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Ripensare il giustificato motivo oggettivo

di Antonio Carbonelli
avvocato giuslavorista e filosofo a Brescia

Dopo la fine del cd. “blocco” dei licenziamenti per ragioni economiche, è urgente ripensare la figura del giustificato motivo oggettivo, anche alla luce della evoluzione giurisprudenziale dalla sentenza Cass., n. 25201/2016 in avanti

Con il decreto legge n.99/21 pubblicato il 30 giugno 2021, il giorno stesso di scadenza della normativa precedente, viene meno, almeno gradatamente, l’efficacia delle norme emergenziali per cui dal 23 febbraio 2020 restava preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art.3 L.604/66.

È dunque il momento di tornare a chiedersi cosa sia questo “giustificato motivo oggettivo”: in modo particolare, di tornare a chiederselo con riguardo al licenziamento detto in Italia, a-tecnicamente, “licenziamento economico”. 

Iniziando con una panoramica di diritto comparato, nell’ordinamento tedesco – e, si noti, sin da mezzo secolo fa – il licenziamento per ragioni non disciplinari è considerato illegittimo, quando «il lavoratore possa continuare ad essere occupato in altro posto nell’attività, o in un’altra attività dell’impresa», ovvero «a condizioni di lavoro modificate, quando il lavoratore ha chiarito di essere con ciò d’accordo». 

Particolare degno di attenzione, a differenza che nel nostro ordinamento, in quello tedesco l’obbligo di c.d. repêchage venne inoltre articolato mediante un obbligo complementare di riqualificazione, finalizzato a rendere possibile la prosecuzione dell’occupazione attraverso «ragionevoli misure di formazione e addestramento» a favore del lavoratore che rischia di essere estromesso dal posto di lavoro. 

Inoltre la legittimità sociale del licenziamento non sussiste, se il consiglio aziendale o altra rappresentanza d’interessi competente «ha dichiarato per iscritto di essere contrario al licenziamento per uno dei motivi suddetti». 

Nell’ordinamento francese le «difficoltà economiche» devono essere «caratterizzate o per l’evoluzione significativa almeno di un indicatore economico, quale una diminuzione degli ordinativi o del giro di affari, ovvero perdite di gestione o un calo del portafoglio o del prodotto operativo lordo ovvero per altri elementi di natura tale da giustificare le suddette difficoltà». 

Per aversi una diminuzione degli ordinativi e del giro di affari rilevante occorre inoltre che la sua durata sia, rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente, almeno eguale a un trimestre per un’impresa con meno di 11 addetti, due trimestri consecutivi per un’impresa tra 11 e 50, tre trimestri consecutivi per un’impresa fra 50 e 300 e quattro trimestri consecutivi per un’impresa con più di 300 addetti. 

Inoltre il licenziamento economico deve essere conseguente «a trasformazioni tecnologiche, a una riorganizzazione dell’impresa necessaria a salvaguardare la sua competitività o alla cessazione dell’attività dell’impresa». E per giunta, «le difficoltà economiche, le trasformazioni tecnologiche o la necessità di salvaguardare la competitività dell’impresa vanno apprezzate al livello di essa se non appartiene ad un gruppo e, nel caso contrario, al livello del settore di attività comune a tale impresa ed alle altre imprese del gruppo a cui appartiene, dislocate sul territorio nazionale».

