1. Da alcuni mesi la discussione sul salario minimo fissato per legge ha varcato la ristretta cerchia degli addetti ai lavori e si è imposta all’attenzione dei mass media e quindi dell’opinione pubblica.
Finalmente, si potrebbe dire, perché l’esigenza di un intervento della politica per contrastare una situazione sociale che rischia di divenire esplosiva è ormai assolutamente ineludibile.
L’approssimazione e la superficialità con cui talora è stata trattata la questione, spesso osservata con le lenti deformate dell’appartenenza ad uno od all’altro schieramento politico, impone una riflessione serena e possibilmente scevra da pregiudizi o preconcetti ideologici.
Il fatto che il partito di maggioranza dell’attuale Governo, dopo aver ottenuto l’approvazione delle discusse misure sul reddito di cittadinanza per tentare di contrastare la povertà [1], assuma ora il salario minimo come propria bandiera, non deve dunque condizionare la valutazione sulle diverse proposte in campo.
2. È sotto gli occhi di tutti il fatto che la lunga crisi economica ed alcuni fattori strutturali − quali globalizzazione, terziarizzazione e delocalizzazione dei processi produttivi – abbiano in questi anni profondamente peggiorato la condizione di larghe fasce di lavoratori, in particolare di giovani e di donne.
Una buona parte degli occupati guadagna meno che in passato e vive in una situazione di estrema precarietà.
Tra questi, molte lavoratrici e lavoratori, per l’inadeguatezza dei salari e/o per gli orari ridotti cui sono costretti, non traggono dalla loro attività quanto sarebbe necessario per garantire, a loro ed alle famiglie, quell’esistenza libera e dignitosa che il Costituente aveva solennemente promesso nell’art. 36 dalla Carta.
Il fenomeno in Italia è imponente: il Cnel stima che il cosiddetto «lavoro povero» abbia interessato già nel 2015 oltre 3 milioni di individui ed abbia posto 2,2 milioni di famiglie in condizioni di rischio povertà, nonostante che almeno un componente del nucleo risulti occupato [2].
Quindi la novità della questione sociale in Italia sta nel fatto che è povero non solo chi è disoccupato − od occupato per periodi brevi ovvero ad orari forzatamente ridotti − ma talora anche chi lavora a tempo pieno.
3. Di fronte a questa situazione di vero e proprio allarme sociale, il legislatore è rimasto sinora del tutto inerte oppure, ancor peggio, ha varato misure tese soltanto a rendere più flessibile un mercato del lavoro già fortemente segmentato, così contribuendo a ridurre molti lavoratori in una condizione quasi servile, tale da renderli più indifesi ed esposti al ricatto dei bassi salari, pur di ottenere o mantenere il posto di lavoro.
La contrattazione collettiva, a propria volta, si è dimostrata non del tutto adeguata a contrastare il fenomeno, pur avendo in Italia un grado di copertura più alto della media europea, ed in particolare di quei Paesi nei quali la contrattazione nazionale è stata smantellata in favore di quella aziendale.
Ciò è avvenuto perché il sistema di contrattazione collettiva di diritto comune – in un quadro normativo di perdurante inattuazione dell’art. 39 della Costituzione − non possiede efficacia erga omnes, con la conseguenza che si fa via via più forte la spinta al dumping salariale tra le imprese, mediante l’applicazione di contratti stipulati da associazioni di assai dubbia rappresentatività (cd. contratti pirata) che prevedono livelli salariali molto bassi [3]. Si pensi che al Cnel, ad oggi, sono depositati quasi 900 contratti nazionali e meno di un terzo di questi sono sottoscritti dalle associazioni di categoria aderenti a Cgil, Cisl e Uil [4].
Di recente, peraltro, si assiste anche all’inedito fenomeno di qualche contratto nazionale che, pur essendo sottoscritto dalle associazioni sindacali più rappresentative, assicura livelli salariali che qualche giudice non ha esitato a ritenere inidonei a soddisfare i requisiti di proporzionalità e sufficienza richiesti dall’art. 36 della Costituzione [5].
Del resto, da studi sia dell’Istat che dell’Inps risulta che il 21% dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lordi l’ora e la percentuale aumenta addirittura al 26% per la manodopera femminile ed al 38% per quella giovanile.
In termini assoluti, i lavoratori che percepiscono meno di 9 euro lordi sono 2,9 milioni [6].
