La vicenda
In un convegno organizzato a Genova dal Consiglio dell’ordine degli avvocati, intitolato La tutela degli italiani all’estero una storia tragicamente emblematica: Giulio Regeni, il sostituto procuratore generale Enrico Zucca prende la parola.
Le agenzie di stampa riportano così alcune sue frasi: «I nostri torturatori sono ai vertici della Polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?» e «L’11 settembre 2001 e il G8 hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un Paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper fare per vicende meno drammatiche».
Poiché le frasi sono state estrapolate dal contesto dell’intervento e collegate in modo improprio il magistrato chiede pubblicamente agli organi di stampa di correggere le distorsioni, ricordando il senso e lo sviluppo del suo ragionamento.
Investita del caso, la Procura generale della Corte di cassazione non ravvisa alcun elemento per procedere contro il magistrato ed archivia il procedimento predisciplinare affermando, tra l’altro, che nel suo intervento «il dr. Zucca non ha certo mantenuto un comportamento che possa avere minimamente intaccato la fiducia nella sua indipendenza ed imparzialità e, di conseguenza, la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione» ed escludendo che «per il suo comportamento» sia «rimasta vulnerata la credibilità della funzione giudiziaria».
A sua volta la Prima commissione del Csm esclude l’esistenza dei presupposti per un trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale ex art. 2 legge delle guarentigie e decide, all’unanimità, di proporre al Consiglio l’archiviazione della pratica.
La maggioranza dei componenti della Commissione − con l’astensione del consigliere Alessandra Del Moro [1] − inserisce però nella proposta ulteriori passaggi nei quali la condotta di Enrico Zucca viene definita «un comportamento grave e inopportuno, specie in quanto tenuto da un magistrato di grado elevato in un convegno di avvocati e di operatori nel mondo dell’amministrazione della giustizia» e si sostiene che per essa non può «invocarsi … un diritto di critica tutelato dall’ordinamento. Ciò in quanto, come noto, un tale diritto trova il proprio limite intrinseco nella verità della notizia relativamente alla quale la critica viene esercitata; laddove, nella specie, da quanto emerso in audizione, è risultato come sia, quantomeno in gran parte, destituita di fondamento la circostanza che i cosiddetti “torturatori” sarebbero ai vertici della Polizia».
Nella successiva discussione in plenum vengono respinti sia un emendamento diretto a sopprimere queste frasi sia due emendamenti diretti a sostituirle con testi esenti da giudizi di inopportunità.
Al termine del dibattito consiliare viene approvato − con il voto contrario di sette consiglieri [2] − un emendamento contenente un giudizio di disvalore sulle dichiarazioni del dottor Zucca del seguente tenore: «Dette affermazioni, certo inopportune − in quanto provenienti da un alto magistrato in un convegno aperto a tutti gli operatori della giustizia − potenzialmente idonee ad ingenerare un clima di generalizzata sfiducia nei confronti della Polizia di Stato e ad indurre ad una inappropriata associazione fra la Polizia egiziana e quella italiana, non hanno tuttavia determinato, all’attualità, una vera e propria incompatibilità ambientale del dottor Zucca in relazione ai rapporti coi colleghi, la Polizia giudiziaria e gli avvocati».
Un caso Zucca o un caso Csm?
Il caso Zucca è dunque chiuso. O meglio un caso Zucca non c’è, non c’è mai stato. Ma ne è nato un caso Csm, scaturito dalla pretesa della maggioranza dei componenti del Consiglio di “censurare” una manifestazione del pensiero già ritenuta incensurabile dal titolare dell’azione disciplinare e di “giudicare” parole che il Consiglio, nella sua stessa delibera, ha considerato irrilevanti ai fini della valutazione di incompatibilità ambientale o funzionale che era chiamato a compiere.
Nel dibattito che si è svolto nel plenum del Consiglio e nei successivi commenti pubblici sulla vicenda alcuni consiglieri [3] hanno richiamato i passaggi dell’articolato ragionamento svolto da Enrico Zucca nel convegno genovese e ne hanno sottolineato il contenuto di verità.
Il ragionamento del magistrato − è stato ricordato − ha preso le mosse dalla sentenza della Corte suprema americana del 2007 emessa nel caso relativo ad un prigioniero di Guantanamo e dalla sentenza della Corte Edu (caso Saadi contro Italia) del 2007, riguardante l’espulsione dall’Italia di un cittadino tunisino, così esposto a trattamenti inumani e degradanti.
