Giovedì 18 giugno, a soli tre giorni di distanza da un’altra clamorosa presa di posizione contraria all’indirizzo politico del Presidente - Bostock v. Clayton County, Georgia[1], con cui i giudici della più alta istanza giurisdizionale statunitense hanno riconosciuto come discriminatori, e quindi illegittimi, i licenziamenti motivati dall’orientamento sessuale del lavoratore- la Corte Suprema degli Stati Uniti stupisce nuovamente con una decisione che pare confermare la sua ritrovata neutralità di giudizio.
Si tratta della pronuncia Department of Homeland Security et al. v. Regents of the University of California et al. (https://www.supremecourt.gov/opinions/19pdf/18-587_5ifl.pdf)[2], con cui la suprema istanza giudiziaria del paese ha affrontato una questione politicamente e umanamente estremamente delicata. Il caso riguarda le aspettative -tradite da Trump nel 2017- di 700 mila giovani che, a partire dal 2012, si sono autodenunciati come irregolari, sulla scorta della promessa fatta loro dal presidente Obama che non sarebbero stati deportati e avrebbero potuto ottenere il permesso di lavorare, oltre all’assicurazione sanitaria e alla social security, in forza di un rinnovo biennale senza limiti di tempo della loro richiesta.
Il 15 giugno del 2012 Janet Napolitano, allora segretario della Homeland Security, annunciò infatti che nel legittimo esercizio della sua discrezionalità, il dipartimento della sicurezza nazionale aveva deciso di concentrare la propria attività di allontanamento dal paese solo su coloro che avessero presentato dei pericoli per la sicurezza nazionale. In quell’ottica -scrisse la Napolitano dando vita al DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals)- il dipartimento di sicurezza avrebbe valutato le richieste di sospensione di deportazione provenienti da chi fosse arrivato negli Stati Uniti prima dei 16 anni e non avesse più di 30 anni; avesse risieduto continuativamente negli Stati Uniti dal 2007; fosse studente o avesse completato la High School o fosse un veterano congedato con onore e, comunque, non fosse stato condannato per un reato grave e non rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale o per l’incolumità pubblica. In tali casi il dipartimento della Homeland Security avrebbe potuto garantire al richiedente una sospensione di ogni azione di deportazione nei suoi confronti per due anni, che sarebbe stata soggetta a rinnovo biennale per un periodo di tempo indeterminato. La valutazione positiva da parte della Homeland Security avrebbe inoltre consentito, a quelli che vennero poi definiti Dreamers, di fare richiesta di permesso di lavoro, oltre che di accedere agli istituti del welfare come fossero residenti legali. Ciò cui i Dreamers non avrebbero, invece, potuto aspirare in forza della loro richiesta era l’ottenimento della cittadinanza, poiché il conferimento di un simile status non rientra nelle competenze dell’amministrazione, ma solo del Congresso.
Proprio la via legislativa, ancora all’epoca esperibile da un Obama che fino al novembre del 2012 aveva mantenuto il controllo su Camera e Senato, sarebbe stata la via più opportuna per garantire tutela alle aspettative dei giovani Dreamers che, come la Napolitano aveva sottolineato, si caratterizzavano per essersi integrati completamente nel tessuto sociale americano e per non riconoscere altro paese, al di fuori degli Stati Uniti, quale loro patria. Il presidente Obama e il suo esecutivo sperimentarono, infatti, molto presto le difficoltà di concedere per via amministrativa garanzie a chi si trovasse irregolarmente nel territorio statunitense, allorquando -due anni dopo- un nuovo memorandum del dipartimento della sicurezza nazionale cercò invano di estendere le protezioni del DACA, nonché di garantire tutele analoghe a quelle dei Dreamers a circa 4 milioni e trecentomila genitori irregolari di figli regolarmente residenti o cittadini americani, con il così detto DAPA (Deferred Action for Parents of American and Lawful Permanent Residents).
