Stefano Rodotà era un maestro del diritto. Per me – e per tanti di noi – anche un maestro di vita.
Insegnava diritto civile, ma la sua sensibilità democratica e la sua attenzione ai diritti lo aveva portato naturalmente, sin dagli esordi accademici, a cimentarsi con tutte le più delicate questioni del diritto costituzionale. Spesso sorrideva quando veniva qualificato come “costituzionalista”, lui rigoroso civilista, orgoglioso della propria disciplina. Ciononostante non v’è dubbio che fosse anche un costituzionalista raffinato, avendo egli fornito un contributo decisivo alla difesa delle ragioni del costituzionalismo; avendo egli, più di tanti altri, concorso alla diffusione della cultura costituzionale nel nostro Paese.
Forse, però, è più corretto dire che Rodotà ha fatto parte di una élite di giuristi e intellettuali, alla quale appartenevano figure del calibro di Massimo Severo Giannini o Riccardo Orestano, i quali tutti teorizzavano e operavano in base ad una solida convinzione: quella secondo la quale la scienza giuridica non può essere spezzettata, non può ridursi – come ahimè oggi spesso avviene – ai mille specialismi che fanno perdere il senso stesso del proprio agire.
L’unità della scienza giuridica come valore, dunque. Ma anche come necessità. L’attenzione ai diritti concreti delle persone, la percezione forte della legittimazione esclusivamente sociale del diritto, la battaglia contro il formalismo vuoto dei giuristi di ieri e di oggi, l’impegno civile che deve sorreggere la vocazione del giurista, lo stesso “moralismo” di cui ha fatto l’elogio, hanno indotto Rodotà a concepire il suo ruolo come protagonista attivo della eterna lotta del diritto per dare dignità alle persone concrete, per migliorare le istituzioni democratiche. Un giurista della società civile, più che un giurista di diritto civile.
Questo ha portato Rodotà ad essere naturalmente un costituzionalista. Nel suo impegno sociale, nella affermazione della prevalenza dei diritti delle persone sulle logiche dei poteri, si radica la convinzione che non si può avere società senza costituzione, e – parallelamente – che non si può avere costituzione se la garanzia dei diritti non sia assicurata, né la divisione dei poteri fissata (per ripetere per lui le parole scritte nel testo che si pone alla base del costituzionalismo moderno: la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789).
Questa sua irrequietezza costituzionale – legata, non ad un costituzionalismo generico, ma al costituzionalismo democratico e pluralista che è proprio della tradizione giuridica italiana più illuminata – ha pervaso e condizionato la sua produzione scientifica, il suo modo di essere giurista. È questa «la vocazione civica del giurista» Rodotà, come recita il titolo del libro che contiene saggi a lui dedicati dai colleghi.
Un’irrequietezza che ha caratterizzato i suoi tanti studi di diritto civile. Se c’è un autore che ha posto al centro della riflessione civilistica la Costituzione questi è Stefano Rodotà, sin dai tempi ormai lontani degli anni ’60, ove il formalismo e la chiusura entro le diverse discipline era dominante.
Stefano Rodotà, però, non ha solo aperto il diritto civile alla legge suprema, innovando magari il proprio ambito di studi, ma pur sempre restando chiuso nel suo specifico settore scientifico-disciplinare. È andato più in là.
Rodotà i confini li ha sempre varcati. E tra le frontiere che ha decisamente oltrepassato c’è quella tra diritto pubblico e diritto privato.
Scriveva già nel 1971: «diviene ogni giorno più arduo ritrovare nella realtà di oggi le ragioni e le occasioni intorno alle quali venne edificandosi la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato». Così, poi, furono i suoi interessi, il suo costante impegno civile a portarlo ad occuparsi di temi classici del costituzionalismo, da ultimo con sempre maggiore intensità.
A volte rimanendo sul confine tra le due discipline: un luogo magico d’incontro. Solo da lì – dal confine – si possono trovare le regole che danno fondamento alla vita, solo lì si può riuscire a dare voce ai diritti anche delle sfere più intime. È da una linea di frontiera che Rodotà è riuscito ad indagare il «diritto d’amore» (Laterza, 2014). Credo che nessuno con altrettanta delicatezza abbia saputo affrontare un tema così scivoloso per un giurista, ricordando a noi tutti che prima della legge, delle sentenze, della dottrina c’è qualcosa di ben più importante, un vero diritto inviolabile: quello ad amare. Prima delle regole c’è la vita, come aveva spiegato in un altro libro del 2006.
La centralità della persona, il rispetto della sua dignità sono stati i fari con cui ha illuminato territori sino ad allora sconosciuti. Solo un’attenzione alle concrete modalità di svolgimento della vita poteva portare Rodotà a sostenere con radicalità e rigore le ragioni del biotestamento. Un testamento che riassegna all’umano la scelta sulla propria esistenza e non si limita a regolare i beni, la proprietà, la morte delle persone.
Occuparsi della vita delle persone vuol dire preoccuparsi del loro “pieno sviluppo”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione.