4. In questa situazione, così grave e complessa, è del tutto naturale che la discussione sull’opportunità o meno di un intervento eteronomo sui salari abbia trovato un forte impulso anche in Italia.
Del resto il salario minimo, oltre ad essere previsto a livello comunitario al punto 6 del Pilastro di diritti sociali europei [7], è già una realtà in gran parte degli Stati membri.
Sono privi di una normativa sul salario minimo, oltre all’Italia, soltanto l’Austria e Cipro, nonché tre Paesi del Nord Europa (Danimarca, Svezia e Finlandia), i quali però hanno un sistema di welfare molto avanzato.
Da ultimo, il salario minimo è stato adottato in Germania nel 2015, pare con buoni risultati e senza che la sua introduzione abbia comportato né una fuga dalla contrattazione collettiva né un indebolimento del ruolo delle parti sociali.
Si parla anche dell’istituzione di un salario minimo europeo, per contrastare almeno in parte i processi di delocalizzazione, ma la strada è molto complicata, posto che attualmente gli importi garantiti dai singoli Stati membri sono fortemente differenziati tra loro (si va da un massimo di € 11,97 per il Lussemburgo ad un minimo di € 1,72 per la Bulgaria).
In Germania si è partiti da € 8,50, e l’importo attuale è pari a € 9,19 in virtù degli adeguamenti automatici previsti dalla legge tedesca [8].
5. Un confronto parlamentare è dunque in atto anche in Italia, alla Commissione lavoro del Senato, con l’esame di alcuni disegni di legge: anzitutto il n. 310 del Pd, primo firmatario il senatore Laus [9], e poi il n. 658 del Movimento 5 Stelle, prima firmataria la senatrice Catalfo, presidente della stessa Commissione.
Di recente, il Pd ha presentato un altro disegno di legge, il n. 1132, a firma dei senatori Nannicini e Fedeli, probabilmente perché ha dovuto prendere atto delle critiche mosse da più parti al disegno di legge n. 310 il quale, pur fissando in 9 euro netti l’ora il salario minimo, ignora del tutto ruolo e funzione della contrattazione collettiva.
Anche questo secondo testo presentato dal PD, però, non è convincente, in quanto − seppur richiamandosi ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative − demanda ad una Commissione paritetica di venti componenti, diretta dal presidente del Cnel, sia l’individuazione dei criteri di maggior rappresentatività delle contrapposte organizzazioni sindacali, sia gli ambiti e l’efficacia dei contratti collettivi: soluzione non solo farraginosa, ma anche pericolosamente lesiva dell’autonomia sindacale e di dubbia costituzionalità. Il termine di 18 mesi assegnato alla Commissione per completare i propri lavori assume peraltro sin troppo scopertamente un sapore dilatorio, quando invece l’emergenza sociale consiglierebbe un intervento quanto più rapido possibile.
6. Di maggior interesse e sostenibilità giuridica – a detta anche di molti giuslavoristi certamente non sospettabili di simpatie “filogovernative” [10] − è invece il disegno di legge n. 658, che ha l’indiscutibile pregio di demandare la definizione del «trattamento complessivo economico minimo» ai contratti nazionali di lavoro sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, individuate dal lato dei lavoratori in base ai criteri fissati dall’accordo interconfederale sulla rappresentanza, stipulato il 10 gennaio 2014 tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil, e, dal lato dei datori di lavoro, in base al numero di imprese associate ed al numero di dipendenti da queste occupati.
Viene anche previsto un trattamento complessivo minimo di 9 euro lordi l’ora, ma tale minimo svolge una funzione meramente residuale, applicandosi soltanto nei casi in cui i Ccnl prevedano minimi inferiori. In via generale, invece, il trattamento economico complessivo minimo sarà quello previsto dai Ccnl sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative e direttamente applicabile al datore di lavoro ovvero – quando manchi un contratto collettivo di riferimento – da quello «maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo» all’attività prevalente.
Tale trattamento minimo è garantito anche alle collaborazioni autonome etero-organizzate di cui all’art. 2 del decreto legislativo n. 81/2015 [11], colmandosi così, almeno in parte, il grave vuoto regolativo che affligge la legge n. 81/2017 sul lavoro autonomo, la quale non prevede alcuna forma di equo compenso.
