Da semplice operatore del settore non ho l’aspirazione di dire qualcosa di nuovo su questa delicata materia. Posso, però, scegliere cosa sottolineare e da cosa partire fra le molte cose già dette su questo argomento, con l’obiettivo di offrire una prospettiva possibilmente dotata di concretezza.
Da questo punto di vista credo sia naturale partire dalla Sentenza della Corte costituzionale n. 22/2022, la quale ci ha consentito innanzitutto di mettere meglio a fuoco la natura e la dimensione dei problemi.
La Corte ha, infatti, innanzitutto cercato di mettere al centro un’adeguata cognizione del fenomeno e delle sue problematiche, avendo evidentemente constatato un difetto di conoscenza complessiva del problema nel dibattito pubblico. E scopriamo che il problema esiste ed è grande ed «evidenzia -per dirlo con le parole della Corte- un difetto sistemico di effettività nella tutela dell’intero fascio dei diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare». Non c’è male!
Con indagine focalizzata sulla data del 31 luglio 2021, abbiamo potuto scoprire che il numero di posti letto disponibili in REMS sul territorio nazionale era pari a 652; che l’obiettivo a regime era quello di raggiungere la cifra complessiva di 740 posti; che a quella data ne risultavano effettivamente occupati 596 (quindi quasi tutti), laddove la lista d’attesa vedeva altri ben 750 soggetti (fonte DAP, a fronte del numero di 568 indicato, invece, dalla Conferenza delle Regioni) raggiunti dall’ordine di internamento, con un tempo medio di attesa di 304 giorni, pur se estremamente diversificato sul territorio italiano e concentrato soprattutto in 5 regioni (la cui condizione risulta, così, tragica).
Ma soprattutto abbiamo potuto sfatare il mito della banalità delle fattispecie penali sottostanti all’ordine di internamento: oltre il 70% della lista d’attesa è composto da autori di reati sanzionati con pene edittali superiori ai 5 anni di reclusione, la parte più consistente dei quali, in termini relativi, è costituita dai maltrattamenti in famiglia.
Abbiamo anche potuto apprendere qualche notizia positiva e cioè che uno dei capitoli più delicati e dolorosi, quello costituito dal numero dei soggetti assolti per vizio di mente e ristretti in carcere in attesa della REMS, è in costante decrescita. E da questo punto di vista posso confermare anche empiricamente questo dato: nella mia esperienza professionale riscontro sempre più spesso, nel passaggio fra misura di sicurezza imposta in via provvisoria ed applicazione in via definitiva, che il giudice della cognizione e della cautela, di fronte al prolungarsi del tempo di attesa in carcere, diversamente dal passato, sceglie di assumere l’iniziativa (per lo più giuridicamente assai dubbia, ma umanamente molto sensibile) di liberare il soggetto, talvolta provando a sostituire la misura detentiva con quella della libertà vigilata (e qui siamo sul piano di ciò che è consentito: si tratta di graduare la cautela e questa discrezionalità è assegnata alle cure del giudice), talaltra mantenendo giuridicamente l’applicazione della misura detentiva, ma autorizzando varie soluzioni di diverso segno, tra cui il trasferimento in una struttura diversa dalla REMS -variamente individuata- e semmai dettando delle prescrizioni, supplendo ancora una volta alle carenze -e soprattutto ai buchi- del sistema ed assumendo responsabilità di dubbia legittimità formale e sostanziale.
Ma come è già stato evidenziato, purtroppo la drammaticità della situazione non è circoscritta ai pazienti che attendono in carcere l’adeguata tutela della propria salute mentale: la lista di attesa incide in modo potenzialmente pericoloso sull’assai maggior numero di casi in cui il soggetto che dovrebbe essere internato in REMS attende questo momento dalla libertà e questo è un numero in aumento, come contraltare alla situazione opposta, che diminuisce. Voglio, infatti, ricordare che il senso stesso della misura di sicurezza è duplice: l’esigenza di cura e quella di sicurezza, vale a dire quella di evitare la commissione di nuovi reati. Anzi, vorrei ricordare che già la misura di sicurezza della libertà vigilata ha questo senso duplice (cura e sicurezza), quindi nella REMS l’esigenza di sicurezza è tale da imporre la soluzione detentiva.
