Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Un ulteriore passo verso una nuova giurisprudenza disciplinare

di Gianfranco Gilardi
già presidente del Tribunale di Verona; componente del Comitato scientifico di Questione Giustizia
Le Sezioni Unite riformano la condanna disciplinare nei confronti di Luca Minniti, dando rilievo alle condizioni di particolare carico lavorativo che gravavano l'incolpato
1. Alla stregua dell’indirizzo interpretativo, formatosi successivamente alla riforma degli illeciti disciplinari dei magistrati anche sulla base di numerose sentenze delle sezioni Unite della Corte di Cassazione, il superamento di un anno di ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali integrerebbe la fattispecie prevista dall’art. 2, comma 1 lett. q) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 rendendo censurabile la condotta del magistrato, ove non siano allegate da quest'ultimo ed accertate dalla Sezione disciplinare circostanze assolutamente eccezionali tali da giustificare l'inottemperanza del precetto relativo ai termini di deposito. Si è osservato, in particolare, che il periodo di un anno sarebbe da considerare superiore alla soglia della ragionevolezza in quanto reputato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sufficiente, in materia civile, a completare l'intero giudizio di legittimità, con la conseguenza che la stesura di qualsiasi provvedimento ed il relativo deposito non possono in genere richiedere tempi superiori a quelli del processo di cassazione (cfr., tra le altre, Cass. S.U. 5 aprile 2012, n. 5444; 13 febbraio 2012, n. 1990; 13 settembre 2011, n. 18699, 18698, 18697,18696 del 2011). 
 
Tale orientamento – ribadito anche nella decisione della Sezione disciplinare poi riformata dalla sentenza n. 2948/2016 delle Sezioni Unite ora in commento - non ha mancato e non poteva mancare di suscitare perplessità. A parte, infatti, la considerazione che la durata media del giudizio di Cassazione in Italia è normalmente superiore ai tre anni[1], affermare che il ritardo deve presumersi sempre ingiustificato quando ecceda il triplo dei termini di legge per il deposito dei provvedimenti (cfr., ad es., Cass. S.U. 13 settembre 2011, n. 18696, citata), ovvero che, al di fuori dell’ipotesi di ritardi non eccedenti il triplo dei termini di legge, la gravità del ritardo reiterato e non altrimenti giustificato non richieda una specifica dimostrazione (Cass. S.U. 30 marzo 2011, n.7193; 3 novembre 2011, n. 22729; 8 aprile 2009, n. 8615), o ancora che la soglia di giustificazione debba sempre ritenersi superata in concreto, quando il tempo di ritardo leda il diritto delle parti alla durata ragionevole del processo, di cui alle norme costituzionali e sovranazionali vigenti (cfr., ex plurimis, Cass. S.U. 18 maggio 2010, n. 14697; Cass. S, U. 17 gennaio 2012, n. 5281; ma vedi, già, Cass. S.U. 23 agosto 2007, n. 17916; S.U.27 luglio 2007 n. 16627) o infine che i ritardi pari o superiori ad un anno rendono sempre ingiustificata la condotta salvo l’esistenza di circostanze eccezionali idonee a giustificarli, significa infatti introdurre una presunzione ignota al sistema positivo, il legislatore avendo previsto unicamente la presunzione relativa di non gravità ancorata al mancato superamento del triplo dei termini per il compimento dell’atto, ma nulla avendo stabilito per i casi di ritardi superiori, la valutazione della cui rilevanza ai fini disciplinari non può dunque non essere rimessa alle circostanze del caso concreto, sia pure con la specificazione che l’accertamento svolto dalla Sezione disciplinare ha natura valutativa e si sottrae a censure in sede di giudizio di legittimità, ove la relativa motivazione non risulti incongrua o del tutto carente (Cass. S.U., 24 marzo 2010, n. 7000). Il riferimento, poi, al parametro della durata ragionevole del processo, ancorato unicamente ai tempi di deposito dei provvedimenti, non solo finisce per svilire il principio, elaborato dalla stessa Corte di Strasburgo, che la ragionevole durata deve essere assicurata dall’insieme degli organi statali e non solo di quelli giudiziari[2], ma trascura altresì di considerare che, ove svincolata dall’apprezzamento delle concrete condizioni operative ed organizzative in cui il magistrato si è trovato a dover svolgere le proprie funzioni, l’istituzione di una rapporto automatico tra superamento della durata ragionevole del processo[3] e sussistenza dell’illecito disciplinare rischia di sfociare in una sorta di responsabilità oggettiva, e di favorire virtualmente non condotte di maggiore responsabilizzazione verso i doveri d’ufficio ma, all’opposto. logiche di autodifesa sul lavoro, atteggiamenti di furbizia e di ripiegamento burocratico se non vere e proprie prassi distorte. 
 
