1. Sono ben lieto di illustrare il rapporto che Stefano Rodotà ha intrattenuto con Magistratura democratica, non fosse altro perché il personale coinvolgimento nella vita di questa componente della magistratura mi ha dato l’opportunità e il privilegio di conoscerlo e di frequentarlo, assieme a Salvatore Senese, Edmondo Bruti Liberati e Giovanni Palombarini, dall’inizio degli anni ’80.
Nella polemica politica qualcuno ha rimproverato Rodotà di essere un “amico acritico” della magistratura e, in particolare, dei giudici di sinistra. Come vedremo, era tutt’altro che acritico, mentre amico lo è stato di certo. Basti ricordare a quanti congressi di Md ha preso parte, con forti e mai occasionali interventi nel dibattito. Tra i giuristi soltanto Luigi Ferrajoli può contare una pari presenza.
La ragione del rapporto privilegiato con Md, nell’interlocuzione mai interrotta che ebbe con tutta la magistratura, risultano sinteticamente delineati in un messaggio che Rodotà indirizzò ad una assemblea del gruppo il 20 aprile 2016.
«Ho assistito alla nascita di Magistratura democratica, ne ho seguito sempre il lavoro, in molte occasioni con una partecipazione diretta e convinta.
Il rinnovamento della cultura giuridica, e non di quella della sola magistratura, deve molto alla riflessione ed alla azione di questo gruppo rigoroso e appassionato.
Della sua storia ho anche avuto modo di discutere con molti suoi protagonisti, che ne hanno proposto una interpretazione niente affatto agiografica. Proprio lo spirito critico e autocritico, lo sguardo largo sulla società e sulla propria funzione, sono particolarmente necessari oggi, in un tempo di regressione culturale che si traduce in un impoverimento della politica, che sta producendo anche pericolose forme di disincanto, di ritirata dalla scena pubblica, proprio nel momento in cui massimo dovrebbe essere l’impegno di tutti per mantenere le condizioni indispensabili per il mantenimento degli equilibri costituzionali».
2. Rodotà ha sempre pensato e operato guardando alla giurisdizione come funzione essenziale dello Stato costituzionale di diritto per garantire e rendere effettivi i diritti fondamentali. Per un uomo concreto come lui − che pensava e agiva nel suo tempo e per le persone e la società del suo tempo, con grande capacità di coniugare il diritto con la materialità della vita a livello teorico e pratico (M. R. Marella) – la valorizzazione della giurisdizione implicava inevitabilmente attenzione ai soggetti reali a cui tale garanzia è affidata e, perciò, ai giudici, alla magistratura e alle relative dinamiche.
È stato un grande innovatore non soltanto della scienza giuridica e della dottrina civilistica, ma soprattutto del modo di guardare al diritto nell’ordinamento repubblicano fondato sulla Costituzione. E ciò ha cominciato a fare, appena trentenne, quando la Costituzione della Repubblica era “congelata”, nella mente dei giuristi prima ancora che nella volontà politica dei governi e nel chiuso delle aule giudiziarie.
Per lui il diritto non era né contemplazione teorica né soltanto sapere tecnico. Era vita, che sosteneva le donne e gli uomini nei loro bisogno vitali; era strumento di liberazione (ogni diritto della persona implica un ridimensionamento, una limitazione del potere da qualcuno esercitato); era leva di trasformazione sociale.
Fu dunque del tutto naturale, quasi scontato, l’incontro tra l’innovatore della dottrina civilistica e quel gruppo di magistrati, anch’esso nato a metà degli anni ‘60, che in campo giudiziario si proponeva obiettivi analoghi: rinnovare la giurisprudenza alla luce dei diritti, dei principi e dei valori della Costituzione; rinnovare la struttura degli apparati giudiziari, fortemente intrisa di autoritarismo gerarchico e di consonanza con il potere politico.
È significativo che uno dei momenti più rilevanti della nuova cultura giuridica del Paese fu individuato da Rodotà nel congresso di Gardone dell’Anm, che formalizzò “la scoperta” della Costituzione e indicò come doverosa per ogni magistrato, nell’ambito delle possibilità tecniche, l’interpretazione in senso costituzionale di ogni norma dell’ordinamento giuridico.
3. La valorizzazione del ruolo della giurisdizione e della magistratura non è mai stata da parte di Rodotà astratta e pregiudiziale. Egli non è mai stato tenero verso certe ricorrenti tendenze corporative e autoreferenziali della magistratura. Netta, per esempio, è stata la sua critica alla rappresentazione, in parte consolatoria, della magistratura tradizionale come chiusa nella sua torre d’avorio.
«La costruzione della magistratura come corpo separato non ha mai significato la chiusura dei giudici in una torre d’avorio: lo prova la storia della magistratura italiana, sempre separata, ma mai insensibile alle indicazioni dei gruppi dominanti. La separazione in realtà ha rappresentato la forma in cui si realizzava il rapporto tra i giudici e il “soggetto storico” del tempo» (Md – Rimini 1977).
Indimenticabile è rimasta la sua lucidissima diagnosi sull’opacità del ruolo effettivo e del funzionamento concreto della Procura della Repubblica di Roma negli anni ’80 («Il porto delle nebbie» fu intitolato il suo articolo su La Repubblica), solitamente lento e funzionale alla protezione dell’impunità del potere politico ed economico, ma – e per la medesima ragione − improvvisamente attivo e invadente nell’impedire al vertice della Banca d’Italia (impersonato da Baffi e Sarcinelli) di esercitare legittimi poteri di controllo sul malaffare di potenti amici di potentissimi uomini di governo.