Nell’ordinamento spagnolo, ai fini del licenziamento «a) si intende che ricorrono cause economiche quando dai risultati dell’impresa si desume una situazione economica negativa, come quando esistono perdite attuali o previste ovvero la diminuzione persistente del livello del suo fatturato, che possano incidere sulla sua vitalità e capacità di mantenere il volume dell’occupazione», e l’impresa ha l’onere di provare «la razionalità della decisione estintiva per preservare o favorire la sua posizione competitiva sul mercato – b) si intende che ricorrono cause tecniche quando si producono cambiamenti, fra gli altri, nell’ambito dei mezzi o strumenti di produzione – c) si intende che ricorrono cause organizzative quando si producono cambiamenti, fra gli altri, nell’ambito dei sistemi e metodi di lavoro del personale e cause produttive quando si producono cambiamenti, fra gli altri, nella domanda dei prodotti o servizi che l’impresa pretende di collocare nel mercato», e in proposito «l’impresa dovrà dimostrare la sussistenza di qualcuna delle cause segnalate e giustificare che dalle stesse si deduce la razionalità della decisione estintiva per contribuire a prevenire una evoluzione negativa dell’impresa e a migliorare la situazione della stessa, attraverso una più adeguata organizzazione delle risorse, che favorisca la sua posizione competitiva nel mercato e una migliore risposta alle esigenze della domanda». 

Sono inoltre previsti parametri quantitativi di determinazione degli elementi che dimostrano la sussistenza dell’una o dell’altra causa nominata di estinzione del rapporto di lavoro per siffatte ragioni: ad esempio, viene stabilita la presunzione per cui la diminuzione dei livelli di fatturato o di vendite deve considerarsi «persistente se si produce per tre trimestri consecutivi».

Nell’ordinamento portoghese – e sin da mezzo secolo fa, anche in questo caso, come in Germania – i «motivi economici o di mercato, tecnologici o strutturali» che devono presiedere alla soppressione-estinzione di un posto di lavoro devono essere «a) motivi economici o di mercato: una comprovata riduzione dell’attività d’impresa provocata dalla diminuzione della richiesta di beni e di servizi o dalla impossibilità sopravvenuta, pratica o legale, di collocarli sul mercato; b) motivi tecnologici: modificazioni nelle tecniche e nei processi di fabbricazione o automazione dei macchinari di produzione, di controllo o di movimentazione dei prodotti, nonché una informatizzazione dei servizi e una automazione dei mezzi di comunicazione; c) motivi strutturali: la chiusura definitiva dell’impresa o di uno o più stabilimenti, o di paragonabili strutture di essa, derivante da squilibrio economico finanziario, da mutamento di attività o da sostituzione dei prodotti dominanti». 

Occorre inoltre che nei sei mesi precedenti non siano state introdotte in azienda modifiche ai sistemi di fabbricazione, e che sia stato consentito al lavoratore coinvolto un adeguato periodo di riqualificazione per adeguarvisi (per una panoramica più dettagliata si veda M. Pedrazzoli, La giustificazione del licenziamento per motivi economico-oggettivi, differenze e variazioni di fattispecie nei principali paesi europei, in Riv. It. Dir. Lav. 2019,1,3).

E nell’ordinamento italiano?

Molto semplice: l’art.3 L.604/66 definisce come «giustificato motivo» detto «oggettivo» le «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».

Dunque quali sono, in concreto, le «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» tali da giustificare l’estinzione del rapporto di lavoro, detta anche licenziamento?

Molto semplice, anche questo: a fronte di un disposto così scarno da parte del legislatore, sono quelle che il giudice qualificherà come tali.

L’orientamento del tutto prevalente della Corte di cassazione italiana, sino alla sentenza n.5173 del 2015, è stato nel senso che «Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 della legge n. 604 del 1966, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale».

Dunque nell’ordinamento italiano, sino al 2015, le «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tali da giustificare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art.3 L.604/66», non potevano consistere in una mera «soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore strumentale ad un incremento di profitto»: la soppressione del posto di lavoro doveva essere «diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti».

A partire dalla sentenza n.25201 del 2016, invece, a 40 anni dalla promulgazione della legge n.604 del 1966, la Corte di cassazione ha iniziato a statuire che «Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente dimostrare l’effettività del mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, a meno che il datore di lavoro non abbia motivato il licenziamento richiamando l’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli».

Come mai?