Più in generale, è stato opportunamente osservato come nell’indirizzo accennato restasse in qualche modo nell’ombra l’analisi del rapporto tra laboriosità e diligenza, un’analisi che deve essere compiuta sempre in concreto e non sulla base dell’astratta configurazione del dover essere, nella consapevolezza che se, indubbiamente, anche un magistrato che non si distingua per scarsa laboriosità può rendersi responsabile di illecito disciplinare ove il ritardo sia “reiterato, grave e ingiustificato”, i carichi di lavoro e la molteplicità delle funzioni svolte possono porsi essi stessi in rapporto di specifica e diretta causalità rispetto ai ritardi, spettando al magistrato - nella scelta inerente alla distribuzione delle proprie forze - operare con attenta graduazione delle diverse tipologie di decisioni ed in modo razionale, necessariamente posponendo i provvedimenti rispetto ai quali i ritardi sarebbero privi di conseguenze dannose. Ed appare conforme all’ordinamento giuridico che, nel concreto contesto organizzativo in cui il magistrato si trova ad operare, questa scelta possa essere assunta di per sé come criterio di accertamento e di misura della diligenza, con la conseguenza che anche ritardi ripetuti e significativi possono risultare accettabili e giustificati secondo un parametro oggettivo di diligenza ed in base ad un criterio di concreta esigibilità della condotta che può richiedersi al “buon magistrato”; e ciò tanto più quando la condotta professionale del magistrato sia orientata nel senso di un governo del proprio ruolo in modo da mantenerlo complessivamente nei limiti della durata ragionevole in base agli stessi parametri della giurisprudenza di Strasburgo.
 
2. Modificando il precedente orientamento, con la sentenza n. 14268/2015 (i cui principi sono stati richiamati nella decisione in commento) le S.U. della Cassazione hanno finalmente escluso che possano ritenersi insuscettibili di giustificazione sul piano disciplinare i ritardi nel deposito di provvedimenti superiori all’anno o comunque superiori ai termini di ragionevolezza, così come ha escluso che essi possano essere addebitati al magistrato a titolo di responsabilità oggettiva, con la conseguenza che - quale che sia l’ampiezza - la Sezione disciplinare non può sottrarsi al compito di valutare compiutamente le giustificazioni eventualmente addotte a discolpa dal magistrato. E tra tali ragioni può assumere un ruolo determinante la “precisa e programmata scelta organizzativa di gestione del ruolo intesa al perseguimento di un ragionato abbattimento delle pendenze e di una minore durata dei processi (anche inducendo un maggior numero di definizione dei medesimi diverse dalle sentenze”, così come era stato dedotto nel caso esaminato dalle Sezioni Unite con uno specifico motivo di gravame accolto dalla Corte che, annullando la sentenza impugnata e rinviando alla Sezione disciplinare per il compimento dell’indagine omessa, per un verso ha fatto giustizia dell’affermazione che vorrebbe trasformare in un esclusivo dovere di informazione da parte del magistrato ciò che il dirigente dell’ufficio è tenuto a conoscere autonomamente proprio in ragione del suo incarico; per altro verso (e il principio appare particolarmente importante), muovendo dalla premessa che “in linea di principio il magistrato è responsabile della gestione del proprio ruolo” e che, quando la consistenza del ruolo risulta sproporzionata rispetto alle possibilità di smaltimento, tale responsabilità assume valenza più pregnante sia perché impone valutazioni di priorità che non possono essere casuali sia perché esige dal magistrato scelte organizzative intese, per quanto possibile, a contenere un arretrato altrimenti destinato ad accrescersi nel tempo, ne ha tratto la il corollario che la giustificazione organizzativa proposta dal magistrato nel giudizio disciplinare deve essere seriamente vagliata e valutata (non solo in quanto la protrazione dei ritardi oltre il limite  annuale non li rende di per sé ingiustificabili e non esclude la necessità di valutare compiutamente le relative giustificazioni, ma anche) perché “è un dovere del giudice, soprattutto in una condizione di carico eccedente le possibilità di smaltimento, organizzare il proprio lavoro in modo da ridurre, nei limiti del possibile, la pendenza e la durata dei processi”. E l'assunzione in decisione, sia pure con deposito delle motivazioni dilazionato nel tempo, potrebbe avere l’effetto di "alleggerire" il ruolo, “elemento condizionante da considerare in concreto nella sua ampiezza indipendentemente dal numero delle cause che il magistrato riesce a "trattare" e decidere, non costituendo esso una massa inerte che grava solo per le controversie trattate e/o decise, ma un'entità plurale, complessa e composita che quanto più è "pesante" tanto più produce lavoro”.
 
