1. Salario minimo e limite minimo del salario
Il tema del salario minimo, che ha dato luogo a una significativa assunzione d’iniziativa da parte dell’opposizione parlamentare, ha occupato le cronache estive quantunque le possibilità di un approdo legislativo[1] sembrino al momento assai limitate.
Per quanto emerge dalle dichiarazioni politiche e dalla stessa relazione che accompagna la proposta di legge n. 1275 («Disposizioni per l’istituzione del salario minimo») presentata alla Camera dei Deputati il 4 luglio 2023 a firma di ventisei parlamentari di opposizione, di questa proposta non viene data una collocazione teorica chiara e soddisfacente.
Alcune frammentarie affermazioni possono peraltro essere superate mediante più netti riferimenti.
Si può intanto dire che non sarebbe corretta la prospettazione della “misura numerica” del salario minimo come elemento discriminante, anche in prospettiva, lo “sfruttamento” del lavoro.
Il termine «sfruttamento» - che peraltro, come si vedrà, il legislatore usa anche in ambito penale - è in sé ambiguo, e non può essere ridotto a una connotazione etica: siamo nel campo del diritto e dell’economia e quel termine può subire una divaricazione significativa laddove lo si legga in una prospettiva (totalmente) liberista ovvero (coerentemente) marxista.
Nella prima si potrà affermare che lo sfruttamento della risorsa costituita dalla forza lavoro rientra nei canoni di una corretta ed efficace gestione aziendale finalizzata alla competizione sul mercato; nella seconda non potrà che farsi riferimento allo sfruttamento come coessenziale al modo di produzione capitalista così come si esprime nella definizione del rapporto tra salario, prezzo e profitto, con l’appropriazione della quota di lavoro destinata a plusvalore.
Ma vi è di più. Nell’elaborare con originalità la questione del limite minimo del salario, Marx (Il Capitale, libro I, sezione VII, capitolo XXIV; Editori Riuniti, Le Idee, 1970) afferma:
«La gratuità degli operai è dunque un limite in senso matematico, sempre irraggiungibile, benché sempre più approssimabile. È tendenza costante del capitale di abbassare gli operai fino a questo punto nichilistico».
La condizione strutturale del capitalismo nella sua forma estrema (o logicamente finale) è la riduzione a zero del salario.
Questa condizione – così come l’antecedente in economia politica, la legge bronzea del salario[2] – non si è però attuata in concreto nei paesi di democrazia occidentale per il concorso di più cause: non solo quelle, studiate in principalità dagli economisti, di natura sociale, tecnologica, demografica, ma anche, in Italia, la cornice costituzionale e la costante del principio lavoristico così come i Costituenti lo hanno costruito, come la legislazione ordinaria lo ha progressivamente recepito, come la giurisprudenza lo ha nel tempo in concreto attuato.
Non così, vale la pena di rammentarlo, in altri luoghi del mondo, dove la prestazione di lavoro di natura sostanzialmente schiavistica è una realtà meritevole dell’attenzione del costituzionalismo sovranazionale pensato da Luigi Ferrajoli[3].
Quella dello “sfruttamento”, quantunque prospettata, come qui si è cercato di fare, in forma sintetica estrema, non è dunque questione solo nominalistica ma qualificante il senso politico di una legislazione in materia di salario.
Realisticamente, in un’economia di mercato [che deve essere] temperata, nel contesto italiano, per chiara scelta costituzionale, da elementi di matrice socialista, e nella quale la contrattazione collettiva è elemento centrale del rapporto concreto tra capitale e lavoro, ci si può aspettare come fisiologica una normazione “correttiva” del tipo di quella contenuta nella proposta di legge n. 1275, che contrasti – in una prospettiva che meglio si chiarirà oltre – lo “sfruttamento estremo” del lavoro.
2. La proposta di legge sul salario minimo
La proposta di legge esordisce all’articolo 1, comma 1, dichiarando lo scopo di attuazione dell’articolo 36 della Costituzione; e richiama altresì, al comma 3, l’articolo 35 della Costituzione.
Un esordio “alto” che viene confermato dalla rubrica dell’articolo 2, nella quale si fa testuale riferimento alla «retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato».
In concreto le norme proposte richiamano la contrattazione collettiva - salvo il riferimento numerico, di ulteriore garanzia, al valore soglia del trattamento economico minimo orario, gli ormai noti nove euro – nei termini in cui i suoi contenuti sono stati adottati in via pretoria: come si legge nella relazione introduttiva «i contratti collettivi non sono dotati di efficacia erga omnes, attesa la mancata attuazione dei commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 39 della Costituzione. Ciononostante la giurisprudenza utilizza, nella maggioranza dei casi, i trattamenti minimi fissati dal contratto collettivo quale parametro per l’individuazione della retribuzione sufficiente ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione».