Lo spiega la stessa cass. 25201/16, al punto 5.1 della motivazione: «Ai sensi della L. n.604 del 1966, art.3, nella parte che qui rileva, “il licenziamento per giustificato motivo … è determinato … da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. L’interpretazione letterale della norma, da cui occorre necessariamente muovere, esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere, ai fini dell’integrazione della fattispecie astratta, un presupposto fattuale - che il datore di lavoro debba indefettibilmente provare ed il giudice conseguentemente accertare - identificabile nella sussistenza di “situazioni sfavorevoli” ovvero di “spese notevoli di carattere straordinario”, cui sia necessario fare fronte».

Come dire, con asettico formalismo: nella legge non c’è scritto, e in 40 anni dalla promulgazione della legge n.604 del 1966 nessuno se n’era accorto.

Con buona pace, da un lato, di tutti coloro che in precedenza si erano visti dichiarare illegittimo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo per tali ragioni. Ma anche con buona pace, dall’altro lato, di tutti coloro che successivamente si sono poi visti dichiarare legittimo un identico licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sulla base della nuova lettura dell’ambito applicativo della norma data dalla Corte di cassazione, in assenza, nel nostro ordinamento, delle regolamentazioni più precise che abbiamo visto negli altri ordinamenti giuslavoristici europei. 

Ovviamente, nel nostro ordinamento giuridico i precedenti della Corte di cassazione non sono vincolanti per le decisioni future, tranne nel caso siano stati pronunziati dalle Sezioni Unite; e anche in quel caso possono essere modificati, se la causa viene deferita nuovamente alle Sezioni Unite. Come del resto le stesse sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale, che non dichiarano espressamente l’illegittimità costituzionale di una norma, non vincolano la Corte di cassazione. 

La sentenza n.25201 del 2016 tuttavia, nonostante l’importanza della questione, che riguarda niente meno che la possibilità di licenziare o meno per ragioni di tipo c.d. economico, è stata pronunziata dalla sezione lavoro della Corte di cassazione, non dalle Sezioni Unite. 

Non a caso, molti commentatori hanno stigmatizzato il fatto che la sezione lavoro non abbia sentito il bisogno di deferire la questione alle Sezioni Unite. 

Tale circostanza, tuttavia, presenta anche un vantaggio: che per modificare, o quanto meno rettificare, tale orientamento, che peraltro formalmente continua a coesistere con il precedente, la Corte di cassazione non ha la necessità di rivolgersi alle Sezioni Unite. Basta una nuova decisione della sezione lavoro. 

Ma analizziamo anche il fondamento economico della decisione. Tre mesi dopo la pubblicazione di cass. 25201/16, in Corte di cassazione si è presentata in udienza la discussione di un caso in cui era stato licenziato un operaio metalmeccanico, del costo aziendale annuo di scarsi 30 mila euro, ad opera di un’azienda che aveva appena reinvestito 20 milioni di euro di utili.

La Corte è stata dunque invitata all’equo contemperamento dei valori di rango parimenti costituzionale di libertà di iniziativa economica (art.41 Cost.) e di diritto al lavoro (art.4 Cost.).

Ne è uscita la sentenza n.13015 del 2017, con la quale la Corte, nel respingere il ricorso del lavoratore, dice qualcosa di più di cass. 25201/16.

Nella motivazione di tale decisione si legge infatti che «Né rileva l’eventuale esistenza di utili di bilancio, atteso che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro, nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo il limite che il suo obiettivo non può essere perseguito soltanto con l’abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni.

Ne consegue che, in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro - al quale l’art. 41 Cost., nei limiti di cui al comma 2, lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell’incremento della produttività aziendale - non è tenuto a dimostrare l’esistenza di sfavorevoli situazioni di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dalla citata L. n. 604 del 1966, art. 3.

Diversamente, si dovrebbe ammettere la legittimità del licenziamento soltanto ove esso tenda ad evitare perdite di esercizio (e quindi, in prospettiva, a prevenire il rischio di fallimento dell’impresa) e non anche a migliorarne la produttività.

