Il tema dell’introduzione di un salario minimo legale nell’ordinamento italiano ha ricevuto negli ultimi anni grande attenzione nel dibattito scientifico, politico e sindacale. Dibattito rilanciato di recente dall’impatto della pandemia sulla povertà lavorativa e dalla proposta di direttiva della Commissione europea in tema di salari minimi adeguati nell’Unione.
Il presente contributo si propone di introdurre alcuni spunti di riflessione tratti dall’esperienza comparata. Le esperienze straniere vanno sempre prese con cautela, specie, laddove, si cerca di utilizzarle in una chiave per così dire predittiva, in un’ottica de iure condendo, cercando, cioè, di scartare a priori certe soluzioni che potrebbero replicare da noi problemi già emersi altrove ovvero riproporre l’adozione di esperienze virtuose. Esiste, infatti, il rilevante pericolo di rigetto che un trapianto di istituti tra ordinamenti nazionali diversi può incontrare. Pericolo che nell’ambito delle politiche salariali e forse ancora più accentuato che altrove, andandosi ad inserire in sistemi di relazioni industriali tra loro molto diversi. Secondo il celebre insegnamento di Otto Khan Freund, proprio il rigetto da parte di gruppi organizzati in grado di influenzare il law-making o decision-making process, tra questi ovviamente le organizzazioni sindacali, può rappresentare il primo fattore di insuccesso del trapianto.
Tenuta a mente questa doverosa premessa, si prenderanno di seguito in considerazione i meccanismi di fissazione dei minimi salariali in Svezia, Germania e Regno Unito. Si tratta di casi che, per ragioni diverse, presentano aspetti di particolare interesse dalla prospettiva del dibattito interno.
La Svezia
La Svezia rappresenta sulla carta più simile all’Italia, mancando tanto un salario minimo legale, quanto una contrattazione collettiva munita di efficacia erga omnes ed essendo, inoltre, presente un’opposizione di principio del sindacato verso un’interferenza del legislatore sulla regolazione delle retribuzioni. Tutto questo, nell’ambito di un sistema di relazioni industriali autonomo per eccellenza, fondato su un alto tasso di densità sindacale (circa il 70%) e da una parallela significativa organizzazione dei datori di lavoro (circa l’87% è iscritto ad un’associazione datoriale). Tanto si riflette positivamente sulla copertura della contrattazione collettiva, stimata intorno al 90%, pur in assenza, si diceva, di un meccanismo di estensione della sua efficacia soggettiva.
L’alto grado di organizzazione delle relazioni industriali svedesi coinvolge anche la fissazione dei minimi salariali. Attraverso un decentramento coordinato, il sistema riesce a tenere d’occhio la competitività delle imprese, garantendo al contempo salari tradizionalmente molto alti, i cui minimi si collocano abbondantemente al di sopra della soglia del lavoro povero (60% del salario mediano). Al vertice della contrattazione collettiva salariale si colloca un accordo interconfederale che interviene periodicamente a fissare un massimo agli incrementi salariali (c.d. wage norm). Gli accordi di categoria sono quindi, come da noi, i principali protagonisti nella fissazione dei minimi salariali, solo migliorabili da parte della contrattazione decentrata.
In questo contesto, il sindacato svedese è storicamente contrario all’introduzione di una misura legale di salario minimo, nell’ambito di una generale avversione di principio verso interventi eteronomi sulle regole del lavoro. La preoccupazione è quella di mantenere a favore del sindacato il ruolo di principale attore rispetto alla tutela del lavoro. Soluzioni che ne offuscassero in qualche modo tale ruolo sono inevitabilmente viste come un potenziale ostacolo al mantenimento di un’alta sindacalizzazione. E’ ancora fresca nella memoria dei sindacati svedesi l’esperienza di fine anni ’90, quando la riforma del sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione, scollegata da quel momento all’adesione sindacale, provocò un crollo repentino di circa 15 punti del tasso di densità sindacale.