La disciplina della materia, invero essenziale, che la proposta di legge contiene, ha una chiusura di natura lato sensu sanzionatoria nell’articolo 6, rubricato «Repressione di condotte elusive»: che prevede un intervento del giudice del lavoro il quale, ad esito di rito sommario, può ordinare al datore di lavoro «con decreto motivato e immediatamente esecutivo la corresponsione ai lavoratori del trattamento economico complessivo e di tutti gli oneri conseguenti».
Le condotte elusive del datore di lavoro sono descritte, in forma generica, come «comportamenti diretti a impedire o a limitare l’applicazione delle disposizioni della presente legge»; ma vengono fatti salvi «gli ulteriori strumenti di tutela previsti dall’ordinamento» dei quali si cita ex professo la sola diffida accertativa di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124 (che prevede che, qualora nell'ambito dell'attività di vigilanza emergano inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscono crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il personale ispettivo delle Direzioni del lavoro diffidi il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti).
Si postula dunque che da parte datoriale la disciplina del salario minimo possa essere oggetto di forme di elusione di natura varia e non classificabile.
3. Elusione datoriale, lavoro povero, lavoro nero
Si può affermare che questa consapevolezza, sia pure declinata nella proposta normativa in forma generica, derivi dalla variegata esperienza concreta di collocazione di prestazioni lavorative in ambiti diversi da quello che dovrebbe essere il modello costituzionalmente orientato del lavoro dipendente (a tempo indeterminato, con garanzie di stabilità, regolato da contratti collettivi, retribuito su quella base e comunque in misura proporzionata e dignitosa, rispettoso delle norme previdenziali, tributarie, prevenzionistiche[4]) mediante contratti collettivi pirata, lavori elusivamente autonomi o a termine, proliferazione di forme di lavoro atipico, subappalti a cascata, strutturale/paradossale ricorso delle aziende alle esternalizzazioni e così via; per finire alla galassia del lavoro nero.
Già nella scorsa legislatura, a fronte della presentazione di una prima proposta di legge sul salario minimo, si erano levate voci critiche, di coerente matrice capitalista[5], secondo le quali norme regolatrici della materia avrebbero incentivato il lavoro nero.
Indubbiamente esiste una tendenza alla fuga verso il lavoro nero che, con la sua invisibilità, consente sin da ora e consentirebbe in futuro, in presenza di norme cogenti sul minimo, la “deriva bronzea” del salario.
Più in generale, l’insieme dei fenomeni gradatamente elusivi della disciplina del lavoro di cui si è detto, coincide nel produrre quantomeno due effetti: l’indebolimento del modello di lavoro dipendente; la diffusione del fenomeno economico-sociale del lavoro povero.
E’ di questo secondo versante che la proposta di legge sembra volersi fondamentalmente occupare, come segnala da subito la relazione che la accompagna, richiamando il lavoro di ricerca sui working poor dell’Istituto sindacale europeo (ETUI) e la relazione «Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa» curata dal gruppo di lavoro istituito con decreto n. 126 del 2021 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Il richiamo al contesto sovranazionale avviene con riferimento non solo all’esistenza di forme di salario minimo normativamente regolate in ventidue paesi dell’Unione europea ma anche alla direttiva 2022/2041/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 ottobre 2022, relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea (non citata ma pertinente nella prospettiva che qui si esamina è anche la direttiva 2019/1152/UE, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili e volta ad assicurare diritti minimi ai lavoratori nell’Unione).
Si legge nella relazione: «Come ribadito dagli studi economici allegati alla direttiva, l’introduzione di una disciplina legale sul salario minimo costituirebbe un ulteriore e indispensabile tassello al raggiungimento degli obiettivi ispiratori che dovranno essere perseguiti dagli Stati membri nella realizzazione dei Piani nazionali di ripresa e resilienza nell’ambito del programma straordinario di investimento denominato Next Generation EU. La garanzia di una retribuzione dignitosa e adeguata per tutti i lavoratori, infatti, favorirebbe senz’altro la realizzazione di un mercato del lavoro più inclusivo, equo e paritario, abbattendo le disuguaglianze, anche in termini di divario retributivo di genere».
L’ulteriore questione del gender gap viene qui collocata, come l’intero ragionamento, in un contesto di “miglior funzionamento” dell’economia di mercato: e infatti, più oltre, la relazione richiama la necessità di uno strumento «che dia certezza del diritto ai datori di lavoro e ai lavoratori, che contrasti efficacemente forme di competizione salariale al ribasso e che garantisca dunque la correttezza della competizione concorrenziale sul mercato da parte delle imprese» (nostri corsivi).
Enfasi sul lavoro povero, dunque, ma collocazione della proposta in una cornice indiscussa di economia di mercato.