Così, in particolare dopo la sua esperienza di Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, è entro questa prospettiva che Rodotà ha indagato i fenomeni della rete, straordinario strumento per poter conseguire l’obiettivo del pieno sviluppo. Qui la sua attenzione alla dimensione costituzionale dei diritti lo ha portato a proporre la soluzione più lineare e incisiva per un giurista. Introdurre in Costituzione il diritto di accesso ad Internet, tramite una modifica puntuale di un comma dell’articolo 21.
Una revisione costituzionale nel segno dell’allargamento dei diritti e nel solco della democrazia costituzionale. Permettetemi di commentare che si tratta di una lezione di stile e di equilibrio nel maneggiare il testo costituzionale, nel proporne la sua manutenzione, nell’assicurarne la sua evoluzione. Una lezione tanto più utile in un Paese che sembra aver perduto ogni bussola in materia di revisione del testo della Costituzione. Certo è che per comprendere lo stile costituzionale di Rodotà, la sua reale forza innovativa, bisognerebbe essere disposti al dialogo, alla comprensione reciproca. In diverse occasioni, invece, lo affermo con tristezza in questo momento, nei confronti del maestro del diritto s’è preferito utilizzare l’insulto, che ha finito per offendere solo chi l’ha pronunciato.
È sempre al confine (tra diritto pubblico e privato) che si possono scorgere i nuovi orizzonti d’indagine. Quello dei beni comuni. Nel 2008 sarà la “commissione Rodotà”, incaricata di riformare la disciplina codicistica dei beni pubblici, ad elaborare la categoria. Con una precisione che poi andrà perduta. Se quella Commissione – e poi Rodotà in tutte le sue riflessioni successive sul tema – avevano ben presente i limiti e la natura costituzionale della categoria (beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, si leggeva nella relazione[1]), mi sembra che successivamente ci si sia allontanati troppo dall’àncora costituzionale e che oggi sia elevato il rischio di un uso improprio, perché troppo generico, della formulazione “bene comune”, bonne à tout faire. Anche in questo caso sarebbe opportuno tornare a studiare i beni comuni con il rigore di Rodotà.
Rodotà non è stato solo uno studioso raffinato: il suo impegno civile lo ha portato dentro la mischia politica, in difesa coerente della sua visione di democrazia. Ha ricoperto cariche istituzionali importanti, ma ha anche dialogato con generosità e rispetto con i movimenti sociali (dal Teatro Valle ai giovani del cinema America), ha avuto rapporti intensi con le formazioni sociali (dal sindacato – aveva un debole per la Fiom – alle tante associazioni politiche e culturali – è stato a lungo Presidente delle Fondazione Basso). Rodotà è stato anche un protagonista del dibattito pubblico, ha svolto un’opera preziosa di pedagogia giuridica: scrivendo sui giornali, organizzando il festival del diritto, interloquendo con le altre scienze. Sapeva parlare con tutti, parlava di tutto con competenza.
Non spetta a me ricordare questa parte della sua vita. Non posso però concludere questo mio ricordo del giurista Rodotà senza un riferimento a quella che è stato il suo impegno istituzionale più rilevante per la storia del costituzionalismo, questa volta non solo italiano, ma europeo.
L’ultima “Carta” di valore costituzionale che è stata scritta porta la sua firma: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, elaborata dalla Convenzione che lo ha visto protagonista. Essa rappresenta il catalogo più ampio mai scritto dei diritti e il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa.
Subito dopo la sua approvazione, a Nizza nel 2000, Rodotà ha ingaggiato una lunga lotta per far conquistare alla Carta un valore giuridico e non solo politico. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ha conferito alla Carta dei diritti «lo stesso valore giuridico dei Trattati», qualcuno ha potuto ritenere che la battaglia fosse stata vinta.
Non Rodotà. Il quale, invece, scrive che l’Europa «ha voltato le spalle alla Carta». Una lezione di realismo che ci invita a riflettere sui limiti della formalizzazione giuridica e sulla necessità di guardare sempre alla realtà dei diritti: non basta che siano proclamati, ma richiedono sempre che essi siano sostenuti dalla politica, che li ha invece abbandonati. Ed è proprio questa latitanza della politica che richiede un surplus di impegno diretto, che ci chiama all’impegno civile.
«La salvezza dei diritti – ha di recente scritto – è nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti». Un compito che non può essere delegato ad altri, ma che spetta a ciascuno di noi. Il diritto ad avere diritti non è solo un bel titolo di un suo straordinario libro, è l’indicazione di una rotta, che lui con coerenza e forza ha perseguito.
Grazie Stefano, grazie per tutto quel che ci hai donato. Che la terra ti sia lieve.
Roma, 26 giugno 2017
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[1] I beni comuni sono quei beni a consumo non rivale, ma esauribile, come i fiumi, i laghi, l’aria, i lidi, i parchi naturali, le foreste, i beni ambientali, la fauna selvatica, i beni culturali, etc. (compresi i diritti di immagine sui medesimi beni) i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata, esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone e dei quali, perciò, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione collettiva, diretta e da parte di tutti, anche in favore delle generazioni future.