Le analisi di Rodotà e di Md coincidevano nel ritenere che la magistratura in quegli anni era tutt’altro che separata dal potere, era piuttosto separata dalla società. Da questo convincimento di fondo originava il suo sostegno al tentativo di Md di praticare la giurisdizione come una “funzione di confine” tra istituzioni e società.
4. Nel commentare un Congresso di fine degli anni ’70 − oggetto di polemiche strumentali anche da parte di taluni esponenti del maggior partito della sinistra, che pretendevano un allineamento dei giudici progressisti al “soggetto storico della trasformazione” −, Rodotà – che pure criticò aspramente quella parte del Pci, invitandola a «mettere da parte la pretesa o l’illusione che la magistratura possa essere il soggetto passivo di decisioni prese altrove» – non fu affatto tenero verso talune prassi giudiziarie fondate sul cd. uso alternativo del diritto, di cui avvertiva il logoramento anche per gli evidenti limiti dell’azione giudiziaria, prodotti dalle ineliminabili caratteristiche di occasionalità e frammentarietà.
Rodotà parlava a Magistratura democratica come tramite per sollecitare l’intera magistratura a porsi all’altezza dell’impegno che all’istituzione giudiziaria era richiesto dalla società civile. La costatazione dei limiti dell’attivismo giudiziario lo induceva a un riesame della collocazione e del ruolo della magistratura nel sistema politico-istituzionale, valorizzando il fenomeno nuovo di domande sociali che cominciavano a dirigersi «verso il canale giudiziario non solo perché altri canali erano troppo stretti o del tutto chiusi, ma perché la magistratura comincia a presentarsi come un potere diffuso sul territorio e quindi in grado di garantire una maggiore vicinanza e corrispondenza rispetto al modo in cui le domande si formano e si articolano nell’organizzazione sociale».
Egli così individuò «una funzionalità nuova dell’attivismo giudiziario», possibile canale di domande altrimenti inevase. Emblematici i suoi ripetuti interventi pubblici nella drammatica vicenda Englaro, segnata da contrastanti interventi giudiziari, il suo convinto sostegno alla sentenza con cui la Corte di cassazione riconobbe il diritto di Eluana Englaro e, per contro, le sue aspre e argomentate critiche verso il tentativo della maggioranza politica di impedire alla giurisdizione di svolgere il proprio ruolo.
In quella occasione più che mai Rodotà fu davvero maestro di diritto e di laicità per giudici, per giuristi e per politici.
Anche nel rimarcare la funzionalità nuova dell’attività della magistratura, Rodotà non mancava di sottolineare un altro limite dell’attivismo giudiziario, il carattere spiccatamente individualistico di talune iniziative, limite che non poteva essere compensato con la partecipazione al dibattito pubblico, che rischiava anzi di ribadire ed esaltare il carattere volontaristico e individualistico di tali atteggiamenti. Sollecitava «una più matura presa di coscienza del ruolo e del modo in cui il giudice deve collegarsi ai processi sociali: non proiettandosi tutto fuori dell’istituzione giudiziaria, alla ricerca disperata di un’identità sociale che gli consenta di vincere la sua “separatezza”, ma dando voce agli interessi reali nel luogo in cui egli lavora, nel processo».
5. Costante è stata anche la sua critica alla categoria della supplenza giudiziaria, usata in maniera ricorrente da parte di quelle stesse forze politiche che, quasi a scarico di proprie responsabilità, delegarono alla magistratura la lotta al terrorismo, alla mafia e ad altri fenomeni che la politica non era in grado di affrontare (l’istituzione giudiziaria come «pattumiera dei conflitti sociali»); salvo a ritirare quella delega quando i magistrati, prendendo sul serio l’indipendenza, cominciarono a esercitarla in materia di corruzione, toccando da vicino il potere politico, che cominciò ad avvertire la giurisdizione come un pericolo per la politica, criticando il legittimo controllo di liceità sul concreto esercizio del potere da parte di singoli politici e amministratori come indebita invasione di campo.
6. Il pericolo per la politica − è stato questo il monito ricorrente nelle sue ultime fatiche − non viene dai diritti e dalle giurisdizioni, ma dalla nuova distribuzione in atto dei poteri a vantaggio dell’economia e della finanza, che tentano «di relativizzare, se non di rendere marginale, il ruolo di legislatori e di giudici». I diritti invece – ha ripetutamente sottolineato Rodotà − sono la speranza della politica, la possibilità di sopravvivenza della democrazia e del rilancio della politica, oggi impigliata tra economia globalizzata e derive populiste.
E su tale base – è questo il lascito politico e giuridico che proprio in sede parlamentare va rimarcato – ha proposto, per delineare i tratti di un costituzionalismo globale, «una rinnovata alleanza tra legislazione e giurisdizione», in cui al legislatore si richiede «la capacità di individuare principi, di definire il quadro costituzionale d’insieme all’interno del quale possa poi realizzarsi, la concretizzazione delle regole a opera dei giudici» (Il diritto ad avere diritti, p. 68).