La vicenda della sezione Sestante della Casa circondariale di Torino ha attirato l’attenzione di opinionisti su vari quotidiani nazionali[1]. Ciò è comprensibile e positivo, dal momento che essa evidenzia criticità vecchie e nuove di quel particolare segmento della amministrazione della giustizia, costituito dal carcere, nel settore specifico della tutela della salute dei detenuti affetti da patologie psichiatriche: criticità sulle quali è necessario discutere e sarebbe auspicabile che si intervenisse adeguatamente.
I primi focus hanno riguardato problemi strutturali degli ambienti detentivi, a partire dalle condizioni igienico-sanitarie delle celle: i telegiornali regionali hanno rimandato al grande pubblico, con sequenze impietose, lo stato di mura e soffitti, che nessuno immaginava. Problema vecchio, che riguarda molti istituti di pena del nostro paese, al cui interno i lavori di ristrutturazione, necessari spesso per assicurare ai ristretti condizioni detentive degne di un paese civile, partono quando ormai il livello di degrado è intollerabile. E’ ciò che sta avvenendo nel carcere delle Vallette, ad anni di distanza dalla segnalazione del Comitato europeo di prevenzione della tortura e dopo ripetute denunce di associazioni, parlamentari e dell’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti, nelle sue diverse articolazioni territoriali. Verrebbe da dire: meglio tardi che mai.
Problema risolto, allora? Oppure: problema in via di soluzione definitiva, quello della sezione Sestante?
Niente affatto. Perché ciò che è emerso nell’ultimo mese è un groviglio di problematiche, incancrenitesi col tempo, sulle quali è già iniziato il solito balletto nazionale, di scarico delle responsabilità (per il passato) e di assenza di impegni (per il futuro): l’esatto contrario di ciò che occorrerebbe, per voltare pagina.
C’è una prima questione che è stata sottolineata in un articolo di Vladimiro Zagrebelsky sulle colonne de La Stampa. Tra i detenuti della sezione Sestante vi erano persone che non avrebbero dovuto essere ristrette, né in quella sezione, né altrove, perché, pacificamente, in lista d’attesa per entrare in una delle due REMS (come è noto, strutture sanitarie di competenza regionale nate dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari) esistenti in Piemonte. Grave che sia in carcere una persona che, a termini di legge, non dovrebbe trovarsi ristretta, ma ricoverata in una struttura sanitaria. Semplice (e autoconsolatorio per altri) sarebbe addossare la colpa esclusiva dell’accaduto ai giudici, i quali debbono misurarsi con due oggettive difficoltà, risalenti entrambe alla responsabilità delle autorità regionali: per un verso, la insufficienza dei posti disponibili nelle REMS, verificata frequentemente nell’esperienza (in questo, a quanto consta, il Piemonte non fa eccezione al panorama nazionale); per altro verso, la notoria insufficienza della risposta assicurata, da parte dei servizi psichiatrici territorialmente competenti, ai bisogni terapeutici delle persone libere, affette da problemi di salute mentale. Vero che il giudice che non faccia prevalere, anche nei casi di persona in lista di attesa per un posto in REMS, la doverosa tutela della libertà personale potrebbe essere chiamato a risponderne. Vero anche che la scarsa collaborazione tra giustizia e sanità regionale per una effettiva presa in carico di tali persone (autori di reato ritenuti, all’esito di una perizia, in tutto o in parte non imputabili per effetto di patologie psichiatriche, ma pur sempre pericolosi) da parte dei servizi territoriali può avere determinato, nella cultura di alcuni giudici, il prevalere -sia pure temporaneamente- di logiche securitarie. Vero, infine, che queste ultime si sono, verosimilmente, saldate con la certezza che la cifra della sezione Sestante, almeno sulla carta, rimaneva caratterizzata da interventi di tipo sanitario da parte di personale specializzato, e che ciò è sempre preferibile all’abbandono. Tutto discutibile, naturalmente, perché tutto sintomatico di problemi irrisolti: dalla insufficiente programmazione del fabbisogno di posti nelle REMS, alla forse inadeguata formazione dei giudici rispetto ad un quadro normativo profondamente modificato[2], all’insoddisfacente servizio assicurato dalla psichiatria territoriale. E tutto che ha il sapore della tempesta perfetta: con il risultato che ciascuno ha modo di dire che la colpa è di altri, perché, per quanto lo riguarda, fa già miracoli con le risorse di cui dispone. Il contrario di una seria collaborazione istituzionale, che è l’unica cosa che occorrerebbe fare.
Ma è questa l’unica serie di problemi con i quali fare i conti pensando alla vicenda della sezione Sestante? E’ il caso di rispondere: magari!
