimare gravemente la reale necessità di posti letto per utenti psichiatrico forensi» (Nicolò G. 2019).

Per chi quella stagione l’ha vissuta direttamente sa bene come i Servizi della salute mentale che avevano “rimosso” dal loro mandato istituzionale i cittadini utenti accolti negli OPG, sotto la spinta dell’assessorato Regionale alla politica della salute, abbiano indirizzato il loro sguardo e le loro energie residue verso gli internati in OPG. Recuperando così il loro mandato di cura anche verso gli esclusi attraverso una valutazione, costante e forte, e una presa in cura territoriale alternativa all’OPG (in quella formula della cosiddetta licenza finale di esperimento) – si è assistito a una riduzione degli internati presenti negli OPG. Si è così constato una riduzione dei cosiddetti «ergastoli bianchi» iniziali. 

Inoltre quanto detto ha contribuito a legittimare una distinzione coerente tra le persone candidate alla cura in strutture alternative all’OPG, rispetto a quelle che attualmente sarebbero state attualmente oggetto di applicazione di una misura di sicurezza detentiva in REMS. Quel lavoro permise di estrarre un dato epidemiologico e statistico empirico per la misura del fabbisogno nel numero di posti necessari per realizzare il numero di REMS idonee. 

 

3. Punti critici

Il monito della Corte Costituzionale lascia aperte tutte le contraddizioni di un sistema “acerbo” che andiamo a sottolineare:

- quali sono i reali fabbisogni di posti in REMS quando si assiste a una continua richiesta da parte dei magistrati di collocare nelle REMS detenuti con misure di sicurezza provvisorie (art 206, sostenuto dal comma 4 della 81/2014), superando il concetto previsto dal legislatore di «misura residuale», fatto che determina una lista di attesa? Dalla rilevazione del Garante del 15/04/2021, «la misura di sicurezza in REMS ha rappresentato il 43% dei provvedimenti totali»;

- in tema di contraddizione nei diritti e prassi pratiche, l’attuale inizio di contraddittorio alla Corte europea dei diritti dell’uomo per il ricorso presentato a marzo 2022 da un giovane paziente psichiatrico per «l’illegittima privazione della libertà conseguente al mancato trasferimento in una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (“REMS”) e la mancata somministrazione da parte delle autorità italiane dei trattamenti medico-sanitari richiesti dalla sua patologia psichiatrica». Il giovane è stato dapprima recluso in carcere e, successivamente, su disposizione del magistrato, ricoverato in un reparto psichiatrico di un ospedale civile in attesa del posto letto in REMS. Contraddittorio che pone la questione sull’opportunità di chiarire che non la magistratura non può ricorrere ai reparti di psichiatria degli ospedali civili (denominati SPDC), come risposta alla mancanza di luoghi di cura all’interno della cornice delle misure di sicurezza in luogo delle REMS, o soluzioni temporanee per il contenimento della devianza generale o come "deposito custodiale" della sofferenza generalizzata, in quanto il sistema curante dell’SPDC è realizzato per pazienti con disturbo mentale in fase di acuzie. 

- sul piano come dimensione clinico-terapeutica la segnalata inidoneità delle REMS (e a maggior ragione degli SPDC), per detenuti con problemi complessi, in cui l’aspetto comportamentale che ha determinato il reato non soggiace a una elettiva sofferenza mentale, ma rappresenta l’esito multifattoriale tra cui il dilagante Disturbo da Uso di Sostanze (DUS); la disabilità intellettiva e altro. Non bisogna mai tralasciare il contesto sociale e comunitario di provenienza ovvero il tessuto disadattivo in ci si è cresciuti (regole d’ingaggio con la società), laddove la devianza si rappresenta con aspetti personologici variegati con predominanza di tratti antisociali associati a psicopatia, il cui trattamento nelle REMS diventa inopportuno inefficace e a discapito degli altri ospiti;

- non ultimo, la portata della sentenza della Cass. pen, sez V penale 27 giugno 2000; Cass. pen., sez I, 25 marzo 2004 n.16940 e Cass.pen., sez.I, 9 aprile 2003 n.19532, «che ha sviluppato un orientamento che ritiene che il concetto di infermità recepito dal codice penale sia più ampio di quello di malattia e che quindi vi possono essere soggetti incapaci di intendere e volere, seppure non malati in senso stretto»[5].