Quando, infatti, le scelte di gestione da parte del magistrato siano state quelle di una graduazione di priorità resa necessaria dai carichi di lavoro e tale da configurarsi (sia pure con previsione ex ante) come la più compatibile in concreto con l’esigenza di assicurare la ragionevole durata complessiva dei processi gravanti sul ruolo, non si vede in che modo possa a lui imputarsi di essersi sottratto ai propri doveri funzionali, anche se in dipendenza di tali scelte e di tali valutazioni (di per sé del tutto ragionevoli ex ante, sebbene poi smentite dalla realtà organizzativa dell’ufficio), il numero di cause passate in decisione si riveli, alla prova dei fatti, superiore al tempo a disposizione per la redazione di sentenze, con conseguente accumulo dei ritardi.
     
Di certo un simile accumulo non si verificherebbe, o si produrrebbe in misura minore, con scelte di gestione diverse quale, ad esempio, l’allungamento dei rinvii tra l’ultima udienza di trattazione e quella di precisazione delle conclusioni, con conseguente differimento delle scadenze decisorie e minor sovraccarico del ruolo decisorio medesimo:  ma tali scelte, certo più “caute” da un punto di vista formale, non gioverebbero in alcun modo né allo smaltimento del ruolo (che ne verrebbe comunque ritardato) né agli interessi delle parti, che subirebbero comunque (non il ritardo nella stesura della sentenza, di per sé solo ipotizzabile al momento del rinvio, ma) una sicura dilazione del momento decisorio collegato alla maggior durata del rinvio per la precisazione delle conclusioni.
     
In altre parole, nella alternativa tra rinvii per la precisazione delle conclusioni di durata fino ad uno o più anni, ed il ritardo nel deposito della “massa” delle sentenze, è ben possibile che la scelta ricada sulla seconda opzione, che può rivelarsi, nella sostanza se non nella forma, la meno pregiudizievole per gli interessi delle parti: e la Sezione disciplinare ha già avuto modo di affermare  come debba andare a merito del magistrato “la consapevole scelta di trattenere in decisione le cause, esponendosi al rischio del mancato rispetto dei termini” anziché accedere “alle prassi deteriori del mero rinvio, della rifissazione per la precisazione delle conclusioni, degli incombenti istruttori inutili, prassi che tanto peso hanno avuto nel portare l’Italia davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”[4]
     