L’intenzione dei proponenti è quindi quella di tentare di realizzare i principi dell’art. 36 della Costituzione, senza ledere i dettati di cui all’art. 39, commi da 2 a 4, ma anche, purtroppo, senza ambire a dare finalmente attuazione al meccanismo costituzionale di registrazione dei sindacati e di efficacia obbligatoria dei contratti collettivi ivi tracciato (così come invece proposto nel disegno di legge di iniziativa popolare della Cgil denominato «Carta dei diritti»[12]).
In altre parole, pur non estendendosi erga omnes l’efficacia soggettiva di tutto il Ccnl, se ne estendono almeno i minimi salariali, come è consentito di fare in base a quanto affermato di recente dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 51 del 2015 [13], sentenza nella quale la Consulta ha ammesso che le tabelle salariali possano essere assunte quale mera base di riferimento del trattamento retributivo, senza che ciò violi i precetti dell’art. 39 Cost..
Nel corso dei lavori parlamentari, la prima firmataria del progetto di legge n. 658 ha presentato anche alcuni emendamenti, tra i quali si segnalano quello diretto ad escludere il lavoro domestico dall’ambito di applicazione del trattamento minimo orario, nonché quello mirato a rendere maggiormente effettiva la legge, con la previsione di un nuovo procedimento di tutela collettiva denominato Repressione di condotte elusive ed ispirato al modello dell’art. 28 Stat. Lav. (il quale si aggiungerebbe al possibile intervento degli organi ispettivi deputati a vigilare circa l’applicazione della legge).
7. Nonostante questo impianto certamente rispettoso del ruolo della contrattazione collettiva, non sono mancate critiche al progetto da parte delle organizzazioni imprenditoriali e dalle stesse organizzazioni sindacali dei lavoratori, preoccupate di salvaguardare il proprio ruolo nella regolazione salariale.
In particolare, viene vista con grande diffidenza la fissazione di un minimo di retribuzione inderogabile anche dalla contrattazione collettiva, temendo che questo possa provocare «una fuoruscita dall’applicazione dei Ccnl rivelandosi così uno strumento per abbassare i salari e tutele delle lavoratrici e dei lavoratori» [14].
Quindi, fondamentalmente, preoccupazioni che non sono certo nuove [15], e che attengono al ruolo del sindacato quale autorità negoziale e di regolazione salariale.
Personalmente non condivido questa pur legittima preoccupazione. Sono viceversa convinto che la fissazione per legge di un tetto minimo possa rappresentare un sostegno alla contrattazione sindacale dei salari ed anzi possieda anche un grande valore «simbolico», direi quasi «etico», particolarmente in una fase storica in cui il valore del lavoro è stato svalutato al punto da consentire lo «sdoganamento» delle prestazioni gratuite o quasi gratuite (si pensi ad esempio agli accordi stipulati in occasione di Expo 2015).
Peraltro, le critiche sull’importo proposto oscillano tra chi dice che questo è troppo alto, e dunque insostenibile per le imprese, e chi viceversa asserisce che la contrattazione collettiva già assicura trattamenti migliori, per cui il rischio potrebbe essere quello di una “fuga” da parte dei datori di lavoro dalle organizzazioni imprenditoriali per applicare solo il salario mimino di legge.
In realtà, i 9 euro lordi di «trattamento complessivo», e quindi comprensivo dei ratei di salario indiretto, sono in linea con quelli adottati nei Paese europei dotati di un apparato produttivo simile a quello italiano, e, costituendo solo un minimo inderogabile, consentono alla contrattazione collettiva di continuare a svolgere la sua tradizionale funzione regolatrice dei salari, valorizzando anche le diverse professionalità, in coerenza con il precetto costituzionale che parla di retribuzione non soltanto sufficiente, ma anche proporzionata alla qualità e quantità del lavoro.
8. A chi si ostina a sostenere che il sindacato, inclusa la Cgil, sarebbe stato sempre contrario ad interventi del legislatore sul salario, voglio ricordare la proposta di legge di Fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori presentata nel 1954, quando ancora i massimi dirigenti sindacali in carica sedevano sui banchi del Parlamento, da Giuseppe Di Vittorio e Fernando Santi alla Camera dei deputati (prima firmataria Teresa Noce) [16].
Nella relazione introduttiva della proposta di legge, peraltro mai approvata, si legge che l’iniziativa era stata assunta − in un periodo di straordinaria emergenza salariale − «per assolvere al compito di attuare concretamente l’articolo 36 della Costituzione italiana».