Il nucleo del problema è rappresentato da una legislazione, che poggia sui piedi di creta di un codice penale del 1930, che prevede ancora oggi il “doppio binario2. Sistema che permette la non imputabilità per «vizio totale o parziale di mente» (art. 88) e quindi la deresponsabilizzazione della persona autore di reato - perché solo in quel momento è folle - a cui si accompagna però la prescrizione di un ulteriore regime insito nella misura di sicurezza. 

 

4. Il doppio binario e imputabilità

Rammentiamo che il sistema del “doppio binario”, nasce dalla scuola giurista dei cosiddetti positivisti che nutrivano grandi riserve sul libero arbitrio e sulla conseguente responsabilità soggettiva: l’uomo delinquente sarebbe determinato al delitto in forza di una legge di causalità naturale che lo costringe a commettere il reato. Ciò fa del delinquente un soggetto “pericoloso”, incline per cause antropologiche o sociali, a commettere azioni in danno della società. Subentrano così ai principi classici quelli positivisti di pericolosità sociale e reazione penale quale strumento di “profilassi sociale”. 

Le misure pertanto non devono essere proporzionate alla gravità del fatto ma alla pericolosità del reo e, nella loro applicazione, devono variare nella forma per adattarsi alle diverse tipologie psichiche di delinquente. Tali sanzioni per esplicare la loro efficacia sarebbero dovute essere indeterminate nella durata e derogabili col cessare della pericolosità. Dal momento che anche i fatti psichici sono sottoposti al principio di causalità (determinismo psichico), il libero arbitrio, considerato una illusione psicologica, non ha più senso. Date queste premesse la Scuola positiva arriva inevitabilmente a negare la stessa categoria dell'imputabilità e la distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili. Fu proprio la Terza Scuola ad offrire ai compilatori del codice Rocco una nuova prospettiva di sintesi che fosse in grado di conciliare le due visioni antagoniste. Fu necessario capire quale dovesse essere la funzione della pericolosità e coniugarla alle garanzie dei diritti di libertà del cittadino affermati dalla tradizione classica del diritto penale. L’elaborazione delle misure di sicurezza permise di innovare il sistema penale assecondando la logica repressiva dello Stato fascista e in continuità con i canoni della tradizione penalista classica. Le misure di sicurezza nella visione «sincretista e alternativa» del codice furono affiancate alla pena che mantenne la tradizionale funzione retributiva e di repressione, mentre sui soggetti pericolosi la nuova sanzione esplicava le sue finalità preventive. Sugli autori non imputabili queste operavano come sanzione esclusiva, ma venivano applicate in funzione aggiuntiva-integrativa nei confronti degli autori imputabili (doppio binario). Per i positivisti, il malato di mente costituiva un pericolo maggiore perché privo di capacità di autodeterminarsi (Guglielmini C; De Francesco G. 2013/14; Melani G., 2019).

Si tratta quindi di far riemergere il tema del “libero arbitrio” che rende l’essere umano capace di autodeterminarsi e di essere pienamente responsabile delle proprie scelte, comprese quelle criminose. Si tratterebbe di rivisitare alla luce di un sistema e una cultura non più ancorata a un clima dittatoriale, le teorie della scuola penalistica di matrice positivistica, il cui retroterra culturale era costituito dalle teorie deterministiche lombrosiane in cui il reato non veniva più visto come un ente giuridico secondo i postulati illuministi, ma come un fenomeno naturalizzato.