Francamente stupisce dover leggere poi, in una sentenza della Sezione disciplinare, che al magistrato il quale, per il carico di lavoro, avverta di non essere in grado di osservare i termini per il deposito delle sentenze, non sarebbe consentito “effettuare autonomamente la scelta di assumere in decisione cause in eccesso rispetto alla possibilità di redigere tempestivamente le relative motivazioni invece di rinviarne la decisione a data compatibile col rispetto dei termini “: espressione che, se presa alla lettera, finirebbe per incoraggiare lo slittamento verso quelle prassi deteriori pur censurate dal giudice disciplinare e che - tra l’altro – non varrebbero certo a sollecitare un più responsabile e rigoroso adempimento dei propri doveri da parte dei capi degli uffici i quali,  anzi, potrebbero essere indotti ad opinare che la situazione sia “sotto controllo” proprio perché la mancata assunzione in decisione dei processi pone al riparo da ritardi nel deposito dei provvedimenti.
 
3. Il ripensamento delle S.U. merita dunque piena adesione e si auspica che, sulla questione esaminata (efficacia giustificatrice della gestione del ruolo da parte del magistrato rispetto all’eventuale ritardo nel deposito di provvedimenti) sia stata fatta, a livello di giurisprudenza disciplinare, definitiva chiarezza.
     
Meno convincente è invece la posizione assunta dalla Suprema Corte (e dal giudice disciplinare) sull’altra causa dei ritardi dovuti all’espletamento di incarichi, quali nel caso in esame l’aver fatto parte, per specifica designazione del CSM, del Gruppo standard medi di rendimento. Proprio perché la contestazione disciplinare aveva ad oggetto - come esattamente puntualizzato nella sentenza in commento - non “l’intollerabile durata dei singoli processi”, ma “l’adempimento delle funzioni del magistrato”; e proprio perché la laboriosità, l’operosità e la diligenza del magistrato, per specifiche disposizioni dell’ordinamento giudiziario ed altrettanto precise direttive delle circolari del CSM, debbono essere apprezzate con riguardo a tutti i compiti e le funzioni in cui si estrinsecano il lavoro giudiziario e le altre attività ad esso collegate, non poteva non essere preso nella massima considerazione il rilievo che l’incarico espletato da alcuni magistrati nei settori dell’innovazione e dell’informatica (come pure, per fare un altro esempio, in quello della formazione) costituisce ormai non un elemento accessorio e secondario rispetto all’attività giudiziaria, ma un fattore a questa essa strettamente legato in quanto rivolto alla complessiva funzionalità del sistema giudiziario e teso al recupero di quel più preciso, informato, trasparente ed efficace sistema di valutazione dei magistrati e dei criteri di gestione degli uffici da parte dei dirigenti, che il CSM da anni sollecita, persegue ed incoraggia.
     
In un contesto, come quello che caratterizza la realtà della gran parte degli uffici giudiziari, ove si è creata da tempo la grave alternativa tra il destinare le sempre più scarse risorse ai servizi, per scongiurare il rischio di responsabilità contabili, o tenere invece più udienze, al fine di evitare le conseguenze della legge Pinto oltre che possibili responsabilità di natura disciplinare, e le stesse ispezioni ministeriali - più che occasioni per approfondire la realtà organizzativa e prendere conoscenza delle condizioni in cui si è costretti ad operare - non di rado si manifestano come strumento di burocratico e a volte cieco trasferimento sui funzionari o sui magistrati di responsabilità che chiamano in causa, prima di tutto, le inadempienze ai doveri derivanti per il Ministro della giustizia dall’art. 110 della Costituzione, svalutare la rilevanza di quegli incarichi con l’osservazione della non obbligatorietà della loro accettazione significa appunto trascurare che anche il relativo svolgimento,  quantunque privo del carattere dell’obbligatorietà e, in questo senso, volontario, non può certo considerarsi estraneo ai profili dei doveri funzionali del magistrato, la ricerca di strumenti idonei a migliorare il funzionamento della giustizia, anche sotto il profilo della minor durata dei processi oltre che del risparmio di costi, iscrivendosi in pieno (e tanto più nel contesto della progressiva riduzione delle risorse per la giustizia) nella prospettiva istituzionale, ideale e culturale dell’art. 111 Cost. 
 