Ma una conclusione del genere non si ricava dalla L. n. 604 del 1966, art. 3 cit., né dall’art. 41 Cost.: infatti, la libertà di iniziativa economica privata non può ridursi ad un’attività improduttiva di redditi e, perciò, mirante ad una mera economicità di gestione. Ciò sarebbe in astratto concepibile per un ente pubblico economico che agisse in condizioni di monopolio e non per un’impresa privata attiva all’interno d’un regime di concorrenza, nel quale, in termini microeconomici e nel lungo periodo, se operante con il maggior costo unitario di produzione essa sarebbe destinata ad essere espulsa dal mercato».

Dunque il fondamento economico dell’orientamento coniato nel 2016 sta nel fatto che «la libertà di iniziativa economica privata non può ridursi ad un’attività improduttiva di redditi» (che scoperta), dal quale si pretende tuttavia di trarre che «un’impresa privata attiva all’interno d’un regime di concorrenza … in termini microeconomici e nel lungo periodo, se operante con il maggior costo unitario di produzione … sarebbe destinata ad essere espulsa dal mercato».

Cioè che, «in termini microeconomici», un’azienda che ha appena investito 20 milioni di euro di utili, «se operante con il maggior costo unitario di produzione» determinato dal mantenimento in servizio di un operaio del costo di scarsi 30 mila euro annui, «sarebbe destinata ad essere espulsa dal mercato», a meno di «ridursi ad un’attività improduttiva di redditi».

Anche una massaia che fa la spesa al supermercato si rende conto che, dalla premessa che «la libertà di iniziativa economica privata non può ridursi ad un’attività improduttiva di redditi», non discende l’inferenza che l’acquisto di un pacchetto di caramelle per il nipotino, «in termini microeconomici e nel lungo periodo», la renda «destinata ad essere espulsa dal mercato», o dal supermercato.

Ma l’argomento microeconomico è tutt’altro che banale.

Merita anzi un’attenta analisi e critica, in quanto suscettibile di dar luogo a sofismi ed equivoci anche nelle menti più attente e preparate. 

Il problema sta nel fatto che, come insegnano anche i migliori manuali di economia, in regime di c.d. “concorrenza perfetta” un incremento dei costi di produzione (un esempio a caso: un incremento dei salari) nei bilanci aziendali provoca delle perdite, se non vi è la possibilità di ridurre i costi (un esempio a caso: con un licenziamento per giustificato motivo oggettivo). 

Ed è ovvio e intuitivo che un’impresa non può lavorare in perdita, se non per periodi ragionevolmente brevi.

Ma quando si realizza, nella realtà economica, il regime che gli economisti chiamano tecnicamente di “concorrenza perfetta”?

Risposta: mai.

Quello che i manuali di economia omettono di riferire è che lo stato di c.d. “concorrenza perfetta” è una condizione solo teorica, ipotizzata alla fine dell’‘800 dall’economista francese Walras, che nei Lineamenti d’una dottrina economica e sociale (1898) riteneva che «i mercati tendono senza mai raggiungerlo verso uno stato d’equilibrio in cui sia offerta e domanda d’ogni prodotto o servizio, sia costi di produzione e prezzi di vendita d’ogni prodotto son uguali». 

E da tale presupposto non dimostrato nei suoi Elementi d’economia politica pura (1874-1902) traeva che «nello stato normale cui tendono le cose in regime di libera concorrenza, o stato d’equilibrio nello scambio», quello che gli economisti oggi chiamano stato di “concorrenza perfetta”, accade che «il prezzo di vendita dei prodotti è eguale al loro prezzo di costo». 

Ma, aveva la cura e l’onestà intellettuale di aggiungere Walras, «si tratta di uno stato ideale e non reale che non si verifica mai, dato che gli imprenditori non vi fanno né guadagno né perdita». 