 

5. Proposte per un’evoluzione etica, democratica e garantista in una continua ricerca di negazione delle Istituzioni

In questo paragrafo si considerano alcune riflessioni indispensabili per la sopravvivenza della parabola riformista basagliana iniziando con al domanda, ovvero: tutte le persone autori di reato con disagio psichiatrico sono candidabili per le REMS? E ancora prima: che deterrente terapeutico e sociale possiede il concetto sull’imputabilità penale quando si afferma per Legge, che «Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere» (art 88) e pertanto (art. 85. Capacità d'intendere e di volere) «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile»?

La risposta più appropriata - che dovrebbe aprire un ampio dibattito trasversale scientifico, filosofico, etico e giuridico - è rappresentata da una contro domanda, ovvero: le persone autori di reato con disagio psichiatrico, 1) sono veramente prive della abolizione della capacità di “intendere e volere” quando commettono un reato? E 2) la deresponsabilizzazione implicita nella non imputabilità: che valore ha su un piano terapeutico come pure sulla portata del concetto inclusivo del rispetto delle regole sociali e quindi sulla legittimazione trasversale e paritetica tra diritti e doveri di cittadinanza? Quanto, 3) i cosiddetti disturbi esternalizzanti della condotta sono un epifenomeno collegato anche alla perdita del senso del limite e della deresponsabilizzazione di qualunque fatto così ampiamente diffuso nell’attuale società postmoderna?

Nel teatro della vita, quante di queste persone utilizzano la sofferenza mentale per ottenere la deresponsabilizzazione totale ad ogni loro agito riproponendo l’equazione follia-aggressività/pericolosità? 

Per quanto detto è necessario restituire al malato di mente come forma di riconoscimento di soggettività nella sua responsabilità/capacità di determinarsi nell’agire, che altrimenti lo lega indissolubilmente al giudizio di imprevedibilità dell’azione e quindi a una presunta pericolosità e aggressività naturale. 

In aggiunta, le persone autori di reato con problemi complessi (uso concomitante di sostanze stupefacenti) - in cui l’aspetto comportamentale che ha determinato il reato non soggiace a una elettiva sofferenza mentale, ma rappresenta l’esito multifattoriale – non sono persone la cui “devianza sociale” poggia o utilizza un impianto giuridico e legislativo a cui manca ancora un traguardo, quello che restituisca la piena responsabilità del proprio agire nel reato, anche se affette da disagio mentale?

Viceversa ancora oggi, «le persone giudicate incapaci di intendere e di volere per vizio di mente non godono di un trattamento analogo a quello delle persone ritenute responsabili degli illeciti commessi […] in quanto non possono utilizzare i benefici e le facilitazioni che, al fine di rendere possibile il reinserimento sociale, vengono concessi in sede esecutiva al soggetto sano di mente, condannato a pena detentiva, sono negati oggi in Italia a chi è stato prosciolto dal reato a causa di infermità psichica»[6] (Melani G., 2019). 

Sorge poi l’interrogativo di come trattare tali persone ovvero se all’interno del carcere in strutture dedicate, oppure in dimensioni di cura altre?

Allo stesso tempo è necessario e fondamentale uscire dall’ambiguità giuridico forense attuale e distinguere da una parte la violenza e i suoi esiti (reati contro le persone e il patrimonio) e il disagio psichiatrico e, dall’altra, avere il coraggio di indicare quali sono le linee di indirizzo giuridiche per una riformulazione delle misure di sicurezza e i quali debbano essere i criteri sanitari per l’accesso in REMS. 

Questo non per creare forme di separazione colludenti con la richiesta di custodia, ma per evitare quell’ambiguità che porta allo stigma e al pregiudizio nella facile sovrapposizione tra sofferenza mentale e pericolosità sociale e la violenza della gran parte della popolazione con disagio mentale che non è autore di reato, né pericolosa né aggressiva, ma solamente sofferente e spaventata. 

Se non si opera una chiarificazione scevra da ambiguità e una soluzione pratica alle criticità attuali del sistema operante, esiste il forte rischio che le REMS, attraverso i nodi, le contraddizioni esistenti, assieme a una interpretazione immatura di una Legge81/2014, possano rappresentare il cavallo di troia per una controriforma regressiva e repressiva della Legge 180 e quindi dell’intero impianto culturale scientifico ed etico della rivoluzione basagliana.