Tale compito è di nuovo drammaticamente all’ordine del giorno: perciò ritengo che non ci si possa prendere la responsabilità di opporre rifiuti pregiudiziali o ideologici ad una proposta che, pur con qualche limite, va comunque nella direzione di garantire ai più deboli quell’esistenza libera e dignitosa che i padri costituenti immaginarono anche per loro.
[1] Sul tema, si veda il contributo del consigliere Roberto Riverso in questa Rivista on-line, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, 6 giugno 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/reddito-di-cittadinanza-assistenza-alla-poverta-o-governo-penale-dei-poveri-_06-06-2019.php.
[2] Dati forniti dal Cnel nel corso delle audizioni parlamentari al Senato sulle proposte di legge in esame.
[3] L'operazione giurisprudenziale di attuare l'art. 36 Cost. estendendo in via parametrica i minimi dei contratti collettivi, pure apprezzabilissima, sconta il fatto che il lavoratore, per ottenere l'adeguamento della propria retribuzione, deve sopportare costi e tempi del giudizio e nella gran parte dei casi attendere la risoluzione del rapporto per evitare ritorsioni.
[4] La spinta al proliferare dei cosiddetti contratti “pirata” sembra essere alimentata, oltre che dalla concorrenza al ribasso tra gruppi di imprese, anche dalla opportunità offerta dagli enti bilaterali di accedere a risorse provenienti da aziende e dipendenti, questi ultimi spesso neanche consapevoli del fatto che venga operata una trattenuta sulle loro buste paga, trattenuta giustificata dall'erogazione di prestazioni che non utilizzeranno mai: in tema si veda l'inchiesta di Luigi Franco e Thomas Mackinson (pp. 31 ss.) dell'inserto da Il Fatto Quotidiano-Millennium di giugno 2019.
[5] Ci si riferisce ad alcune decisioni del Tribunale del lavoro di Milano sul Ccnl del settore Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari sottoscritto nel 2013 anche dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative e che prevede retribuzioni in linea con quelle di alcuni contratti “pirata” già applicati anche nel settore.
[6] Dati forniti da Istat e Inps nel corso delle audizioni al Senato.
[7] Il Social Pillar − proclamato congiuntamente il 17 novembre da Parlamento, Consiglio e Commissione europea − pur non ponendo vincoli diretti agli Stati membri, rappresenta pur sempre un atto di indirizzo politico molte autorevole.
[8] I dati sul salario minimo e sul grado di copertura della contrattazione collettiva in Europa sono tratti rispettivamente dal report n. 46 del marzo 2019 del WSI, Institute of Economic and Social Research (https://www.boeckler.de/pdf/p_wsi_report_46e_2019.pdf) e dal Benchmarking Working Europe a cura dell'Istituto di ricerca della confederazione dei sindacati europei ETUC (https://www.etui.org/Publications2/Books/Benchmarking-Working-Europe-2019).
[9] Il senatore Laus è noto in particolare a Torino per avere in passato applicato alle cooperative da lui amministrate salari ben al di sotto di quelli previsti dalla contrattazione collettiva sottoscritta dai sindacati maggiormente rappresentativi, con conseguente vivacissimo contenzioso giudiziario.
[10] Ad esempio si veda Luigi Mariucci, Salario minimo legale, in https://www.comma2.it/?view=article&id=115:salario-minimo-legale&catid=16 .
[11] Tra le collaborazioni etero organizzate vanno annoverate anche quelle dei cosiddetti “riders”, almeno secondo la Corte d'appello di Torino, sentenza n. 26/2019.
[13] Sentenza pronunciata nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 4, del decreto legge 31 dicembre 2007 n. 248, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 28 febbraio 2008 n. 31, nella parte in cui stabilisce che, «[f]ino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria».
[14] Citazione testualmente tratta dal documento unitariamente presentato in sede di audizione parlamentare dalle tre maggiori confederazioni sindacali.
[15] Marco Procopio, giornalista de Il Fatto Quotidiano, nell'inserto Millennium del giugno 2019, ricorda la gelida reazione dell'ex segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni − dall'alto dei suoi 300.000,00 € di stipendio annuo − alla proposta di salario minimo di € 1.000 mensili avanzata da Walter Veltroni durante la campagna elettorale del 2008.