Massimo Pavarini, penalista e criminologo, è scomparso a Bologna il 29 settembre 2015.
Non è mai facile scrivere di un amico nel momento del dolore per la sua scomparsa. Per Massimo Pavarini si deve superare l’ostacolo, perché Massimo di Magistratura Democratica e di Questione Giustizia è stato un amico e un compagno di viaggio prezioso.
Si può iniziare da un’immagine. Nel corso di una conferenza, lui stesso aveva parlato di sé come di un juke box che, una volta attivato, avrebbe potuto eseguire diverse composizioni in materia di carcere e pena. E in effetti, Massimo Pavarini era in grado di popolare aule, libri, piazze e conversazioni di note e cadenze di rara genialità e acutezza sul mondo della penalità. Una penalità indagata nella concretezza dei processi reali, in the facts, come avrebbe detto lui, non soltanto on the books.
La recherche di Massimo Pavarini intorno al mondo della “pena perduta” (come citava un suo titolo) prende le mosse dalle riflessioni sulle origini del sistema penitenziario, condensate in Carcere e Fabbrica. Scritta con Dario Melossi e scaturita anche dall’attenzione alle posizioni della penologia della scuola di Francoforte, l’analisi di quel volume mette in relazione l’affermarsi dell’istituzione penitenziaria con la nascente economia capitalistica e con il tentativo di risolvere, attraverso l’internamento e la neutralizzazione, il problema della miseria e della disciplina delle classi subalterne. I temi della neutralizzazione selettiva e di un diritto penale che, tutt’altro che minimo, sceglie di volta in volta il suo nemico, sono stati sempre presenti nel suo ragionamento, divenuto man mano sempre più un punto di riferimento quale controcanto alla narrativa normativa dominante della sicurezza, della recidiva reiterata, del terzo strike.
Il pensiero di Pavarini ha percorso ogni campo della penalità, compresi i territori ancora in larga parte inesplorati della prevenzione e della sicurezza urbana. Da allievo di Franco Bricola e Alessandro Baratta, tutti le regioni sono state attraversate con lo sguardo alto sull’orizzonte costituzionale e con rigorosa attenzione, tuttavia, a mettere in guardia da riduzioni semplicistiche (e antigarantiste) di una penalità “costituzionalmente orientata” a la page.
Il suo sguardo disincantato sulla pena ci ha fatto riflettere sul mito della rieducazione, per svelare il rischio di pretesa egemonica che si nasconde dietro alcune declinazioni di quel principio e il pericolo di giustificare, attraverso di esse, pratiche disciplinari al limite della disumanità.
Da queste riflessioni scaturisce la sua recente attenzione alla possibilità di fare dei diritti fondamentali in carcere, in un approccio conflittivo, una vera e propria “linea di resistenza” utile a invertire il principio di supremazia relativa dello ius puniendi; almeno fino a quando la prospettiva abolizionista – che lui, insieme a Livio Ferrari, aveva contribuito a vivificare con il manifesto No prison – non avesse reso concreta la strada di un diritto del crimine svincolato dalla duplicazione del male del delitto.
Consapevoli che non c’è altro modo per ricordare Massimo Pavarini se non quello di affidarsi alle sue stesse parole, proponiamo la riedizione di un brano dedicato ai processi di ricarcerizzazione nel mondo, pubblicato su Questione Giustizia del 2004 (n. 2-3).
Si tratta di un brano ricco di stimoli e ragionamenti, che hanno una loro validità affrancata dalla contingenza temporale. Una riflessione che testimonia tutta la fecondità di un sapere di cui siamo debitori. A partire da una fondamentale presa d’atto: Il governo della questione criminale è una delle diverse espressioni di intendere complessivamente l’ordine sociale. Dunque, non ci si può limitare ai libri e alle aule di giustizia, occorre guardare alla realtà di fuori. Su questa strada si deve continuare.