Viene segnalato sia da chi lavora dentro le REMS che nei Servizi territoriali il problema della gestione delle persone autori di reato con problemi complessi, in cui l’aspetto comportamentale che ha determinato il reato non soggiace a una elettiva sofferenza mentale, ma rappresenta un esito multifattoriale e personologico con elevate valenze antisociali e di violenza/aggressività.

Si condivide pertanto quanto sostenuto da Pellegrini (2017) in cui «andrebbero previsti invece percorsi specifici per soggetti altamente resistenti ai trattamenti e ad alto rischio o con diverse recidive nelle condotte criminali grave che pongono elevati problemi di sicurezza e controllo comportamentale decisamente prevalenti sui bisogni di cura si tratterebbe di una tipologia di utenti che potrebbe beneficiare di un trattamento specifico nell’ambito di percorsi da sviluppare in collaborazione con gli istituti penitenziari vedi i pazienti con alta componente di psicopatia”. In quanto “Le Rems e gli altri trattamenti devono far parte di un sistema integrato, organizzato, ad alta integrazione sociosanitaria. Le REMS funzionano bene per i pazienti affetti da disturbi psichiatrici maggiori che hanno necessità di trattamenti complessi, ad alta intensità, strutturati e di lungo periodo» (Nicolò G. et al., 2019).

I pazienti con disturbi gravi e persistenti e non responsivi ai trattamenti dovrebbero essere tolti dalle liste d’attesa per i Servizi territoriali o le Rems ed essere tenuti in osservazione nelle strutture penitenziarie dedicate (articolazioni tutela salute mentale, ASTM), mantenendo o avviando la collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale di competenza (Zuffranieri M. et al., 2020).

 

6. Quindi la soluzione potrebbe essere il trattamento in carcere? 

Come detto per quelle persone che presentano situazioni complesse di disagio, dove l’aspetto psichiatrico è solo marginale, funzionale o strumentale, e in cui l’aspetto antisociale è dominante su ogni aspetto, la soluzione non può essere rappresentata dalla REMS e a maggior ragione dall’SPDC o dal territorio. 

Per questi individui una configurazione reclusiva, anche temporanea, potrebbe rappresentare una opportunità di cura, a patto che il sistema ristretto preveda la reale e concreata realizzazione delle articolazioni psichiatriche penitenziarie a esclusiva gestione sanitaria (Allegato C al DPR 2008), il collegamento con i Servizi territoriali della Salute Mentale, le reti di volontariato e tutti gli stakeholders, all’interno di un graduale potenziamento delle misure alternative alla detenzione in carcere e un forte decentramento di risorse dagli Istituti di Pena all’esecuzione penale esterna (DAP) e una successiva sorta di affidamento terapeutico. 

Tale situazione permetterebbe alle REMS di definirsi concretamente in quelle articolazioni territoriali previste per Legge, gestite in toto dai Dipartimenti della salute mentale e sganciate dalle misure di sicurezza detentive. In un tale contesto i pazienti, verrebbero inviati nelle REMS attraverso un progetto basato su indicazioni tecniche condivise tra gli psichiatri periti/CTU e psichiatri dei DSM e magistratura di sorveglianza. Altra possibilità per i ‘pazienti complessi’ potrebbe essere un accompagnamento in REMS, solo successivamente a un periodo di trattamento socio sanitario nelle articolazioni sanitarie penitenziarie, quando si apprezzassero le condizioni cliniche tali da individuare obiettivi esistenziali di senso e nuovi potenziali ruoli sociali.

Questo significherebbe portare nei luoghi di reclusione opportunità per un concreto trattamento sanitario che abbia continuità e progettualità terapeutica e non mere isole di impegno da parte di psichiatri che devono soggiacere alle richieste del sistema penitenziario e dei reclusi di “silenziamento” del dolore restrittivo e adattativo per far “sopravvivere al tempo” come avviene oggi.

