Non avrei mai potuto immaginare che sarebbe toccato a me porgere l’ultimo saluto a Umberto Romagnoli a nome dell’Ateneo bolognese.
Mai avrei potuto immaginarlo non solo perché, com’è evidente, non ho le spalle abbastanza larghe per un simile compito ma anche perché, come qualcuno saprà, per me, ultimo allievo di Giorgio Ghezzi, il Prof. Romagnoli è stato un maestro ed è stato un amico.
Lo è stato, del resto, per tante e tanti colleghi presenti qui, oggi, a testimoniare stima, affetto e gratitudine. Ma sono certo lo sia stato – e soprattutto sono ceto che continuerà ad esserlo – anche per quelli, tra i più giovani, che neppure hanno avuto il privilegio di conoscerlo, visto che – come abbiamo letto in tanti messaggi di cordoglio pervenuti in queste ore – è stato uno di quei giuristi-tessitori cui si deve la trama del diritto del lavoro del secondo novecento. Non soltanto italiano, peraltro, visto che gli scritti di Umberto Romagnoli sono stati tradotti in molte lingue, a partire dalla lingua spagnola, il che ha consentito alla sua voce autorevole di essere ascoltata e apprezzata anche oltreoceano, in tutti i paesi dell’America latina.
Però, tra i giuristi tessitori, invece della spola o dei ferri da maglia, Umberto Romagnoli adoperava l’uncinetto. Il che fa la differenza, quando si scrive per mestiere.
L’Università di Bologna - che qui rappresento - lo ricorda come studioso insigne ma anche come Preside della allora Facoltà di Scienze Politiche tra 1978 e il 1984: la Facoltà dove ha insegnato dal ‘74 al 2009, non solo diritto del lavoro ma pure diritto privato, come un tempo toccava in sorte a molti giuslavoristi. E ai grandi maestri non dispiaceva.
Ne ricordano l’acume, e le spigolosità – che in fondo è un tratto delle intelligenze più acute – le colleghe e i colleghi di Scienze Politiche, ma anche molte generazioni di studentesse e studenti, incantati dal suo eloquio e, al contempo, intimoriti dalla sua autorevolezza.
Di pochi anni più giovane della coppia Giugni-Mancini – dei quali parlava sempre e con i quali ha conservato un legame che è andato oltre la loro scomparsa – Umberto ha rivelato i segreti del diritto del lavoro bambino, svelando che il diritto che dal lavoro ha preso il nome non è, in fondo, “del lavoro” più di quanto sia un diritto del capitale; ha denunciato le sue marachelle adolescenziali, raccontando come prese piede nella prassi, quasi a tradimento, il contratto a tempo indeterminato (sconosciuto e anzi avversato dalle codificazioni ottocentesche). E, soprattutto, ne ha accompagnato la maturità, aiutando a completare – fin dove era possibile (e talvolta persino dove non lo era) – l’opera di emancipazione e liberazione del lavoro dalle scorie del corporativismo e della sua ombra lunga, “dopo l’innalzamento del lavoro e del suo diritto sulle vette alpine del diritto costituzionale”, come amava dire.
Sintetizzare in pochi minuti la sua vasta opera scientifica sarebbe persino sacrilego, sicché, visto che siamo qui, nella sua città, mi limiterò a richiamare quel capolavoro della scuola bolognese con cui è imprescindibile confrontarsi anche a distanza di 50 anni: alludo al Commentario allo Statuto dei diritto dei Lavoratori scritto nel ‘72 insieme a Federico Mancini, Luigi Montuschi e Giorgio Ghezzi, con il quale redasse anche uno dei manuali più belli (e difficili) che siano mai stati scritti, tanto da rammentarne egli stesso, con un pizzico di compiaciuta ironia, “un successo più di critica che di pubblico”.
Dei quattro autori di quell’opera straordinaria, Umberto Romagnoli è stato l’ultimo ad andarsene. Sicché, oggi, sembra davvero finire un’epoca.
Vista l’incolmabile distanza che ci separa, non so se posso azzardarmi a dire che senza di lui la storia del diritto del lavoro italiano starebbe stata diversa. Sono, tuttavia, assolutamente certo che sarebbe stata diversa la rappresentazione della storia del più novecentesco dei diritti.
Eppure non credo si addica al Prof. Romagnoli la qualifica di storico del diritto, che talvolta gli è stata onorevolmente attribuita, salvo pensare a un tempo antico nel quale la storia orale si faceva epica, come nei poemi omerici. Del resto, anche nel nostro caso si è trattato di cantare un’epopea: quella del popolo dal colletto blu e le mani callose, il cui assalto al cielo non poteva che suscitare grandi entusiasmi e, in stagioni più recenti, altrettanto cocenti delusioni. Intendo dire che non gli si addice la qualifica di storico non solo perché Romagnoli è stato – come tutti sanno – un fine e acutissimo giurista, ma anche perché non aveva dello storico più di quanto avesse del letterato.
Rileggendo alcune sue pagine confesso di aver pensato a Italo Calvino. Quello delle Lezioni americane e de Le città invisibili. Come in Calvino, credo ci siano, negli scritti di Romagnoli, immagini, metafore, paragoni, suggestioni che per molti giuslavoristi costituiscono una sorta di linguaggio formulare. Tanto che molti di noi non riescono a fare a meno di citarlo. Anche senza volerlo.
Si usa dire, in circostanze come questa, che il ricordo va oltre la parabola della vita, facendo appello ai presenti affinché custodiscano il ricordo, l'insegnamento, la lezione, il pensiero.
Ecco, diciamo così: Umberto Romagnoli ci ha di molto alleggerito il compito, perché molte delle cose che ha scritto sono, semplicemente, indimenticabili.
Se oggi venisse ri-scritto un volume sui Giuristi del lavoro del Novecento italiano, sono ragionevolmente certo che ad occupare un posto d’onore nel pantheon dei giuslavoristi ci sarebbe il profilo di Umberto Romagnoli.
Eppure la constatazione non mi consola, per il semplice fatto che quel profilo non potrebbe uscire dalla sua penna.
Certo, sarebbe bello poterlo emulare! Per parte mia, ad esempio, potrei iniziare, da domani, a fumare la pipa.