«Sta accadendo una cosa molto grave: i diritti fondamentali vengono affidati alla delega, passano cioè nelle mani del Governo, mentre spettano alla piena competenza del Parlamento e alla possibilità di un controllo da parte dell’opinione pubblica».
Questo, secondo Stefano Rodotà, era il “grave vulnus” contenuto nel ddl sul processo penale al capitolo intercettazioni. E questo fu l’allarme che lanciò il 25 settembre 2015, durante il “suo” Festival del diritto di Piacenza, chiudendo una tavola rotonda sul «Futuro della giustizia» con il ministro Andrea Orlando, l’allora presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli e il giurista nonché ex parlamentare del Pci, Pds, Ds Massimo Brutti.
Moderavo io quel dibattito, e non ho dimenticato le parole di Rodotà, che peraltro chiunque può risentire grazie alla registrazione di Radio Radicale[1].
Oggi che la delega sulle intercettazioni è diventata legge e che Rodotà se n’è andato, è ancora più doveroso ricordare le sue parole e riflettere sul rischio e sulle conseguenze di quello strappo denunciato.
I princìpi vanno tenuti saldi sempre e Rodotà sapeva farlo benissimo. Sottrarre alla “trasparenza” del procedimento parlamentare la disciplina sulle intercettazioni (che ha a che fare con diritti fondamentali come la privacy e la libertà di informazione) e «consegnare la delega a una Commissione ministeriale, sia pure di luminari, che lavorano nell’oscurità, senza che si sappia, giorno per giorno, che cosa stanno dicendo, crea un vulnus» – spiegò Rodotà – «perché si mettono le mani sulla prima parte della Costituzione dicendo invece che la prima parte è intangibile. Questo è un passaggio importante».
Un vulnus per lui inaccettabile, tant’è che non si fece blandire dalle voci che già lo davano come componente – addirittura come presidente – della costituenda Commissione ministeriale incaricata di esercitare tecnicamente la delega. Voci peraltro non confermate da Orlando in quell’occasione e che Rodotà liquidò con una battuta: «Ormai mi sento un libero cittadino e quindi nessun tipo di incarico mi incastrerà. Ho fatto ampiamente il mio servizio civile...».
Quanto al merito, ricordò perché fu possibile bloccare – durante il secondo governo Prodi, Mastella ministro della Giustizia – il ddl sulle intercettazioni subito dopo la sua approvazione da parte della Camera: «Perché quello era un procedimento, con tutti i suoi difetti, trasparente. E quindi consentiva all’opinione pubblica, anche organizzata, di intervenire». Stavolta, invece, «il ddl gioca tranquillamente con i diritti fondamentali della persona attraverso un meccanismo di delega, per cui ormai il potere di decisione su quei diritti è passato nelle mani del Governo, che sancisce l’irrilevanza del Parlamento non tenendo conto dei pareri che vengono dati».
Rodotà era convinto che questo meccanismo sarebbe finito prima o poi davanti alla Corte costituzionale. Ma sperava in un ripensamento di Governo e maggioranza. «Saggezza vorrebbe» – disse – «che si stralciasse questa parte dal ddl. La materia dei diritti fondamentali va affidata alla piena competenza del Parlamento e alla possibilità di un controllo da parte dell’opinione pubblica», ribadì.
Il ripensamento, però, non c’è stato e la delega è rimasta.
Ora il ministro Orlando sta per nominare i componenti della Commissione incaricata di confezionare lo schema di decreto legislativo. Che il Consiglio dei ministri dovrà varare entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge delega (cioè 30 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale), passando prima per i pareri (obbligatori, ma non vincolanti) del Parlamento. Dunque, probabilmente entro metà novembre, anche se questo termine potrà slittare di 60 giorni.
La tempistica è molto condizionata dalla volontà politica del Governo di incassare le nuove regole sulle intercettazioni prima delle inevitabili turbolenze della campagna elettorale. Il decreto legislativo sarà emanato dal Presidente della Repubblica, il che renderà ancora più approfondita la vigilanza del Quirinale.
Certo, la breccia ormai è stata aperta per cui – al di là di “come” verrà esercitata la delega – resta l’ombra della forzatura denunciata da Rodotà e di un precedente ingombrante (a prescindere da chi lo ha consumato) per sottrarre alla trasparenza del procedimento parlamentare decisioni su diritti fondamentali.
Ma resta anche – agli atti e nella memoria collettiva – la sua preziosa testimonianza; tanto più preziosa per il “coraggio” di parlare fuori dal coro in difesa dei diritti fondamentali.
«Scusate la tirata» – disse Rodotà congedandosi dal pubblico di Piacenza in quel 2015 – «ma si sa che io non me le tengo dentro, anche se questo non mi ha mai portato grandi consensi. Forse, però, mi ha consentito di fare qualcosa che mi piace». E chi lo ascoltava capì quanto fosse più importante costruire “qualcosa” che racimolare consensi facili. Capì che l’orgoglio compensava di gran lunga l’amarezza.
Donatella Stasio