Quindi sorge spontanea la domanda ma siamo sicuri che le articolazioni sanitarie negli istituti penitenziari e anche le REMS non rappresentano ancora dei luoghi di allontanamento come una sorta di “rassicuranti contenitori chiusi deve scaricare ogni devianza?

Quesito che ripropone quanto detto da Franco Basaglia: «Ora, dopo avere conquistato la riforma degli ospedali psichiatrici civili, il movimento che in Italia chiamiamo - Psichiatria democratica - comincia a chiedere l’abolizione del manicomio giudiziario. Sarà una lotta dura e difficile da portare a termine perché il manicomio giudiziario è una garanzia di un luogo dove si possono collocare un certo tipo di persone ritenute pericolose. Il manicomio giudiziario riguarda molto da vicino il carcere speciale, è una sorta di carcere speciale, e le carceri speciali rappresentano una sicurezza per lo stato» (Basaglia F., 1979 pag. 62).

La risposta si sposta inevitabilmente su un orizzonte di senso e diacronico. Ben sapendo che si tratta di un compromesso, bisogna agire e consolidare quanto ottenuto sul piano dei diritti per i malati mentali, e difendere la Riforma complessivamente dal 1978 ad oggi, per evitare che sia invece soppiantata da nuove quanto vecchie logiche di potere.

Gli Autori come risposta ai precedenti quesiti propongono delle indicazioni generali su come promuovere delle soluzioni alle criticità su due livelli. Il primo relativo all’attuale cornice di lavoro, il secondo relativo a uno scenario più generale:

 

1) Indicazioni per migliorare e sciogliere i punti critici all’interno della cornice di riferimento attuale

- Attivare Protocolli Operativi Vincolanti in ciascuna Regione tra le Amministrazioni della Giustizia e della Sanità come strumento condiviso operativo in grado di costruire con gli utenti psichiatrici, autori di reato, percorsi di presa in carico territoriale da parte dell’Autorità giudiziaria e delle articolazioni territoriali dei Dipartimenti di Salute Mentale (ma anche, a seconda dei casi, dei Dipartimenti delle dipendenze o dell’handicap stabilizzato)  in tutte le fasi e per ciascun procedimento (Psichiatria Democratica, 2020).

- Promozione di una formazione continua e diffusa condivisa rispetto l’epistemologia della scienza giuridica e sanitaria con corsi di accreditamento congiunti tra Magistratura e Psichiatria nei confronti dell’evoluzione prospettata dalla 81/2014. 

- Introduzione di criteri selettivi per i periti in qualità di CTU (esperienza di almeno 3-5 anni nei DSM o collaborazione documentate con i DSM anche attraverso il ruolo delle Università). 

- Forte indicazione ai Giudici nel richiedere nelle perizie dei CTU la presenza di una concreta proposta clinica da parte del Dipartimento di Salute Mentale alternativa alla misura di sicurezza in REMS laddove possibile, ovvero stimolare necessariamente un dialogo reale e concreto tra i periti CTU con le equipe dei Servizi della Salute Mentale.

- Contemplare la possibilità per la magistratura di non interrompere progetti clinici residenziali già attivati per gli autori di reato in attesa di REMS, alla stregua di "licenze finali di esperimento", ma valutare in Udienza o attraverso la Magistratura di Sorveglianza la possibilità di prosecuzione degli stessi quali progetti alternativi alla REMS.

- Implementare risorse umane e tecnico strumentali nei DSM per l’area forense.

- Revisionare i criteri della Lista di attesa REMS non più su un criterio cronologico ma di gravità psicopatologica (Nicolò G., 2021).

 

2) Indicazioni per migliorare e sciogliere i punti critici all’interno, per una soluzione complessiva

- Stimolare il legislatore a formulare un’adeguata base legislativa di revisione delle misure di sicurezza (abolizione del doppio binario) e revisione dell’imputabilità e dei relativi articoli. Il testo del decreto convertito in legge non prende posizione in nessuna parte sul presupposto penalistico alla base della sopravvivenza della misura di sicurezza nell'ordinamento italiano il quale consiste nella dubbia attualità della categoria medico criminale della pericolosità sociale. Non affrontando questi due profili l'impianto codicistico del doppio binario pena misura di sicurezza sopravviva l'intervento normativo operato dalle camere (Piccione, 2014).