La visione dominante è, dunque, quella secondo cui un salario minimo legale, in un contesto di alta copertura della contrattazione collettiva, potrebbe rappresentare una sfida a quest’ultima. Il timore è quello di assistere ad una fuga dei datori di lavoro e dei lavoratori dalle rispettive associazioni rappresentative, con un netto calo della copertura della contrattazione collettiva. E’ anche vero, però, che la maggior parte dei sindacati nordici – quindi non solo quelli svedesi – si dichiara invece favorevole ad un salario minimo basato sui contratti collettivi; situazione che non metterebbe in discussione il ruolo di principale autorità salariale della contrattazione collettiva.
Nonostante le analogie, soprattutto sotto il profilo dell’assenza di un salario minimo legale, il caso svedese si distingue da quello italiano sotto aspetti di non poco conto. In particolare, per la presenza di un solido e coeso sistema di relazioni industriali e contrattazione collettiva, dove non esiste di fatto il problema dei bassi salari e nemmeno il fenomeno del dumping salariale recato dalla contrattazione pirata. Insomma, due delle patologie, probabilmente le principali, che invece da noi sembrano suggerire l’opportuna introduzione di un salario minimo di legge.
La Germania
Venendo al secondo caso considerato, quello tedesco, la sua rilevanza a favore del dibattito italiano appare significativa se si considera il quadro di contesto entro cui l’introduzione del salario minimo legale è andata ad inserirsi. Quando è entrato in scena (gennaio 2015), la copertura della contrattazione collettiva era scesa in Germania ad appena il 50%, dopo una continua e costante diminuzione iniziata con la riunificazione tedesca. Le ragioni di tale declino sono ricollegabili, innanzitutto, ad un indebolimento del sindacato, con un tasso di adesione sceso intorno al 18%, complice la diffusione dei c.d. mini-jobs e, più generale, di quel processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, prodotto delle riforme Hart intervenute negli anni 2003-2005. Da qui, l’incapacità del sindacato, particolarmente pronunciata nei settori dei servizi, di portare i datori di lavoro al tavolo della contrattazione collettiva o di costringerli all’applicazione di un contratto collettivo.
Esiste sin dal 1949 in Germania un meccanismo per l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi che passa per un atto del Ministro del lavoro. Un’opportunità usata molto di rado per via degli stringenti requisiti (soprattutto di copertura dei contratti collettivi).
Tutto questo ha condotto ad una situazione dei salari che, all’indomani dell’entrata in vigore della legge sul salario minimo, si presentava piuttosto desolante e preoccupante. A metà del decennio scorso la Germania presentava una delle proporzioni di lavoratori poveri più alta d’Europa: circa un lavoratore su quattro aveva una retribuzione al di sotto della soglia del 60% del salario mediano, con disparità salariali macroscopiche tra lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva e l’altra metà invece non inclusi.
Anche in Germania i giudici hanno cercato colmare la mancanza di prescrizioni legali sui minimi, tamponando il problema dei bassi salari attraverso un meccanismo simile a quello elaborato dalla nostra giurisprudenza sull’art. 36 Cost. L’appiglio normativo è rappresentato da una norma del codice civile (BGB), riferita ai negozi giuridici contrari al buon costume o a contenuto usuraio. Tuttavia, gli spazi di manovra per i giudici tedeschi si sono rivelati alquanto limitati, di fatto riservati solo ai casi più eclatanti. Tanto che poco hanno potuto nella prevenzione della diffusione dei bassi salari, alla luce dei dati, sopra menzionati, sulla povertà lavorativa.