E in definitiva è in questa duplicità, in questa natura ancipite, che si risolve tutto il tema in discussione e che il sistema finora non ha saputo cogliere e fronteggiare. Ed è questo che la Corte ha inteso mettere in evidenza, rilevando i profili di incostituzionalità della normativa, sotto il duplice fronte della violazione della riserva assoluta di legge e delle competenze del Ministro della Giustizia.
La Corte ricorda, innanzitutto, una cosa apparentemente ovvia e scontata, ma trascurata dalla normativa in questione: piaccia o non piaccia, l’internamento in REMS è una vera e propria misura di sicurezza, di natura detentiva; presuppone la commissione di un fatto-reato ed una valutazione di pericolosità sociale. Si può (anzi, si deve) valorizzare il carattere terapeutico della misura, ma non si può dimenticare la natura di questo strumento.
Questa circostanza comporta alcune conseguenze che non possono in alcun modo essere ignorate o messe da parte.
Innanzitutto, la materia necessita di essere disciplinata con legge e questa esigenza non è legata solo ai “casi”, ma anche ai “modi” in cui questa misura di sicurezza deve essere regolata, come si evince dal ricorrere non solo dell’art. 25, ma anche dell’art. 13 Cost.. Si tratta, dunque, di una riserva di legge statale di tipo assoluto. Sotto questo profilo la disciplina disegnata dalla legge 211/2011 risulta non conforme a Costituzione e i profili incisi profondamente da questa lacuna sono molteplici e significativi. Basti pensare, a titolo d’esempio, all’uso della contenzione, alle modalità di esecuzione, alle esigenze di perquisizione, alla vigilanza, ai poteri dell’autorità giudiziaria nel dettare le regole del caso concreto. Non è raro che la Direzione della REMS invochi dal magistrato di sorveglianza indicazioni e prescrizioni per la gestione di profili problematici (uso del denaro, violazioni di regole interne, ricevimento e/o controllo di parenti, magari usi a fornire stupefacenti, modalità di movimento legate ad aspetti o esigenze particolari), infilando la vicenda in un terreno giuridicamente molto delicato e discutibile, proprio per il clamoroso vuoto normativo.
In secondo luogo, la legge non considera che questa misura ricade a pieno titolo fra i servizi relativi alla giustizia, assegnati dalla Carta costituzionale alle cure del Ministro della Giustizia, come espressamente stabilito dall’art. 110 Cost.. Peraltro, unico Ministro le cui competenze hanno un presidio costituzionale. In sostanza, la Corte contesta che l’intera gestione delle REMS sia affidata ai sistemi sanitari regionali ed in particolare ai dipartimenti regionali per la salute mentale e non la sola gestione sanitaria interna alla struttura. Se, dunque, non si può e non si deve assolutamente tornare indietro agli OPG, è altrettanto indispensabile e costituzionalmente necessario rispettare la natura duplice della misura in questione -peraltro rafforzata dal carattere detentivo della medesima- e la sua collocazione nell’ambito delle misure di sicurezza, assegnate alle cure del Ministro della Giustizia. Da questa prospettiva non è consentito discostarsi.
La Corte non rinuncia ad affermare esplicitamente che per loro natura questo genere di provvedimenti devono essere eseguiti immediatamente. Mi permetto di aggiungere, di mio, che l’immediata eseguibilità dei provvedimenti che dispongono le REMS è uno dei più efficaci presupposti per il miglior funzionamento degli strumenti di carattere non detentivo e quindi per la libertà vigilata: l’effettività della minaccia di aggravamento di una misura che ha natura non detentiva contribuisce sensibilmente al rispetto delle regole e delle cure, soprattutto in soggetti con disturbo di personalità o a doppia diagnosi o comunque non francamente o interamente “folli”, come sempre più spesso si vedono fra i protagonisti delle nostre pagine giudiziarie. Ma prescindere dai profili strumentali o di “minaccia” di questa misura, un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione di questi provvedimenti «comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni», per usare le parole della Corte.
Cosa tutto ciò comporti e quali saranno le conseguenze di questa pronuncia che resta, comunque, di inammissibilità è, invero, assai meno chiaro. Non sono un esperto di diritto costituzionale e non è questa l’occasione per soppesare le peculiarità della scelta operata dal Giudice costituzionale. Direi che la Corte chiede -anzi, impone- al Legislatore un intervento riformatore capace di eliminare le incostituzionalità riscontrate. E lo chiede in tempi ragionevoli. Nulla di più e nulla di meno. Ma non sono incline a credere che ciò avverrà davvero, in tempi brevi. La materia è densa di difficoltà politiche e giuridiche e necessita anche di investimenti economici, quanto basta per dubitare del fatto che il Legislatore se ne occupi. Da questo punto di vista, mi verrebbe da dire che sta a chi opera ogni giorno in questo settore ed al mondo della cultura giuridica ragionare approfonditamente su questi temi senza occhiali ideologici e con molto pragmatismo ed indicare la strada migliore. Un strada percorribile a breve e possibilmente anche una visione più lunga, per un intervento riformatore di respiro da realizzare nel tempo.