- Evitare l’invio delle persone con misure di sicurezza provvisorie ossia in attesa del definitivo passaggio in giudicato in REMS, destinando questa misura esclusivamente alle persone con giudizio definitivo (fatto che da subito ridurrebbe la lista di attesa quasi fino ad eliminarla).

- Potenziamento delle misure alternative alla detenzione in carcere con un forte spostamento di risorse dagli Istituti di Pena all’esecuzione penale esterna (DAP).

- Concreta e diffusa realizzazione delle articolazioni psichiatriche penitenziarie in ogni carcere adeguate alla popolazione carceraria e ai suoi bisogni (Allegato C al DPR 2008). 

- Stimolare sul piano legislativo una normativa che preveda per le persone autori di reato con problemi complessi, in cui l’aspetto comportamentale che ha determinato il reato non soggiace a una elettiva sofferenza mentale, ma rappresenta un esito multifattoriale incluso l’uso persistente di sostanze stupefacenti che possano essere trattati nelle articolazioni psichiatriche in collegamento con i Servizi territoriali della Salute Mentale, le reti di volontariato e tutti gli stakeholders. Prevedendo un percorso di trattamento in cui, dopo un primo periodo di cura e osservazione all’interno di strutture dedicate nel carcere e, alla luce dei progressi fatti possano, possano eventualmente essere accompagnate nelle REMS o completare la pena rieducativa nel carcere o meglio all’interno di un potenziamento delle misure alternative alla detenzione in carcere con un forte spostamento di risorse dagli Istituti di Pena all’esecuzione penale esterna (DAP), all’interno di un percorso di transizione e di emancipazione per un futuro di libertà con la piena compartecipazione dei Servizi per le Dipendenze Patologiche.

- Revisione del TU 309/90 per rispondere ai problemi delle persone con problemi di salute mentale complessi e multidimensionali con diagnosi prioritaria di dipendenza patologica da sostanze autori di reato.

 

7. Conclusioni

Ci sembra di poter dire che con la chiusura degli Opg, siamo in presenza di un avvio di riforma che non può dare buoni frutti se il percorso non viene adeguatamente completato. Non possiamo, per esempio, non affrontare questa tematica se non analizziamo le condizioni generali degli istituti di pena. Da più parti viene segnalato che in questi luoghi, si tradisce il dettato costituzionale non garantendo ai detenuti il diritto alla salute e l’opportunità di “rieducazione”. L’articolo 27 comma 3 della Costituzione difatti recita così: «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». E’ evidente che le scelte che vengono fatte in relazione ai soggetti con una patologia psichiatrica risentono di questo contesto. Le scelte sui e dei detenuti vengono determinate da questo contesto generale dove va migliorata la situazione. Secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia al 30 aprile 2021 il tasso del sovraffollamento nelle carceri era al 107% [XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione Antigone, 2022]. Altra questione che si deve mettere al centro è il rapporto tra operatori dei servizi di salute, periti ed operatori delle carceri. Sarà necessario provare a costruire tramite tavoli di concertazione un linguaggio comune e obiettivi condivisi il più possibile, perché non è la sola psichiatria che può farsi carico del tema. Altra questione da risolvere è un possibile cambiamento del Codice Rocco relativamente alla questione dell’incapacità, mettere così, in discussione, l’infermità totale che è percentualmente meno rilevabile di quanto venga fatto. Viene troppo spesso riproposta l’equivalenza tra malattia mentale e incapacità, che è uno degli stereotipi che credevamo di aver cancellato con la Legge 180. Vi è una particolare difficoltà che dobbiamo contemplare in relazione alle specifiche complessità di alcuni territori, con determinanti sociali drammatici e con una maggiore presenza di spinte al controllo sociale. Luoghi poveri economicamente, con basse offerte culturali, con carenza e di spazi di aggregazione giovanile, laddove si registrano alti tassi di abbandono scolastico e quindi bassi livelli di titoli di studio e un’alta percentuale di disoccupazione e delinquenza. In tal senso diventa fondamentale un confronto approfondito tra le regioni per cogliere comparativamente le necessità. Certamente, non si può risolvere il problema con la semplificazione di aprire più REMS se alla base c’è come dice la stessa SIP (Zanalda E., Di Giannantonio M., 2021) una in appropriatezza dell’utilizzo di queste strutture. 