A partire da queste pronunce è poi stata sviluppata una riflessione sul caso Regeni, sul rapporto tra “ragion di Stato” e “verità”, e sulla tortura, con il richiamo a fatti di un recente passato: la extraordinary rendition di Abu Omar e gli accadimenti del G8 di Genova.
Con specifico riferimento ai fatti genovesi, al centro dei processi Bolzaneto e Scuola Diaz nei riguardi di appartenenti alle Forze dell’ordine resisi responsabili di gravi reati ai danni di numerosi manifestanti, Enrico Zucca ha citato la sentenza della Corte Edu (Cestaro del 2015) [4]. Decisione, quest’ultima, con la quale Corte ha condannato lo Stato italiano per una lunga serie di comportamenti attivi od omissivi: non aver sanzionato adeguatamente le condotte accertate, qualificate come veri e propri atti di tortura; non aver sospeso durante la pendenza del processo i pubblici ufficiali coinvolti; non aver adottato adeguate sanzioni disciplinari nei confronti dei responsabili. Di più: la Corte europea ha censurato i ripetuti e dolosi tentativi della Polizia di nascondere i fatti o di giustificarli «sulla base di circostanze fittizie» nella vicenda della Scuola Diaz.
Inoltre in quest’ultima vicenda è stato accertato, con sentenza definitiva, un tentativo di depistaggio: la collocazione nell’edificio scolastico di bottiglie molotov, sequestrate sui luoghi degli scontri dei manifestanti con la Polizia, al fine di giustificare le violenze avvenute nel corso della perquisizione notturna.
E tra gli autori di tali condotte – hanno ricordato i consiglieri dissenzienti dal testo approvato in Prima commissione − vi è stato il dottor Gilberto Caldarozzi, condannato per falso, in via definitiva, a tre anni ed otto mesi di reclusione [5] e successivamente nominato vice capo della Dia [6].
È importante che nel dibattito consiliare siano risuonate queste voci con la loro puntuale rivendicazione di verità storiche.
La fedeltà ai fatti e la ricerca della verità sono tratti essenziali dell’etica professionale di ogni magistrato tanto nel suo lavoro quanto nella partecipazione alla vita della città.
Forse sono lontani i tempi in cui si poteva orgogliosamente ripetere il motto gramsciano «la verità è sempre rivoluzionaria». Ma da qui a sostenere che per un magistrato sarebbe inopportuno richiamare verità sgradevoli, accertate nelle decisioni di Corti supreme, c’è un passo troppo lungo, da non compiere, soprattutto da parte dell’istituzione preposta al “governo” della magistratura.
Una questione di libertà, di potere e di modalità di esercizio del potere
E però, al cuore di questa vicenda non sta solo un problema di verità ma una questione di libertà, di potere, e di modalità di esercizio del potere.
Il Consiglio superiore è un organo investito di una grande pluralità di poteri e di funzioni. Di volta in volta amministra, valuta, nomina, trasferisce, tutela, consiglia, giudica.
Le forme di esercizio di questi differenti poteri consiliari sono in gran parte precisamente regolate dalla Costituzione, dalle leggi e dalla normativa secondaria anche se non mancano esempi di attività consiliari svolte con modalità più libere e fluide.
Così che si passa dal grado più intenso e rigoroso di regolazione, rappresentato dalla giurisdizione disciplinare, a modalità di azione meno formalizzate. Sino all’esercizio di poteri non menzionati dalla legge come i cd. poteri strumentali, necessari e giustificati in quanto indispensabili all’adeguato esercizio dei compiti di Istituto.
Ciò di cui nessuno ha però mai dubitato è che “tutti” i poteri dell’organo di governo autonomo siano destinati ad essere esercitati in corrispondenza ed in coerenza con le finalità per cui essi sono stati attribuiti o sono stati rivendicati e vengono svolti nella prassi.
Riguardata sotto questa lente, la delibera del Csm − che archivia ma contemporaneamente depreca – è difficile da comprendere e perciò da accettare.
Cerchiamo di spiegare meglio il perché di tale incomprensione e della conseguente non accettazione. Per i magistrati – lo sappiamo − il diritto di manifestazione del pensiero deve essere soppesato e bilanciato con altri beni anch’essi protetti dalla Costituzione.