Come possa la realtà tendere verso uno stato irreale, Walras non lo spiega. Né spiega chi possa essere così insensato da investire un capitale e affrontare il rischio d’impresa solo per raggiungere uno stato «che non si verifica mai, dato che gli imprenditori non vi fanno né guadagno né perdita».

Ma il punto, che i manuali di economia omettono di riferire, è che lo stato di c.d. “concorrenza perfetta”, quello in cui un incremento dei costi di produzione (un esempio a caso: un incremento dei salari), nei bilanci aziendali provoca sempre e solo delle perdite, è «uno stato ideale e non reale che non si verifica mai, dato che gli imprenditori non vi fanno né guadagno né perdita», come ha cura di spiegare Walras. Nella realtà concreta dei rapporti economici, invece, i profitti, almeno di regola, ci sono.

Già nel 1995 l’economista Usa Solow, Nobel per l’economia nel 1987, nel Saggio critico sulla teoria macroeconomica moderna rilevava che «L’incapacità di considerare la concorrenza monopolistica», cioè il fatto che nella realtà concreta dei rapporti economici non si verifica il caso di c.d. “concorrenza perfetta”, i profitti ci sono, «lascia insinuare nella macroeconomia stupidaggini mascherate da conseguenze necessarie dei microfondamenti». Stupidaggini le chiama, senza mezzi termini. 

E aggiungeva che «l’ipotesi di concorrenza perfetta dà profitti nulli, mentre, al contrario, nella concorrenza imperfetta profitti e perdite vi sono». 

Anzi, «I passi avanti recenti nella comprensione del mercato del lavoro si basano sulla percezione che imprese e lavoratori, organizzati e non, sono impegnati in un processo di divisione dei profitti generati dal funzionamento delle imprese, che si svolge in modo in parte cooperativo e in parte conflittuale».

Questo è il punto, dunque: la ripartizione dei ricavi tra capitale e lavoro. 

Perché allora i manuali di economia insistono nel presentare agli studenti impreparati che si accostano per la prima volta ai misteri dell’economia il modello astratto e irreale della c.d. “concorrenza perfetta”, in cui non vi sarebbero né profitti né perdite?

Ha la franchezza di spiegarlo l’economista liberista inglese Kirzner, nel saggio Come funzionano i mercati (2002): «La teoria dell’equilibrio», cioè della concorrenza perfetta, «è utile per comprendere quanto accade nei mercati se si tratta d’individuare le conseguenze di alcune interferenze statali, per esempio mostrare come il prezzo massimo crei carenza di bene o il prezzo minimo crei eccedenza». 

Traducendo il gergo degli economisti, come lo chiama Milton Friedman, significa che l’analisi microeconomica, per quanto descriva un mondo astratto e irreale, serve a dare l’illusione che un prezzo massimo crei carenza di bene (ad esempio, che il prezzo massimo degli affitti crei sempre e necessariamente carenza d’alloggi nelle città, perché renderebbe sempre e comunque non conveniente dare un alloggio in locazione), oppure che un prezzo minimo crei eccedenza (ad esempio, che il livello minimo del salario spettante per una certa mansione crei sempre e necessariamente un incremento della disoccupazione, perché renderebbe sempre e comunque non conveniente assumere o mantenere un lavoratore in più).

Questi fenomeni hanno una loro verità: ma solo nel caso astratto e teorico, occorre tenere presente, che gli economisti chiamano di “concorrenza perfetta”: che tuttavia non si verifica mai, come lo stesso Walras aveva cura di avvertire.

Nella realtà ordinaria dei rapporti economici i profitti invece ci sono, come c’erano, ed erano stati ampiamente reinvestiti, nel caso deciso da cass. 13015/17: e nel caso in cui i profitti esistano, che costituisce invece la regola, un incremento dei costi, almeno nella generalità dei casi, provoca soltanto una diminuzione dei profitti. 