Vorremmo rimettere al centro della discussione il rispetto della persona, come ci chiede la Legge 180, qualunque sia la sua condizione; abbiamo la percezione che non sia commisurata la risposta alla gravità del reato, assistiamo a periodi prolungati di privazione della libertà anche in situazioni di reati minori, tramite la definizione di una “pericolosità sociale” usata senza il necessario approfondimento clinico. La Legge 180 supera la pericolosità sociale in quanto tale, ossia non legata a una condizione di acuzie psicopatologica, non è più di competenza psichiatrica: in questo modo, la psichiatria veniva liberata dal fardello del custodialismo, ombra tra le più inquietanti dell’istituzione manicomiale. Il TSO è una limitazione della libertà individuale, esclusivamente per motivi di cure, laddove sono necessarie e vengono rifiutate. Il disagio riguarda tutte quelle situazioni in cui, nello svolgere il nostro mandato istituzionale di “cura”, riceviamo ingiunzioni concernenti l’inserimento nei diversi percorsi di trattamento psichiatrico (da SPDC, CSM, cliniche, comunità terapeutiche, ecc…) di persone che hanno compiuto agiti antisociali di cui non abbiamo avuto il tempo di valutare le condizioni psichiche. Parliamo di persone che hanno agito in stato di alterazione indotta da sostanze psicoattive (alcol o droghe) o che un tempo erano giunte alla nostra attenzione per altri motivi, distinti dalle condizioni che l’hanno portata all’agito antisociale, ma che, in quanto note al DSM (anche non più in cura), vengono scontatamente ritenute di nostra competenza attraverso decisioni e richieste con sfumature decisamente stigmatizzanti.

Pertanto riteniamo che si debba procedere ad una “convenzione di punti di vista” tra i diversi soggetti in campo a partire da un’accurata valutazione differenziale psico-sociale intrecciata con le caratteristiche del reato, conciliando le necessità sanitarie di cura con quelle di sicurezza, ma attribuendo correttamente a ciascuno le proprie responsabilità.

 

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[1] Oltre  a Gorizia esistevano altri movimenti dei innovatori territoriali italiani Edoardo Balduzzi che a Varese stava sperimentando le politiche di settore e a Perugia per iniziativa dell'assessore Rasimelli che già proiettavano anche all'esterno del manicomio attività territoriale con Carlo Manuali, Fabrizio Ciampi e Ferruccio Giacanelli anche a Nocera in un ospedale psichiatrico privato di Sergio Piro aveva cominciato da poco a cercare di replicare l'esperienza goriziana ma con un suo modo originale (Slavich, 1961; John Foot, 2014).

