Anche l’accademia fa sentire la sua voce sulla questione carceraria nei giorni del coronavirus, écrivains engagés, si sarebbe detto un tempo, e sappiamo quanto bisogno di impegno ci sia di questi tempi.
Le Osservazioni e proposte del Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (Aipdp) sull’emergenza da coronavirus fotografano il carcere esistente e ed evidenziano la grave insufficienza delle risposta legislativa arrivata col decreto-legge “Cura Italia”.
Una soluzione che rischia di trasformarsi in finzione. L’applicabilità della detenzione domiciliare alle sole pene residue di diciotto mesi, l’obbligo del braccialetto elettronico, le numerose clausole di esclusione dalla platea dei potenziali beneficiari e la mancata deroga alle preclusioni dell’ordinamento penitenziario sono ingredienti che rendono lo strumento di fatto inutilizzabile per ridurre la popolazione carceraria. Lo hanno rilevato in molti. L’Unione delle Camere Penali Italiane lo denuncia ogni giorno.
E così, magistrati di sorveglianza e giudici di cognizione continuano a lavorare con l’esistente, ma è come usare il cucchiaino per togliere acqua da una piscina. Al 20 marzo 2020, come scritto nel documento del direttivo Aipdp i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 59.132, a fronte dei 61.230 del 29 febbraio. Ancora troppi se si considera che la capienza effettiva è di poco più di 47.000 posti. In queste condizioni, nessuna profilassi è possibile e gli spazi per l’isolamento sanitario non possono tenere alla prova dell’infezione.
Le soluzioni offerte al decisore politico sono molte e il documento del direttivo Aipdp le riassume in maniera egregia. Tutte le indicazioni ruotano attorno alla necessità di non aggravare i numeri del carcere in ingresso (differimento dell’ordine esecuzione, più facile praticabilità degli arresti domiciliari) e di favorire una deflazione controllata e verificata della popolazione detenuta (liberazione anticipata speciale, permanenza notturna per i semiliberi e i lavoratori all’esterno e altre). Il semplice innalzamento della detenzione in deroga a quei detenuti che devono ancora espiare due anni di pena (misura prevista anche dal documento che pubblichiamo) consentirebbe di allargare il range dei potenziali fruitori della misura, senza intaccare le esigenza di sicurezza sociale.
Gli avvertimenti dei professori, degli avvocati e dei magistrati ci sono e sono tanti. Ora tocca alla politica.
Un’ultima considerazione. Il documento dell’accademia giunge lo stesso giorno in cui Il Gazzettino, quotidiano di Venezia, pubblica la risposta del Presidente Mattarella alla lettera indirizzatagli dai detenuti delle carceri di Venezia, Padova e Vicenza. Gli ospiti di quelle strutture, oltre a farsi portatori della voce di tutta la popolazione carceraria e del personale di Polizia Penitenziaria in ordine alla gravità del rischio epidemico in prigione, raccontavano al Capo dello Stato la loro decisione di fare un colletta a favore degli ospedali e di impegnarsi con il lavoro volontario nei Centri di Prenotazione. Loro che sanno, come hanno scritto, “cosa voglia dire perdere una persona cara (madre, padre, moglie, figli, fratelli) senza potergli essere accanto”.
Ecco, nelle carcere italiane non ci sono solo i violenti che hanno tenuto banco nelle rivolte. Nelle patrie galere, nonostante tutto, capita che i cattivi diventino buoni. Dobbiamo capire, come ha scritto il Presidente, che il popolo dei ristretti fa parte della grande collettività italiana e che soltanto in questo modo la promessa dell’art. 27 si avvera. La politica, soprattutto, deve mettere questo pensiero in agenda. Ora.