Il nuovo memorandum non entrò mai in vigore, bloccato sul nascere da un’azione legale posta in essere dal Texas e da altri 26 Stati, che ne ottennero la sospensiva nazionale dal tribunale di distretto federale del Texas del sud, confermata in appello dalla corte del quinto circuito. Quest’ultima, nel 2015[3], mise in rilievo la contrarietà di quella azione amministrativa alla normativa sull’immigrazione (INA-Immigration National Act), che conferisce al solo legislatore il compito di attribuire i benefici che, con il DAPA (e con l’estensione del DACA), l’esecutivo aveva invece concesso a chi era irregolare nel territorio. Il dipartimento dell’Homeland Security -aveva in buona sostanza detto la Corte del quinto circuito- ha piena discrezionalità in ordine all’esercizio dell’azione di deportazione degli irregolari, ma esercita una prerogativa non sua, che spetta invece al legislatore, se concede loro delle garanzie ulteriori. Una volta bloccati gli effetti del DAPA, la questione era così ritornata alla Corte federale di primo grado per la decisione nel merito, anche perché la Corte Suprema –che pur aveva accettato di pronunciarsi- non era riuscita ad esprimere un’opinione di maggioranza, ma si era divisa 4 a 4 in un momento in cui -morto Justice Scalia- i giudici erano rimasti in 8, perché il Senato -ormai anch’esso repubblicano- aveva impedito ad Obama di nominare il di lui successore.
In una tale situazione l’arrivo di Trump a capo dell’esecutivo, dopo le elezioni del 2016, portò il nuovo segretario della Homeland Security, Elaine C. Duke, a cancellare definitivamente, nel giugno del 2017, il mai entrato in vigore DAPA, sulla scorta della sua illegalità dichiarata (sia pur in via di giudizio sommario e non di merito) dalle Corti federali. La questione del DACA si presentava, invece, assai più complessa.
Lo stesso Trump dimostrò inizialmente simpatia per le migliaia di ragazzi che -dopo essersi autodenunciati come irregolari- da più di 4 anni lavoravano, frequentavano la scuola o l’università, avevano aperto attività commerciali, avevano formato famiglie, nella convinzione di poter fare affidamento sulla promessa di Obama di rimanere nel paese che consideravano ormai il proprio. A seguito, tuttavia, di minacce di azioni legali nei confronti dell’esecutivo da parte di ben nove procuratori statali, qualora non avesse rescisso il programma, e di pressioni provenienti dalla sua stessa amministrazione -in particolare dal ministro della giustizia (Attorney General) di allora, Jeff Session- Trump decise infine, nel settembre di quello stesso anno, di annullare il DACA. Nel suo atto di cancellazione del programma il segretario Duke, che concedeva 6 mesi di sostanziale proroga ai Dreamers il cui rinnovo biennale era in scadenza, motivò la sua decisione facendo riferimento alle indicazioni provenienti dal ministro Session, che le aveva fatto presente come il DACA fosse affetto dagli stessi problemi di illegalità del DAPA evidenziati dalla Corte federale del quinto circuito.
Così come era accaduto per il DAPA, ma a parti rovesciate questa volta, subito impugnato da attori individuali e collettivi di fronte a tre Corti federali di distretto, l’annullamento del DACA era destinato a non entrare mai in vigore. Due Corti di primo grado concessero, infatti, agli attori la sospensiva, anche sulla scorta del principio per cui la decisione sarebbe stata “arbitraria e capricciosa”, secondo il linguaggio dell'Administrative Procedure Act (APA) che, nel consentire un controllo giudiziale sull’attività amministrativa, permette alle Corti di porre nel nulla gli atti dell’esecutivo non sufficientemente motivati. Una terza corte, quella di Washington D.C., entrò nel merito dichiarando la motivazione di annullamento inadeguata e, dopo averne richiesto una integrazione al nuovo segretario della sicurezza nazionale, la respinse come insufficiente. La decisione di una delle prime due corti di distretto venne confermata dalla Corte di appello del nono circuito e nel giugno dell’anno scorso la Corte Suprema accolse il certiorari del governo per decidere, in relazione a tutti i casi pendenti, il 18 giugno di quest’anno a favore dei Dreamers, e quindi contro l’amministrazione Trump.