Si può, invece, ritenere, che affrontare il tema del salario minimo non debba servire solo per venire incontro alle esigenze dei lavoratori poveri; ma per agire sulle cause che in un’economia di mercato producono lavoro povero.
La natura “correttiva”, di cui s’è detto, va cioè fatta evolvere: la Costituzione, nei suoi ineludibili elementi di socialismo del lavoro, chiede correzioni strutturali all’economia di mercato, non solo correzioni contingenti rispetto alla presunta inevitabilità di alcuni effetti deteriori ritenuti eccessivi del modello capitalistico.
L’insieme delle pur brevi considerazioni sin qui svolte sembra mostrare come una disciplina del salario minimo debba collocarsi in un contesto e ricercare/offrire un senso, essendo sostenuta da un complessivo orientamento politico legislativo.
Si può intanto affermare, in prima approssimazione, che un sistema normativo sul salario minimo dovrebbe accompagnarsi a una riconsiderazione della regolazione normativa del lavoro nero.
Ossimoro che si scioglie considerando che quella regolazione non può che essere di tipo sanzionatorio.
L’esame dei lavori parlamentari ci offre uno spunto a partire dal quale è possibile individuare una potenziale linea di sviluppo del tema proposto.
E’ stata presentata alla Camera il 22 novembre 2022 la proposta di legge AC 613 «Modifiche al codice penale concernenti l’introduzione dei reati di omicidio e di lesioni personali gravi o gravissime commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali», che prevedendo, come si legge nella relazione, di introdurre «fattispecie delittuose tipiche, di natura colposa, denominate “omicidio sul lavoro” e “lesioni personali derivanti da infortuni sul lavoro”, modulando le sanzioni principali e accessorie previste per le fattispecie di cui sopra» individua una particolare criticità, in questo ambito, «determinata dall'invisibilità delle prestazioni di lavoro irregolari, a causa della quale l’infortunio non viene neppure denunciato, con conseguente impunità dei responsabili».
Nella proposta di legge si prevedono aggravanti ad effetto speciale nel caso di morte o lesioni del lavoratore cagionate «nell’esecuzione di un rapporto di lavoro irregolare sul piano contrattuale o contributivo».
Si tratta dell’apertura di una frontiera descrittiva ulteriore rispetto alle previsioni della proposta di legge sul salario minimo e che reca con sé – laddove vi dovesse essere un seguito parlamentare, non scontato, trattandosi anche in questo caso di una proposta proveniente dall’opposizione – la necessità di una riflessione che coinvolga anche la formulazione dell’art. 603-bis del codice penale.
L’articolo, rubricato «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», al terzo comma propone «indici di sfruttamento»: non dunque un’elencazione tassativa ma elementi sintomatici di sfruttamento del lavoro, descritti come: sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; sistematica violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità personale; sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.
Come è stato opportunamente osservato[6], «gli indici di sfruttamento, come chiaramente affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento alla legge, non fanno parte del fatto tipico, tanto che la loro genericità non costituirebbe un vulnus alle garanzie sottese al principio di legalità. Né, tantomeno, tali indici possono consentire presunzioni, assolute o relative, dello sfruttamento, perché allora contrasterebbero con i principi di garanzia che presiedono alla materia processuale. Tutt’al più, costituiscono delle linee guida che, secondo le intenzioni del legislatore, orientano l’interprete, che deve destreggiarsi in un universo semantico così poco definito. La vaghezza del concetto di sfruttamento non è, però, riducibile attraverso un mero esercizio ermeneutico perché la sua definizione implica un bilanciamento delicato tra interessi economici e diritti fondamentali, che compete solo al sistema politico e, quindi, al legislatore».
La norma penale, nella formulazione vigente, corrisponde in certo modo alla stessa logica “incompleta” dell’attuale proposta sul salario minimo: mentre da tempo si legittima e si produce una regolazione normativa accondiscendente a «un sistema di produzione la cui tendenza evolutiva è segnata da una costante destrutturazione della disciplina del mercato del lavoro e dallo smantellamento dei diritti dei lavoratori […] si introducono rimedi agli effetti distorsivi di tale politica lavorativa» nel caso specifico della norma penale citata «attraverso un confuso e ambiguo intervento repressivo[7]».
Incompletezza e ambiguità che nel caso dell’art. 603-bis c.p. potrebbero essere superate costruendo una vera e propria fattispecie penale di "lavoro nero", distinta dal "caporalato" e dall'attuale fattispecie di "sfruttamento del lavoro".
Formulando qui un’ipotesi minima, per ottenere questo risultato gli attuali «indici sintomatici di sfruttamento» del terzo comma dell'art. 603-bis c.p. dovrebbero diventare elementi di [altra] fattispecie: soluzione favorita dall’essere fatti in sé descrittivi del lavoro nero; la norma quindi verrebbe a trattare le ipotesi, penalmente rilevanti, di intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro (non sintomaticamente descritto), lavoro nero.