Indipendenza, imparzialità, credibilità della funzione giudiziaria possono porre limiti alla libertà sancita dall’articolo 21 della Costituzione, che pure costituisce «una di quelle … che meglio caratterizzano il regime vigente dello Stato» [7], «il più alto, forse … dei diritti primari e fondamentali» [8] garantiti dal testo costituzionale sino a meritare la definizione di «pietra angolare dell’ordine democratico» [9].
Ma proprio il carattere primario − anche per i magistrati − della libertà da bilanciare esige non solo che i limiti siano rigorosi ma che siano rispettati i canali e le forme istituzionali del bilanciamento e che, in sede istituzionale, sia netta e fermamente presidiata la linea di demarcazione tra libertà e non libertà, tra parola libera e parole sanzionate.
È questo che non è avvenuto nel caso di cui ci occupiamo.
Un procedimento discutibile ed un esito improprio
Ad avviso di chi scrive, una volta che il titolare dell’azione disciplinare aveva motivatamente escluso ogni rilievo disciplinare, l’intervento di Enrico Zucca avrebbe dovuto essere consegnato al giudizio dei suoi diretti ascoltatori, dei lettori delle cronache giornalistiche e delle pubbliche precisazioni del magistrato, della più ampia opinione pubblica e della comunità dei magistrati e dei giuristi.
Doveva rientrare cioè nell’area della libertà, con connessa assunzione di responsabilità ed esposizione alla critica, che caratterizza ogni intervento pubblico.
È già discutibile, dunque, che un intervento pubblico sia divenuto oggetto dell’attenzione del Consiglio in una procedura di trasferimento di ufficio.
Oggi infatti l’articolo 2 della Legge sulle guarentigie, come novellato dal d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, stabilisce che il trasferimento può essere disposto «quando per qualsiasi causa indipendente da loro colpa (i magistrati n.d.r.) non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza ed imparzialità».
Si è consapevoli dell’ampliamento e della valenza positiva assunta negli anni dall’Istituto regolato dall’articolo 2 della legge delle guarentigie al fine di garantire, in situazioni complesse, il ripristino della credibilità della magistratura e della giurisdizione.
Così come è nota la sofisticata riflessione del Consiglio [10] – condivisa dal giudice amministrativo – sulla possibilità che, anche nella sua nuova veste, il rimedio del trasferimento di ufficio possa trovare applicazione nei confronti di una condotta volontaria del magistrato «riguardata in sé come mero fatto materiale e indipendentemente da qualsiasi giudizio che se ne dia (di liceità o illiceità di apprezzamento o di riprovazione etc.» [11].
Resta però che il nuovo testo dell’articolo 2 appare totalmente incompatibile con qualsiasi “fatto di parola”.
Chi scrive non riesce infatti ad immaginare (di certo per un grave difetto della sua capacità di immaginazione) come la presa di parola in pubblico e la manifestazione del pensiero – massime espressioni di consapevolezza e di assunzione di responsabilità – possano essere considerate come un mero fatto materiale e quindi come una “causa indipendente da colpa”, suscettibile di essere valutata nella procedura ex articolo 2 legge guarentigie.
Sullo slittamento iniziale dell’avvio della procedura si è poi innestato un ulteriore più discutibile passaggio: la volontà, si starebbe per dire l’ansia, della maggioranza dei componenti del Consiglio di stigmatizzare in termini di opportunità − nel corso della procedura affidata alle loro cure − il merito del discorso di Enrico Zucca.
Risalendo al resoconto iniziale della vicenda il lettore potrà confrontare il testo inizialmente proposto dalla Prima commissione con la versione finale della delibera, nella quale figura l’emendamento oggetto del voto contrario di sette consiglieri.
Al di là di qualche cautela verbale e dell’evidente sforzo (o meglio dell’evidente forzatura) mirante a collegare in qualche modo i giudizi espressi con la procedura in corso, in entrambe le versioni della deliberazione consiliare (quella originariamente proposta e quella definitivamente approvata) si ravvisano lo stesso spirito e gli stessi intendimenti: usare del potere istituzionale di valutare la compatibilità di un magistrato con la sede ricoperta e con le funzioni assegnate per una finalità diversa, di generica riprovazione, di giudizio politico o moraleggiante tanto perentorio quanto immotivato, di stigmatizzazione impropria, assunta in assenza di ogni contraddittorio, nell’ambito di un procedimento che lo stesso Csm si è dato cura di regolare minuziosamente con la circolare del 26 luglio 2017.
È questo che ci fa dire che il Consiglio ha compiuto – forse per inesperienza, forse per la novità del tema per i consiglieri da poco eletti − una torsione della funzione esercitata ed una sorta di sviamento di potere. In definitiva un passo falso.