Per quel che ci dice sui nuovi equilibri di potere che sembra aver inaugurato, la pronuncia della più alta istanza giurisdizionale del paese -divisa 5 a 4 come spesso da ultimo accade- ha implicazioni importanti, che vanno al di là del caso di specie. Si tratta della nuova asserita indipendenza e neutralità della Corte Suprema rispetto all’esecutivo: un passo fondamentale nella partita per la democrazia, che mai come in questo momento si sta giocando negli Stati Uniti. A un passo dalle elezioni presidenziali, con l’imprevista crisi economica dovuta al coronavirus che incombe, la ribellione della “sua” Corte -che fa valere un principio di controllo giurisdizionale piuttosto incisivo su decisioni che potevano apparire nella discrezionalità assoluta dell’esecutivo- è un segnale molto preoccupante per Trump, notoriamente allergico al diritto e ai suoi vincoli.
Le recenti nomine di Neil Gorsuch e Brett Kanavaugh in qualità di giudici supremi, parevano aver assicurato al Presidente in carica il controllo sul “controllore” e gli avevano forse fatto credere di essersi liberato dai lacci e lacciuoli che il rispetto delle regole giuridiche comporta, con quel che ne sarebbe conseguito perfino nell’ipotesi in cui le elezioni di novembre fossero per lui andate male. L’emanazione di un executive order che le facesse saltare, magari profittando del caos che i voti per posta (necessari oggi per evitare gli assembramenti pericolosi per la salute, ma che la sua amministrazione osteggia) avessero creato, si presentava infatti per Trump come un sogno inconfessabile ma percorribile, con possibilità di successo a fronte di una Corte che fosse allineata alle sue posizioni[4].
Con la pronuncia sul DACA del 18 giugno 2020, che si aggiunge a quella di tre giorni prima sulle tutele dei LBGTQ, ma anche alla decisione del giugno dell’anno prima sull’inserimento della domanda sulla cittadinanza nel questionario di censimento della popolazione, sembra invece essere sopraggiunto un nuovo e diverso equilibrio all’interno della Corte Suprema. Il Chief Justice John G. Roberts Jr ha, difatti, in ciascuna di esse cambiato sponda politica, votando con i progressisti in antitesi alle aspettative di Trump. Sostituendosi ad Anthony Kennedy nel ruolo di ago della bilancia fra gli schieramenti interni alla Corte, il Chief Justice nominato da George W. Bush spariglia così le carte e riafferma il ruolo della Supreme Court quale garante ultimo delle regole del gioco democratico.
Nel giugno del 2018, nel noto caso Trump v. Hawaii[5]- con cui la Corte Suprema, contro il parere delle Corti inferiori, aveva avallato il terzo così detto Muslim travel Ban come atto amministrativo legittimamente rientrante nei poteri del presidente- Justice Roberts, nel redigere l’opinione per una risicata maggioranza di 5 a 4, aveva chiaramente mostrato deferenza verso l’esecutivo. Uguale allineamento alle politiche del Presidente il Chief Justice aveva appalesato l’anno successivo, quando nel luglio del 2019, nella sentenza Trump v. Sierra Club[6], si era unito ai quattro giudici conservatori per consentirgli di invadere il campo del legislativo, confermando il dirottamento amministrativo di fondi federali sul muro con il Messico, contro il volere del Congresso, cui pur la Costituzione attribuisce il potere di “borsa” (con l’Appropriations Clause del par. 9 art. I)[7].
Già nel giugno del 2019, tuttavia, John G. Roberts, Jr comincia a riaffermare il ruolo della Corte Suprema quale garante della legalità e a prendere le distanze da un atteggiamento troppo permissivo nei confronti di un presidente desideroso di liberarsi della rule of law. La sentenza Department of Commerce et al. v. New York et al. (https://www.supremecourt.gov/opinions/18pdf/18-966_bq7c.pdf)[8], con cui la Supreme Court impedisce al segretario del commercio, Wilbur Ross, di cambiare il questionario del censimento 2020 è, infatti, la spia di un nuovo spirito critico nei confronti dell’amministrazione Trump - le cui decisioni vengono sottoposte a un inaspettato vaglio di legalità- che anticipa la decisione sul DACA.