Se è vero che indietro non si torna e che la soluzione di questo deficit di tutela non può essere quella della assegnazione in sovrannumero delle persone in lista di attesa, è altrettanto vero che non potrà essere neppure quella di lasciare in libera circolazione soggetti raggiunti da un provvedimento di carattere detentivo. In definitiva, a me sembra che restino sul tappeto due punti fermi: 1) non può esserci uno iato temporale apprezzabile fra l’ordine detentivo e l’effettivo internamento; 2) la tipologia delle strutture di internamento e le modalità di esecuzione hanno bisogno di qualche forma di adeguamento ad esigenze di pericolosità che sono diversificate e che possono essere elevate.
Per chi riflette su questi temi si aprono, quindi, due possibilità o due fronti.
Una prima necessità è quella di intervenire sull’attuale disciplina, adeguandola alle esigenze segnalate dalla Corte ed a quelle emerse nella pratica applicativa. Solo in parte, infatti, ciò che finora non ha funzionato è frutto delle sgrammaticature costituzionali. Mi verrebbe da dire che per chi opera tutti i giorni con il materiale umano e professionale coinvolto in questo segmento la prima cosa che balza agli occhi è la tipologia clinica e di pericolosità dei soggetti più ricorrentemente attinti dall’ordine di collocazione in REMS.
Proviamo a mettere per un momento da parte gli interrogativi sui numeri, se cioè si ordini il ricovero in REMS troppo ricorrentemente o meno; interrogativo che secondo me non ci fa fare passi avanti, anzi finisce con l’essere l’occasione per uno scontro fra diverse prospettive culturali e professionali e non sempre uno scontro lucido, come ci insegna l’analoga polemica sulle ragioni dell’altrettanto evidente sovraffollamento carcerario. Proviamo, invece, a ragionare sulle tipologie cliniche dei soggetti presenti e a cercare di capire cosa servirebbe per avvicinarci ad una maggiore funzionalità.
A me sembra che il cuore -o se preferite l’origine- del problema è collocata nell’ambito del processo penale di cognizione e ruota tutto intorno al tema dell’imputabilità e delle sue conseguenze: con la sentenza Raso si è allargato in modo consistente il giudizio di non imputabilità, facendovi rientrare una serie variegata di disturbi e di problematiche, talvolta anche legate in modo consistente all’abuso di stupefacenti, disturbi che sfumano e problematicizzano molto il concetto di malattia mentale. Con quello che ne consegue. Una volta entrati in questo circuito, la gestione di questi soggetti attraverso la misura di sicurezza diventa irrimediabilmente legata alla cura della malattia, nell’ambito delle sole misure di sicurezza previste in questo segmento: la libertà vigilata, che fonda interamente sul consenso e sulla volontà del paziente di sottoporsi alle cure ed alle prescrizioni i propri margini di praticabilità, e la REMS, unica misura coercitiva (e detentiva) a disposizione. Il problema, in definitiva, è quasi tutto qui. Non intendo affatto dire che sia irrilevante il corretto inquadramento clinico da parte del perito o che su questo terreno non incida la capacità del perito di muoversi nell’intricato mondo delle competenze e delle disponibilità sanitarie territoriali, individuando soluzioni e strutture idonee, alternative alle REMS. Il momento peritale è importante e su questo fronte si possono fare ancora dei passi avanti. Senza trascurare, però, che una volta entrati in questo circuito qualsiasi cosa vada storta nel percorso di cura, qualsiasi oppositività emerga, qualsiasi atteggiamento riconducibile a pericolosità o a condotte di natura anche non francamente psichiatrica non ha altri margini di soluzione se non quelli della collocazione o dell’aggravamento detentivo: quindi la REMS. Ed è soprattutto rispetto a soggetti non caratterizzati da un quadro apertamente ed esclusivamente psichiatrico che si pongono tutti i principali problemi di tenuta e di praticabilità di queste belle strutture. Ed è particolarmente rispetto a questi soggetti che liste di attesa del genere di quelle osservate dalla Corte esercitano un grosso incentivo a sottrarsi alle prescrizioni e alla misura della libertà vigilata: se la violazione delle regole è senza conseguenze, violare le regole diventa naturale, per soggetti di questo genere. Si crea, così, una spirale negativa. Se si vuole mantenere l’attuale impostazione, diventa necessario trovare un meccanismo di compensazione, uno strumento che consenta un intervento immediato, magari provvisoriamente superando il principio territoriale e orientandosi verso una struttura nazionale, in attesa di una collocazione territoriale. Oppure si prende in considerazione un intervento normativo che apra alla possibilità di ricorrere a misure di sicurezza non più finalizzate alla tutela della salute, magari a seguito di una nuova valutazione psichiatrica. Con l’attuale impianto normativo gli esiti sono tutti interni al circuito Revoca-Libertà vigilata-REMS ed anche l’effettuazione di un nuovo bilancio psichiatrico non può che condurre ad uno di questi tre esiti. Quindi se sussiste un’elevata pericolosità sociale sostanzialmente non c’è alternativa alla REMS.