Ed è dunque nel quadro appena delineato che nel 2014 viene approvata la “legge di sostegno alla contrattazione collettiva”. Oltre a regole volte a rivitalizzare il meccanismo di estensione dell’ambito di efficacia dei contratti collettivi sopra menzionato, si sono qui previste, appunto, regole sul salario minimo. Un minimo intercategoriale, destinato a tutti i lavoratori subordinati, con poche eccezioni, è stato fissato per la prima volta direttamente dalla legge in euro 8,50 orari. Il meccanismo di adeguamento periodico del saggio minimo di salario previsto dalla legge coinvolge la presenza di una commissione consultiva tripartita, composta da tre commissari indipendenti e sei membri nominati dalle maggiori confederazioni (tre di provenienza sindacale, tre datoriale). La proposta della Commissione deve bilanciare diverse esigenze, garantendo, da un lato, un’“appropriata protezione minima ai lavoratori”, senza recare, dall’altro lato, danno all’“occupazione”, garantendo “la competitività delle imprese” e “tenendo in adeguata considerazione gli sviluppi precedenti dei salari negoziati dalla contrattazione collettiva”. Il Governo è libero di accettare o meno la proposta della Commissione. Non può tuttavia modificarla e, pertanto, in caso di disaccordo, si limiterà a respingerla al mittente.
A sette anni di distanza dalla sua prima introduzione si possono già trarre alcune indicazioni utili circa gli effetti prodotti dal salario minimo legale su povertà, occupazione ed economia. In primissima battuta si è registrato un immediato innalzamento dei salari che ha riguardato circa il 15% dei lavoratori tedeschi, con una conseguente riduzione delle disuguaglianze retributive. Effetto che si è riprodotto in qualche misura ad ogni revisione verso l’alto del saggio minimo di salario. Quanto agli effetti sull’occupazione, nonostante le previsioni puntassero in senso contrario, i dati ne hanno evidenziato una crescita, anche tra i lavoratori poco qualificati, primi beneficiari della misura. Effetto probabilmente collegato ad un incremento dei consumi, specie da parte dei lavoratori più poveri. Non solo. Si è anche registrato uno spostamento di molti lavoratori precari verso impieghi di maggiore qualità, stabiliti ed in imprese di dimensioni grandi.
Nonostante la situazione italiana appaia apparentemente più vicina a quella svedese, per via della mancanza in ambedue i paesi di un salario minimo di legge, all’atto pratico il caso tedesco è quello dal quale trarre le indizioni più utili per il dibattito italiano. Infatti, anche se il dato sulla copertura della contrattazione collettiva italiana (stimata intorno all’80-85% dall’OCSE) è indubbiamente migliore di quello tedesco, quindi con una garanzia più diffusa dei minimi contrattuali collettivi, la situazione è solo apparente migliore. La presenza di tanti contratti collettivi pirata inquina il dato sulla copertura della contrattazione collettiva. Non esistono indicazioni certe sulla reale diffusione dell’applicazione dei contratti pirata. Ma la loro costante crescita, unitamente ai risultati di alcune indagini empiriche, paiono suggerire che il fenomeno non sia proprio marginale. Altro elemento da tenere in considerazione, perché emerso da parecchie analisi sulle retribuzioni, è una notevole difformità dei livelli salariali tra settori, toccando in alcuni di questi livelli molto bassi. Una situazione, dunque, che tra bassi salari e copertura della contrattazione collettiva mainstream probabilmente decrescente, all’atto pratico è abbastanza simile a quella che ha spinto il legislatore tedesco all’introduzione di minimi di legge. E gli effetti positivi che l’introduzione del minimo salariale legale ha prodotto in Germania sembrerebbero incoraggiare una scelta analoga da parte del nostro legislatore.
Il Regno Unito
Il Regno Unito, a differenza dei due paesi fin qui considerati, presenta poche analogie con l’ordinamento italiano. Da un lato, la contrattazione collettiva, finita sotto l’assalto nel periodo 1979-1997 delle aggressive politiche anti-sindacali poste in essere dai governi Thatcher e Major, è ormai diffusa solo a livello aziendale ed a macchia di leopardo, con una copertura complessiva che non supera il 30%. Dall’altro lato, l’istituto del salario minimo ha una storia molto antica nel Regno Unito. Risale al 1909 il primo prototipo di legislazione sui minimi salariali dell’era moderna. Un sistema che ha visto protagonisti organi tripartiti denominati Trade Boards, e successivamente Wage Councils. Spettava a loro la fissazione, con decisioni che poteva acquisire forza di legge, dei minimi salariali e delle tariffe di cottimo nei settori dove le retribuzioni erano particolarmente inadeguate e la contrattazione collettiva non era in grado di offrire reale tutela ai lavoratori. Si trattava, tuttavia, di una prassi anch’essa non troppo gradita dalle politiche neo-liberiste dei governi conservatori Così, i Wage Councils vennero aboliti nel 1993.