Questi i fatti. Nel marzo del 2018 il segretario Ross annuncia una modifica al questionario per il censimento del 2020 con l’inserimento di una domanda sulla cittadinanza, che -al di là della giustificazione fornita, che riguardava la necessità fatta presente dal dipartimento della giustizia di applicare opportunamente il Voting Rights Act- doveva servire a diminuire di circa 6 milioni e mezzo il numero di coloro che avrebbero risposto, perché preoccupati di autodenunciarsi come irregolari. Ciò, secondo gli esperti, avrebbe potuto ridurre la rappresentanza dei democratici al momento della allocazione dei distretti elettorali per la rappresentanza in Congresso e avrebbe condizionato il modo in cui centinaia di miliardi di dollari federali sarebbero stati distribuiti.
Di fronte a ciò, nel valutare a nome della maggioranza la legittimità della decisione di Ross ed evidenziando come la ragione fornita dal segretario avesse in verità giocato un ruolo insignificante nel processo decisionale, Justice Roberts scrive: «L’esecutivo gode di ampia discrezionalità nel fare le proprie scelte», ma deve «motivare in maniera sincera le proprie decisioni importanti, per modo che possano essere controllate dalle corti e dal pubblico da esse interessato». E ancora: «Se il controllo giudiziario deve essere qualcosa di più di un vuoto rituale, occorre domandare qualcosa di più di una motivazione ..fasulla..». La decisione amministrativa di modifica del questionario viene perciò considerata «arbitraria e capricciosa», perché basata su una ragione pretestuosa, e rispedita al mittente, che avrebbe potuto nuovamente attivarsi, ma solo motivando adeguatamente e sinceramente avrebbe potuto sperare di superare il vaglio della Corte. Il tempo a disposizione era tuttavia troppo poco e il questionario finì per essere stampato e spedito senza la domanda sulla cittadinanza.
La misura del pesante intervento del giudiziario sull’esecutivo, attraverso un controllo sulla motivazione degli atti non meramente formale, che conferisce carattere di pura declamatorietà all’asserzione della Corte dell’ampia discrezionalità attribuita all’amministrazione, è resa palese dalle dichiarazioni dissenzienti dei giudici Thomas e Alito. «Per la prima volta in assoluto», scrive Justice Clarence Thomas «questa Corte pone nel nulla una decisione dell’amministrazione soltanto perchè contesta la motivazione non per la sua adeguatezza, ma per la sua mancanza di sincerità”. «Per dirla senza mezze parole», aggiunge per parte sua Justice Samuel A. Alito, «il giudiziario federale non ha alcuna autorità per ficcare il naso nella questione se sia una buona idea o meno includere la domanda sulla cittadinanza nel questionario per il censimento né se le ragioni fornite dal segretario Ross siano di facciata o di sostanza».
Il nuovo equilibrio fra poteri inaugurato con Department of Commerce et al. v. New York et al., che vede il ritorno del giudiziario nel ruolo di garante della legalità sostanziale dell’azione amministrativa è riaffermato con forza nel caso dei Dreamers. Così come nel caso precedente, pure in Department of Homeland Security et al. v. Regents of the University of California et al., Justice Roberts declama in via astratta la piena discrezionalità dell’amministrazione Trump nell’effettuare le sue scelte, salvo ribadire che anche in questa circostanza la cancellazione del sogno dei Dreamers deve trovare adeguata motivazione; ciò che secondo lui non è avvenuto.
Non solo il segretario della sicurezza nazionale -con una spiegazione lunga una sola frase- non ha, infatti, tenuto conto che il riferimento alla decisione della Corte del quinto circuito, quale ragione giustificatrice dell’illegalità e quindi dell’eliminazione del DACA, vale solo in relazione ai benefici accordati con il programma e non spiega, invece, la scelta di ritornare a deportare i ragazzi. Di più, anche qualora ci fossero state buone ragioni per cancellare il programma in toto, l’amministrazione non avrebbe potuto non tenere conto dell’affidamento che il DACA ha creato in capo ai Dreamers, spiega, infatti, Roberts[9]. Né ulteriori motivazioni sopraggiunte da parte di nuovi segretari possono essere considerate legittimamente fornite.