Nonostante molti segnali indichino che un buon lavoro organizzativo e di raccordo, sensibilizzazione e dialogo fra gli stakeholders coinvolti possa elevare in misura significativa l’efficienza del sistema, sono convinto che la funzionalità del sistema non possa essere risolta solo con questi strumenti. Peraltro la Corte ha detto esplicitamente che in questa situazione e con questo impianto normativo non si può continuare.
Un’alternativa valida (e che personalmente preferisco) a questa impostazione è costituita da un radicale ripensamento dell’intero sistema di imputabilità. Magari attraverso l’eliminazione di questo istituto o attraverso un suo forte ridimensionamento. Molte proposte autorevoli militano in questo senso. Non intendo aprire qui e ora la trattazione di questo vastissimo tema, ma un approccio nuovo a questa materia dovrebbe avere anche l’obiettivo ed il merito di eliminare una distinzione su cui abbiamo costruito tutto il nostro sistema e che probabilmente non regge la prova del tempo e che oltre tutto, all’esito della riforma del 2011, ha certamente finito con il lasciare abbandonato un intero settore della tutela della salute mentale, quello dell’infermità sopravvenuta. La stessa distinzione fra infermità psichica preesistente al fatto-reato e infermità sopravvenuta mi pare scivolosa e discutibile e comunque poco concentrata sulla tema della salute mentale.
Non possiamo dimenticare, infatti, che l’eliminazione ed il superamento degli OPG, certamente indispensabile conquista di civiltà, ha lasciato sul tappeto finora senza alcuna tutela effettiva i condannati con infermità psichica impropriamente qualificata come “sopravvenuta”. Ancora una volta un intervento della Corte costituzionale[1] ha eliminato una parte di questa stridente e macroscopica ingiustizia, consentendo la detenzione domiciliare in questi casi, ma è del tutto evidente che la salute mentale non è tutelata da questo genere di soluzione. Non era questa la strada, era solo l’unica strada che poteva percorrere la Corte, nell’indifferenza del Legislatore e dello Stato al tema.
Ed, infatti, si tratta ancora una volta di un problema di risorse. Come altri hanno detto meglio di me[2]: basta con l’affrontare questo argomento (e mi verrebbe da dire qualsiasi argomento serio attinente il tema dei diritti) con le clausole di invarianza finanziaria! Basta con l’ipocrisia della tutela dei diritti a costo zero! Questa sta diventando una questione davvero centrale nel modo di legiferare e soprattutto di affrontare il tema dei diritti. I diritti non vivono sulla carta e pensarli solo sulla carta è un modo per lavarsi la coscienza; ma se dietro alla creazione o all’allargamento di un diritto non ci sono risorse concrete quel diritto non esiste e si scava semplicemente un altro solco fra la società e chi ne costituisce la classe intellettuale e dirigente. Capisco che in una società che “decresce” sul piano economico questo argomento possa risultare problematico e dirompente, ma ignorarlo o rimuoverlo non ci aiuterà.
[1] C. Cost. n. 99 del 20 febbraio 2019.
[2] A. Massaro, QG online, 13 maggio 2021.
Appunti a margine della relazione al convegno tenuto all’Università di Roma Tre il 19 dicembre 2022