Tuttavia, a stretto giro, il neo-eletto governo laburista, con a capo Tony Blair, approvò nel 1998 il National Minimum Wage Act (NMW). Veniva per questa via introdotto un salario minimo legale universale, con un campo di applicazione molto ampio. La misura è, infatti, destinata non solo agli “employees”, i nostri lavoratori subordinati, ma anche a coloro che rientrano nella più ampia categoria dei “workers”, vale a dire tanto i lavoratori subordinati quanto coloro che si collocano in un’area intermedia tra lavoro subordinato ed autonomo. Un’area che approssimativamente include quello che da noi viene definito lavoro parasubordinato, i “dependent contractors” (lavoratori autonomi dipendenti), ossia coloro che, pur al di fuori di un rapporto di subordinazione, prestano lavoro prevalentemente personale a favore di un unico committente. Risultano, pertanto, esclusi pertanto solo quei lavoratori autonomi che hanno quanto meno l’attitudine ad operare direttamente sul mercato in favore di una pluralità di clienti.
La misura del salario minimo è stabilita dal Governo che deve considerare le valutazioni non vincolanti espresse da un organismo indipendente, denominato Low Pay Commission. Per quanto si tratti di una commissione tipicamente tripartita, è il governo che sceglie i commissari e lo fa in base alla loro qualificazione; commissari che a loro volta sono tenuti ad agire indipendentemente dalla loro estrazione, sindacale ovvero datoriale. Le indicazioni elaborate dalla commissione non sono il risultato di formule precostituite e, tanto meno, frutto di automatismi basati su un’indicizzazioni dei salari; anche se l’indice dei prezzi al consumo è sempre tenuto in adeguata considerazione, tanto che gli aumenti del salario minimo ne hanno generalmente rispecchiato la dinamica. Al contrario, si procede attraverso una “evidence-based analysis”, vale a dire una complessa indagine empirica, che valuta l’impatto dei livelli vigenti del salario minimo, lo stato e le prospettive dell’economia, le diverse politiche governative in atto, l’opinione dei rilevanti stakeholders. Indagini che arrivano a coinvolgere visite sui luoghi di lavoro dove sono condotte interviste con i datori di lavoro e gruppi di lavoratori
Le raccomandazioni della Commissione non sono in alcun modo vincolanti per il Governo, né politicamente, né tantomeno giuridicamente. Tuttavia, ad oggi, sono state praticamente tutte sempre recepite. La revisione delle misure del salario minimo non ha scadenze prestabilite, come avviene invece in molti altri paesi. È a discrezione del Governo, eventualmente sollecitato sul punto dalla Low Pay Commission, procedere ad una revisione, che nella prassi è intervenuta finora annualmente.
In un modello, dove la contrattazione collettiva ha ormai una scarsa rilevanza, l’introduzione di un salario minimo ha contribuito a supportare il reddito dei lavoratori più poveri (circa il 10% della forza lavoro britannica, con punte del 30% in alcuni settori), riducendo le disuguaglianze retributive, anche tra uomo e donna. Il tutto senza nessuna evidenza di danni all’occupazione o alle imprese.
Sebbene, si diceva, il contesto britannico appaia completamente diverso dal nostro, soprattutto guardando all’inesistenza di una contrattazione collettiva di categoria e alla generale scarsa diffusione anche di quella aziendale, il sistema di fissazione dei salari minimi fornisce utili indicazioni in un’ottica di trapianto delle soluzioni qui adottate. Due in particolare sono gli aspetti che in un’ottica de jure condendo dovrebbero essere considerati. Il primo è il campo di applicazione allargato al lavoro coordinato ed autonomo economicamente dipendente. Un’area dove il fenomeno dei bassi redditi è particolarmente diffuso. Il secondo aspetto riguarda il metodo di lavoro piuttosto empirico e l’indipendenza della Low Pay Commission.