Ed affermare che, ove l’esonero giudiziario riconosciuto per lo svolgimento dell’incarico si dimostri insufficiente a vanificarne l’incidenza quanto al carico di lavoro complessivamente gravante sul magistrato, sarebbe onere di quest’ultimo chiederne un adeguamento o, in alternativa, rinunciare all’incarico (negandosi, in caso contrario, rilevanza giustificatrice al relativo espletamento) significa, ancora una volta, trasferire sul magistrato la responsabilità di scelte che gravano, a monte, sull’amministrazione a cui compete di renderle compatibili con il lavoro giudiziario e che non può, dopo averle promosse e incentivate (nella prospettiva dell’auspicabile miglioramento che ne sarebbe derivato per la funzionalità del servizio giudiziario), abbandonare  il magistrato alle conseguenze degli inevitabili ritardi che lo svolgimento di quell’incarico può avere provocato (o concorso a provocare). Mi sembrerebbe davvero una posizione cinica, ben poco compatibile con i principi di coerenza e correttezza istituzionale, e tale comunque o da non incentivare l’accettazione di compiti (pur ritenuti necessari per il miglioramento della funzionalità del sistema giudiziario), con conseguente ripiegamento dei magistrati nello spirito burocratico e nella passività culturale, che sono quanto di più incompatibili con lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali o, in alternativa, da indurre ad accettarli solo coloro, magari meno capaci di svolgerlo, sono tuttavia favoriti nella distribuzione dei carichi di lavoro o più abili nell’uso dei rinvii delle scadenze processuali.
     
A me sembra che in realtà la vera questione sia una soltanto: o si ritiene che la partecipazione dei magistrati non sia né indispensabile né utile per lo svolgimento di certi incarichi (e non credo che possa arrivarsi a questa conclusione quando si tratta di elaborare standard di rendimento destinati ad incidere direttamente sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, sul conferimento di incarichi direttivi e sui controlli in ordine ai criteri di gestione degli uffici da parte dei loro  dirigenti); o, all’opposto, si ritiene che tale partecipazione sia utile e necessaria, e allora l’espletamento dell’incarico deve essere messo, senza mezzi termini e ambiguità, e senza far gravare sul magistrato le conseguenze indirette (quali, appunto, gli eventuali ritardi nel deposito di provvedimenti) di una prestazione di cui l’amministrazione  si è avvalsa - sullo stesso piano di ogni altro fattore idoneo ad incidere, con nesso di causalità diretta ed immediata, sugli eventuali ritardi nel deposito di provvedimenti giudiziari, concorrendo alla valutazione dell’insieme delle circostanze che, senza imputabilità al magistrato, può aver contribuito - anche in forma determinante - a renderli inevitabili, configurandosi come un caso analogo alla forza maggiore.
 
E ciò sia che si voglia adottare l’indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di cassazione secondo cui la giustificabilità del ritardo prevista dall’art. 2, comma 1, lett. q) d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 costituisce un elemento esterno alla fattispecie, riconducibile alla categoria delle condizioni di esigibilità in quanto la norma si limita a far riferimento a “situazioni di fatto, non previamente  catalogabili né enunciabili, cui riconoscere efficacia scriminante sotto il profilo tanto soggettivo quanto oggettivo (cfr., ex plurimis, S.U. n. 528 del 2012; n. 18698 del 2011; n. 18697 del 2011; n. 18696 del 2011), sia che si ritenga invece di accogliere la diversa opinione della Sezione disciplinare (cfr., ad es., sentenza n. 24 del 2012; n. 3 del 2012; n. 168 del 2011; n. 109 del 2011) secondo cui quella prevista dall'art. 2, comma 1, lett. q) d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, è un'ipotesi di antigiuridicità speciale, interna alla fattispecie tipica, come per gli illeciti penali avviene quando è la stessa norma incriminatrice a esigere che il fatto venga commesso "abusivamente" o "arbitrariamente" o "illegittimamente”: soluzione che ci sembra preferibile giacché - come osservato dalla Sezione disciplinare - sarebbe contraddittorio riconoscere che per l'esistenza dell'illecito è necessaria "la concomitante presenza dei requisiti positivi della "reiterazione" ... e della "gravità" ... nonché del requisito negativo della "non giustificazione", e poi negare che la "non giustificazione" sia elemento costitutivo della fattispecie. Né, sotto altro profilo, si comprende perché mai, nel caso di ritardi pari o superiori all’anno, le situazioni di fatto esterne alla fattispecie, per assumere efficacia scriminante, debbano avere carattere eccezionale o di assoluta straordinarietà, sembrando invece più coerente che si debba attribuire rilevanza - in conformità all’indirizzo ripetutamente affermato dalla Sezione disciplinare: cfr., tra le altre, sentenza n. 3 del 2012; n. 168 del 2011; n. 111 del 2011; n. 60 del 2011; n. 57 del 2011) a tutte le situazioni idonee a escludere che il ritardo sia dovuto a un'effettiva violazione dei doveri del magistrato, fermo restando lo specifico nesso di causalità tra tali circostanze ed il ritardo.
 