In tal senso il terzo comma potrebbe essere modificato dichiarando che «costituisce prestazione di lavoro nero...» ed eliminando il termine «reiteratamente» dai nn. 1 e 2; nonché eliminando il n. 3 (poiché sarebbe eccessivo considerare lavoro nero quello in presenza di pure e semplici violazioni di norme antinfortunistiche).
Lavoro povero, lavoro irregolare, lavoro sfruttato, lavoro nero: tenendo presente l’ineludibilità degli elementi di socialismo del lavoro contenuti nella Costituzione, si potrebbe pensare a una unificazione delle prospettive di riforma e a un impegno definitorio, con una declinazione normativa in una progressione che parta dalle garanzie, che comprenda la regolazione amministrativa e il controllo, che preveda una «regione esterna sanzionatoria» dotata di effettività al fine di interrompere le vie di fuga verso lo sfruttamento estremo del lavoro non come fatto eticamente o socialmente censurabile ma come ipotizzabile tendenza di attori dell’economia di mercato.
I probabili ulteriori ostacoli parlamentari che incontrerà la proposta di legge n. 1275, potrebbero essere l’occasione per alzare l’asticella da parte dei proponenti, imponendo ai renitenti un’agenda di ancora maggiore impegno.
[1] Per lo stato dei lavori parlamentari https://www.camera.it/leg19/126?tab=&leg=19&idDocumento=1275&sede=&tipo=
[2] Un discorso sul salario - e sul salario minimo – si può collocare nella generale logica ostativa della tendenza capitalistica storicamente descritta da Ferdinand Lassalle (preceduto da David Ricardo, con sfumature malthusiane) come «legge bronzea del salario» secondo cui i salari reali dei lavoratori non si sarebbero tendenzialmente distaccati da quello di sussistenza (cioè pari al valore delle merci e dei beni necessari a soddisfare esclusivamente i bisogni primari del lavoratore e della sua famiglia); retribuzione che, laddove aumentata, sarebbe stata ricondotta al livello di sussistenza a causa dell’incremento dell’offerta di forza lavoro, dovuta all’afflusso di manodopera dalle campagne, al progresso tecnico produttivo che produce risparmio di forza lavoro e all’incremento della popolazione totale (elemento malthusiano non condiviso da Marx che attribuiva fondamentalmente la tendenza dei salari verso il livello di sussistenza alla presenza, nel sistema capitalista, dell’esercito industriale di riserva dei disoccupati).
[3] Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra, Teoria politica. Nuova serie Annali [Online], 10 | 2020; Luigi Ferrajoli, Perché una Costituzione della Terra?, Torino, Giappichelli, 2021.
[4] L’assunzione di questo modello come “costituzionalmente orientato” avviene qui a scopo argomentativo e senza l’approfondimento che merita: in sintesi, e non esaustivamente, si possono indicare quali riferimenti costituzionali gli articoli 1 e 4 (che disegnano il concetto e la collocazione costituzionale del lavoro); 2 (la collettività dei lavoratori costituisce una formazione sociale che deve essere dotata di stabilità); 35, primo e secondo comma (che prevedono in via generale la tutela del lavoro e una formazione ed elevazione professionale conseguibili solo in contesti regolati e stabili); 36 (per gli aspetti retributivi e di garanzia); 41, secondo comma (che condiziona l’esercizio dell’iniziativa economica privata, in questo caso nella sua veste datoriale); 53 (quale presupposto dell’adempimento dei doveri tributari in senso ampio). Si tratta di un modello avversato nell’esperienza politico-legislativa recente, orientatasi a una «frammentazione legislativa» del lavoro e delle sue tutele (l’espressione è di Giovanni Armone, che - Il diritto al lavoro e il dovere di concorrere al progresso della società, in La Costituzione vivente, a cura di Giovanni Delli Priscoli, Giuffré Francis Lefebvre, 2023, p. 126 - descrive la risposta della Corte costituzionale a questo orientamento).
[5] https://www.ilsole24ore.com/art/il-salario-minimo-rischia-alimentare-lavoro-nero-inflazione-e-contratti-pirata-AEf7xMeB?refresh_ce=1; in una prospettiva diversa, in relazione alla proposta n. 1275/2023: https://www.cisl.it/notizie/attualita/no-al-salario-minimo-fissato-dalla-politica-aumenta-il-lavoro-nero-il-foglio/
[6] V. Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603-bis cp tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Questione Giustizia trimestrale, 4/2019, https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/lo-sfruttamento-del-lavoro-la-tipicita-dell-art-603-bis-cp-tra-diritto-sostanziale-e-prassi-giurisprudenziale_711.php