Della sorte della sezione Sestante -meglio: della esperienza di Sestante e del suo futuro, a lavori di ristrutturazione terminati- a tutt’oggi pare proprio che nessuno abbia voglia di parlare. Ciò inquieta, per non dire che allarma, se si pone mente al fatto che la sezione venne aperta, nel marzo del 2001, in esecuzione di un progetto della Amministrazione penitenziaria, decisamente innovativo. Si trattava di destinare una sezione di un grande carcere metropolitano ai detenuti che avessero manifestato (oppure avessero visto aggravarsi), nel corso della detenzione, patologie mentali prive, peraltro, di rapporto con il reato commesso (o con il reato di cui erano accusati): come tali, non destinati, in nessun caso, ad un Ospedale psichiatrico giudiziario (oggi, ad una REMS). Non solo. C’erano altri due aspetti che facevano di Sestante una novità positiva nell’universo penitenziario nazionale. In primo luogo, esso anticipava l’effettiva operatività della già approvata legge di riforma della sanità penitenziaria, con competenza esclusiva -per la tutela della salute dei detenuti- in capo al servizio sanitario nazionale, e perciò alle Regioni. I problemi di salute mentale dei detenuti (manifestatisi, ad esempio, in tentativi di suicidio, ma non solo) diventavano di competenza della ASL di riferimento, che se ne occupava con proprio personale specializzato (non solo medico), destinato ad operare in collaborazione con la Polizia penitenziaria (da formare per nuovi compiti) e, più in generale, con la Direzione del carcere. In secondo luogo, il trattamento avrebbe dovuto includere anche la previsione di un programma di presa in carico, dopo la scarcerazione del detenuto, da parte del servizio psichiatrico territorialmente competente in relazione al luogo in cui la persona avrebbe vissuto. Chi oggi interpellasse quanti hanno operato per far funzionare il progetto raccoglierebbe valutazioni sostanzialmente positive, almeno per un periodo non breve. Non sarà inutile ricordare che il decreto attuativo (anno 2008) della riforma della sanità penitenziaria (anno 1999) non solo dedica un paragrafo specifico ai problemi di salute mentale dei detenuti, ma -nel fissare le linee guida di intervento- riproduce il modello Sestante; e che la delibera della Giunta della Regione Piemonte sulla rete dei servizi sanitari in carcere (anno 2016) include tutte le attività sanitarie già svolte nella sezione.
E però, ciò che è stato oggetto di denunce fatte da più parti dimostra che più di una cosa, al di là delle apparenze, non ha funzionato. Non ci si riferisce alle indagini penali su reati eventualmente commessi; per il che valgono, naturalmente, la presunzione di innocenza degli indagati e il rispetto dell’autonomia e indipendenza dell’Autorità Giudiziaria. E’ evidente che, dopo lo slancio iniziale, vi è stato un calo di tensione nella realizzazione del progetto (da parte di chi ne aveva competenza e ne portava la specifica responsabilità) e nel controllo sulla sua realizzazione (da parte di chi ha, comunque, la responsabilità di direzione della vita negli istituti penitenziari). E che, in ogni caso, le due diverse amministrazioni in campo (Sanità e Amministrazione penitenziaria) non abbiano saputo realizzare la doverosa collaborazione per trasformare (prima un progetto innovativo; poi) la riforma in realtà effettiva e stabile. Oggi, però, l’Amministrazione penitenziaria, davanti a tali e tanti problemi, si limita a far sapere che vi sono lavori in corso. Nulla dice sui nodi problematici emersi, che la chiamerebbero in causa sulle strategie di intervento per i detenuti affetti da psicopatologie non collegate al reato commesso. Ancora più silente la Sanità regionale, quasi a voler riservarsi, per il futuro, libertà di manovra, se del caso, svuotando il progetto iniziale. Si è indotti a pensare male. E’ noto che il trasferimento alle loro competenze della tutela della salute dei detenuti, per molto tempo, non è stato accolto con entusiasmo dalle Regioni; che il loro svolgimento efficace richiede una visione sulla tutela dei diritti in carcere che non tutte le amministrazioni regionali hanno nella stessa misura; che -comunque- la gestione delle risorse disponibili richiede selezione di interventi. Tutte buone ragioni per rimanere, almeno adesso e ufficialmente, indifferenti sull’accaduto, chiamandosi fuori sul da farsi.
E allora: finita la ristrutturazione della sezione Sestante (mai stato breve lo svolgimento di tali lavori in carcere), cosa sarà della esperienza di Sestante, cioè del futuro dei detenuti portatori di patologie psichiatriche nel carcere di Torino? E’ troppo pretendere che qualcuno batta un colpo?
[1] La Stampa, per prima e più di altri; ma anche la Repubblica e il Corriere della sera (quest’ultimo, sulle pagine locali).
[2] Su questo punto giova precisare che, per iniziativa dei componenti di un tavolo tecnico regionale appositamente istituito dopo la chiusura degli OPG e la costituzione delle REMS, vi sono stati incontri con i magistrati, requirenti e giudicanti, del Distretto di Corte d’Appello di Torino, volti a discutere con loro sulle problematiche di applicazione della legge di riforma. In particolare, in una occasione, sono state proposte alla discussione generale soluzioni tecniche elaborate, in sede regionale, con il contributo di esperti (psichiatri forensi), aventi l’obiettivo di ridurre il numero delle persone bisognose del ricovero in una REMS, potenzialmente -invece- affidabili ai servizi psichiatrici territoriali, per percorsi terapeutici efficaci, da svolgersi con il coinvolgimento della responsabilità dell’Autorità Giudiziaria.