4. Un’ultima considerazione porta infine a precisare che, sebbene nel nuovo sistema disciplinare sia scomparso il riferimento alla lesione del prestigio dell’ordine giudiziario come elemento costitutivo della fattispecie, ove non risulti che i ritardi abbiano determinato alcun danno alle parti processuali o a terzi, né che per alcuno di essi le parti o i loro difensori abbiano avuto in nessun modo a lamentarsene, se ne dovrebbe concludere che si renda in ogni caso applicabile - avuto riguardo allo specifico contesto che li ha determinati, ed alla necessità per il magistrato di adottare criteri di priorità - l’esimente della scarsa rilevanza del fatto di cui all’art.  3 bis d.lgs. n. 109/2006, come introdotto dalla legge n. 269/2007, che ha spostato sul piano della valutazione concreta delle condotte, con riguardo ai beni effettivamente tutelati dall’esercizio della giurisdizione, ciò che prima si giocava con riguardo al più astratto e corporativo criterio del prestigio dell’ordine giudiziario. Se - come limpidamente osservato dalla Sezione disciplinare nella sentenza n. 141/2010, ”il sistema tipizzato introdotto nel giugno 2006 non prevede più quale elemento costitutivo dell’illecito la lesione del prestigio dell’ordine giudiziario o la perdita di credibilità del magistrato; nondimeno la ragione d’essere stessa di un sistema diretto a sanzionare condotte deontologicamente disdicevoli non può che rimanere quella di salvaguardare i valori fondamentali del corretto esercizio della giurisdizione ed è perciò destinato ad intervenire ogni volta e solo quando questi sono messi a rischio o lesi”, soccorrendo in tal caso, appunto, il principio di offensività di cui all’art.3 bis appena citato.
 
___________________________
 

[1] Nella relazione del Primo Presidente della Corte di cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 si precisa che nel 2015 la durata media dei procedimenti definiti dall’Ufficio è aumentata fino a 44,4 mesi.

[2] Cfr. Cass. S.U. n. 470/2015, ove si osserva che l’obbligo prescritto dall’art. 6, par. 1 della CEDU di organizzare le giurisdizioni in modo corrispondente all’esigenza di assicurare la durata ragionevole dei processi, incombe in primo luogo sugli Stati contraenti ai quali spetta il dovere di dotare la magistratura di strutture e personale efficiente, adeguati al rispetto di quell'obbligo. Com’è noto, un’analoga ed indebita sovrapposizione tra compiti dello Stato e doveri dei magistrati ha caratterizzato – anche in modi approssimativi e non alieni da pregiudizi e forme di strumentalità - il dibattito che ha portato alla riforma della disciplina sulla responsabilità patrimoniale dei magistrati.

[3] Durata che tra l’altro, in base alla stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non può essere fissata una volta per tutte in maniera rigida e predeterminata.

[4] Così, testualmente, sentenza n.123/2001 del 4 ottobre / 15 novembre 2001.

 

     
 
08/03/2016
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