[2] L’Allegato C prevede le Linee di indirizzo per gli interventi negli OPG e CCC: - attivazione di un programma specifico per gli OPG/CCC che riguardi da un lato l’organizzazione in modo che sia in grado di garantire l’armonizzazione tra le esigenze sanitarie e le esigenze di sicurezza, da cui la necessità di una stretta collaborazione tra gli operatori sanitari, dell’Amm. della Giustizia e la magistratura: - attivazione di misure e azioni per la tutela della salute mentale negli istituti di pena con l’attivazione all’interno degli Istituti, di sezioni organizzate o reparti, destinati agli imputati e condannati, con infermità di mente sopravvenuta nel corso della misura detentiva che non comporti l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in OPG; - la definizione dell’ambito territoriale come sede privilegiata per affrontare i problemi di salute, della cura, della riabilitazione delle persone con disturbi mentali. Solo nel territorio si può assicurare quella sinergia tra i diversi servizi della salute con gli enti locali per una re-inclusione sociale laddove la pena assume primariamente una connotazione di “recupero sociale”, finalizzata al reinserimento nella società del colpevole. (reinserimento sociale art. 27 della Costituzione) delle persone che autori di reato, prosciolti per infermità mentale e ricoverate in OPG. Pertanto attraverso il principio di territorialità (parte integrante dell’ordinamento penitenziario art 42), trova fondamento il decentramento (regionalizzazione) degli OPG e rende possibile la differenziazione nella esecuzione della MS, come sanzionato dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 253/2003 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 222 nella parte in cui non consente al giudice di non adottare, in luogo dell’OPG, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge quale ad esempio la libertà vigilata accompagnata da prescrizioni che garantiscano la garanzia di far fronte alla pericolosità sociale (art. 203) nonché la sentenza costituzionalmente  n. 367/2004 che afferma la possibilità di scelta tra internamento e affidamento  esterno ai servizi, per la misura di sicurezza provvisoria (art. 206). IL DPCM aprile 2008 viene inglobato nella Legge n. 9/2012 che indica perentoriamente la chiusura degli OPG al febbraio 2013 e produce l’ALLEGATO A (G.U. n. 270/2012) inerente i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi delle strutture residenziali per le persone con misura di sicurezza in REMS, (che raccoglie quanto già previsto nel DPR gennaio/1997 in merito ai requisiti organizzativi e strutturali delle organizzazioni sanitarie, così come richiesto dal D.L.vo 502/92 per il complesso processo di accreditamento); Ferracuti, S., et al. (2019).

[3] https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2022&numero=22; Sentenza 22/2022 (ECLI:IT:COST:2022:22); Comunicato del 27 gennaio 2022 REMS: URGENTE UNA LEGGE PER SUPERARE LE CRITICITÀ.

[4] I dati raccolti dal Coordinamento delle Rems […] dimostra che la via è quella giusta. 1.500 persone transitate nelle 31 Rems, quasi mille uscite dopo una permanenza breve e finalizzata al recupero, 650 presenze sono i numeri che smentiscono chi insiste per l’aumento dei posti disponibili e delle strutture. Sono state agitate strumentalmente le liste d’attesa, la loro dimensione, senza porre il nodo del peso abnorme delle misure di sicurezza provvisorie e tacendo il fatto che nessun caso grave è stato abbandonato e non risolto (Franco Corleone, 2019).

[5] https://www.altalex.com/documents/news/2005/12/29/disturbo-di-personalita-quale-causa-di-non-imputabilita-del-soggetto-agente.

[6] Il malato di mente autore di reato, inserito nel circuito speciale delle misure di sicurezza, non fondate sulla gravità del fatto ma sulle qualità dell’autore, non ha accesso alle misure alternative alla detenzione (anche se può ottenere una sostituzione della misura di sicurezza detentiva con quella non detentiva della libertà vigilata), non gode del beneficio della liberazione anticipata e non può vedersi applicata la sospensione condizionale. Inoltre, il non imputabile per vizio di mente è sottoposto ad una misura che non ha una durata predeterminata, ma soltanto un tetto massimo pari al massimo edittale previsto per il reato commesso e non può far valere circostanze attenuanti. Il malato di mente autore di reato fa parte di una categoria doppiamente speciale: come malato di mente non può essere ritenuto responsabile dei fatti commessi e quindi è sottoposto alla misura di sicurezza, con il suo statuto peculiare, come autore di reato non fruisce del trattamento sanitario di cui godono i pazienti psichiatrici liberi.

[**]

Gianluca Monacelli, Dirigente Medico Psichiatra. Direttore UOC Salute Mentale D4, ASL Roma 2

Jennifer Williams, Dirigente Psicologo. UOC Salute Mentale D6, ASL Roma 2

Giuseppina Gabriele, Dirigente Psicologo. Direttore UOC Salute Mentale D6, ASL Roma 2

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