Il fondamento economico, anzi, microeconomico, su cui poggia l’orientamento introdotto da cass. 25201/16 ed esplicitato più approfonditamente da cass. 13015/17 risulta dunque assai fragile: e proprio sul piano dell’analisi economica.

Il punto, ancora una volta, è la ripartizione dei ricavi tra capitale e lavoro. 

Che può essere più o meno equa, o più o meno iniqua, a seconda di come sia regolata non da rapporti di mera forza contrattuale, nei quali il pesce più grosso divora il pesce più piccolo, ma in modo da contemperare le rispettive esigenze e da realizzare l’equo bilanciamento tra valori costituzionalmente tutelati. 

Si tratta dunque di verificare quanto una diminuzione dei profitti, dovuta al costo del mantenimento in servizio di un lavoratore, possa oggettivamente incidere o meno sulla redditività di un’impresa. 

L’orientamento introdotto da cass. 25201/16 inoltre presenta inconvenienti sia di tipo logico, sia di tipo pratico.

Sul piano logico, l’inconveniente è di non consentire di distinguere quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia effetto della soppressione del posto di lavoro e quando invece la soppressione del posto di lavoro sia semplicemente effetto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: una è l’effetto dell’altro, in quello che nella logica filosofica si chiama circolo vizioso.

Sul piano pratico, affermare che per il datore di lavoro che intima il licenziamento per giustificato motivo oggettivo vi sarebbe come unico «limite che il suo obiettivo non può essere perseguito soltanto con l’abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni», come si legge nella motivazione di cass. 13015/17, cioè che l’unico limite starebbe in quello che coloro che amano esibire qualche vocabolo inglesizzante chiamano “replacement”, presenta anche gravi difficoltà di tipo applicativo. 

Per realizzare il “replacement”, infatti, allo stato attuale del nostro ordinamento giuslavoristico basta attendere qualche mese dal licenziamento: giusto il tempo perché spirino il termine per l’impugnativa del licenziamento e per l’esercizio del diritto di prelazione nelle nuove assunzioni. O attendere che decorra il tempo per la definizione del rapporto giuridico controverso, se superiore. O attuare un’esternalizzazione fittizia.

O ancora più facilmente, è sufficiente “bluffare” in sede di conciliazione preventiva obbligatoria ai sensi dell’art.7 L.604/66: nella quale ordinariamente il lavoratore, in spregio di ogni principio costituzionale, non ha gli strumenti giuridici, ma soprattutto non è a conoscenza degli elementi di fatto rilevanti, per poter apprestare un’adeguata difesa nei confronti dell’iniziativa “datoriale”. 

Sembra giunta dunque l’ora per ripensare in modo più approfondito il contenuto del “giustificato motivo oggettivo” scarnamente disciplinato nel nostro ordinamento dalla legge n.604 del 1966.

Un ultimo piccolo passo, dal punto di vista di chi opera nel concreto dell’attività giuridica. 

Sul piano operativo, dato che il processo del lavoro si va strutturando sempre più come un processo di tipo impugnatorio, in cui non basta più dire “sono stato licenziato, il licenziamento è illegittimo”, come qualche anno fa, poiché molti giudici si astengono dall’indagare i motivi di illegittimità del licenziamento non espressamente dedotti e dal far uso dei poteri istruttori loro demandati dall’art.421 c.p.c., è importante già nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado delineare le ragioni di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo che si va a impugnare: comprese quelle che saranno ritenute rilevanti dalla Corte di cassazione, ove mai la questione dovesse essere sottoposta alla sua cognizione, alcuni anni dopo, secondo gli orientamenti che si saranno formati nel frattempo.

Dunque sin dal ricorso di primo grado occorre dedurre per quali ragioni il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che si va a impugnare dovrà essere dichiarato illegittimo in un futuro più o meno prossimo. Compresa l’insussistenza di «situazioni sfavorevoli non contingenti», ove mai dovesse tornare ad assumere rilievo.

27/07/2021
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