Dal 2012, continua la Corte per mano del Chief Justice, i 700 mila ragazzi di cui è stata accolta la richiesta di partecipazione al programma «si sono iscritti all’università, hanno iniziato carriere di diverso tipo, aperto business, comprato case, e si sono perfino sposati ed hanno avuto figli», tutto ciò facendo affidamento sul DACA. «Le conseguenze della eliminazione del programma ricadrebbero anche sulle loro famiglie, inclusi i loro 200 mila figli -cittadini americani-, sulle scuole in cui essi studiano e insegnano, sui datori di lavoro che li hanno formati investendo tempo e denaro (per un costo stimato di 6 miliardi e trecento milioni di dollari)»; senza contare che il loro allontanamento dal lavoro «causerebbe una perdita di 215 miliardi di dollari in termini di attività economica e un ammanco di 60 miliardi in tasse federali non riscosse nei prossimi 10 anni. Contemporaneamente gli Stati e i governi locali non riscuoterebbero tasse per 1 miliardo e 25 milioni l’anno».
Tutte queste conseguenze avrebbero dovuto, secondo Roberts, essere adeguatamente soppesate dall’amministrazione Trump e ciò non è stato fatto. Per questo motivo la cancellazione del DACA, così come posta in essere, è giudicata dalla maggioranza della Corte «arbitraria e capricciosa». L’esecutivo potrà certamente riproporla, ma è ormai avvisato che le sue motivazioni saranno vagliate da un giudiziario attento ad evitare che l’amministrazione operi scelte politiche del tutto irragionevoli.
Uno stop importante a Trump e al suo esecutivo, quello di cui Justice Roberts si fa con questa sentenza portavoce, che dimostra la capacità trasformativa di un sistema in cui i checks and balances sembravano essersi inceppati e che prova la vitalità di un giudiziario capace, infine, di far vincere il diritto sulla politica.
[1] Bostock v. Clayton County, 590 U.S. ___ (2020), su cui si permetta di rinviare a E. Grande, Usa, no discriminazioni a LBGTQ sul lavoro: la Corte Suprema torna neutrale?, 19 giugno 2020, http://temi.repubblica.it/micromega-online/usa-no-discriminazioni-a-lbgtq-sul-lavoro-la-corte-suprema-torna-neutrale/
[2] Department of Homeland Security et al. v. Regents of the University of California et al , 591 U. S. ____ (2020).
[3] Texas v. United States, 809 F. 3d 134 (2015)
[4] Sul tema si permetta un rinvio a E. Grande, Usa, Kavanuagh alla Corte Suprema: verso una dittatura Trump?, 8 ottobre 2018, http://temi.repubblica.it/micromega-online/usa-kavanuagh-alla-corte-suprema-verso-una-dittatura-trump/
[5] Trump v. Hawaii, 585 U.S. ___ (2018).
[6] Trump et al. v. Sierra Club et al., 588 U. S. ____ (2019).
[7] Sulla questione si permetta un rinvio a E. Grande, Trump, il muro con il Messico e l’inquietante decisione della Corte suprema, 23 agosto 2019, http://temi.repubblica.it/micromega-online/trump-il-muro-con-il-messico-e-l%E2%80%99inquietante-decisione-della-corte-suprema/
[8] Department of Commerce et al. v. New York et al., 588 U. S. ____ (2019).
[9] «The dispute before the Court is not whether DHS may rescind DACA. All parties agree that it may. The dispute is instead primarily about the procedure the agency followed in doing so. The APA ‘sets forth the procedures by which federal agencies are accountable to the public and their actions subject to review by the courts.’ Franklin v. Massachusetts, 505 U. S. 788, 796 (1992). It requires agencies to engage in ‘reasoned decisionmaking,’ Michigan v. EPA, 576 U. S. 743, 750 (2015) (internal quotation marks omitted) ), and directs that agency actions be 'set aside' if they are 'arbitrary' or 'capricious', 5 U.S.C. para. 706(2)A», scrive Roberts, in Department of Homeland Security et al. v. Regents of the University of California et al., 591 U. S. ____ (2020), a p. 9.