Lo ha fatto emettendo un giudizio gratuito che mal si addice ad un organo istituzionale e pretendendo di decidere a maggioranza dell’opportunità o della inopportunità di un discorso pubblico, già riconosciuto esente da rilievi di natura disciplinare e contestualmente considerato ininfluente ai fini di ogni ipotesi di trasferimento di ufficio.
Sappiamo di vivere in un tempo nel quale le invasioni di campo sono divenute una costante nella vita delle istituzioni, al punto che non si sa più chi abbia il potere di chiudere i porti, di gestire la politica estera o di decidere la politica economica del Paese e così via…
Ma non è augurabile che il Consiglio superiore della magistratura si uniformi a questa deriva pericolosa e nociva ed ignori che se la libertà di parola del magistrato non è incontrollabile parresia, essa può essere sindacata solo nelle sedi proprie e solo ai fini circoscritti della funzione svolta.
Ogni altra valutazione deve rimanere affidata alla dialettica dei consensi e dei dissensi che sempre accompagna l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.
Onestà intellettuale e senso della realtà ci fanno aggiungere che, nell’ambito di tale dialettica, i magistrati – e tra di essi gli stessi magistrati di orientamento progressista – si sarebbero con ogni probabilità liberamente divisi nella valutazione delle parole di Enrico Zucca.
Gli uomini liberi, si sa, si dividono. E la magistratura italiana non è un monolite.
Ma così si sarebbe rimasti nel campo delle opinioni e, se mai, delle valutazioni inerenti all’etica professionale tracciate in un codice della cui redazione è stata incaricata, per scelta del legislatore, l’Associazione nazionale magistrati [12]. Opzione legislativa, questa, che conferma come sia impropria la commistione tra i giudizi di valore sui comportamenti e sulle parole dei magistrati e i provvedimenti amministrativi o disciplinari che possono essere adottati nei loro confronti dall’organo di governo autonomo della magistratura.
Lo diciamo con il rispetto e con l’attenzione gelosa che riserviamo al Consiglio superiore e nella consapevolezza di quanto sia importante la sua funzione di rigoroso accertamento dei fatti nelle molte vicende controverse che riguardano i magistrati.
[1] Il consigliere Alessandra Dal Moro si è astenuta dal votare la richiesta di archiviazione esprimendo un disaccordo circoscritto alla sola motivazione della proposta formulata dal relatore. Va ricordato al riguardo che il Regolamento interno le impediva di formulare, in Prima commissione, una proposta di minoranza.
[2] I voti contrari sono stati quelli dei consiglieri Cascini, Dal Moro, Suriano, Zaccaro del gruppo AreaDG, del consigliere Davigo e dei consiglieri laici Gigliotti e Benedetti.
[3] Ci si riferisce alla dettagliata nota emessa sulla vicenda da Giuseppe Cascini, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Giovanni Zaccaro, componenti del Gruppo consiliare di AreaDG.
[4] Corte Edu, sentenza Cestaro vs. Italia del 7 aprile 2015 nel procedimento n. 6884/2011. Vedi anche sempre della Corte europea la sentenza Bartesaghi Gallo ed altri vs. Italia del 22 giugno 2017, nei procedimenti nn. 12131/2013 e 43390/2013; la sentenza Azzolina e altri vs. Italia del 26 ottobre 2017 nei procedimenti 28923/2009 e 67599/2010; la sentenza Blair e altri vs. Italia nei procedimenti 1442/2014, 21319/2014 e 219111/2014).
[5] Si veda sul punto la sentenza Cass. Pen. Sez. V, n. 38085 del 5 luglio 2012. Per un commento della decisione vedi: A. Colella, La sentenza della Cassazione sui fatti della Scuola Diaz: un nuovo tassello nella trama dei rapporti tra sistema penale italiano e Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Guida alla lettura di Cass, pen., n. 38085/2012, in Dir. Pen. contemporaneo, 16 ottobre 2012, https://www.penalecontemporaneo.it/d/1773−la−sentenza−della−cassazione−sui−fatti−della−scuola−diaz−un−nuovo−tassello−nella−trama−dei−rapporti.
[6] In una nota della Polizia di Stato, apparsa su Genova Repubblica on line del 27 dicembre 2017 si affermava al riguardo che «a nessuno» dei funzionari e degli agenti di Polizia coinvolti nelle vicende del G8 di Genova «è stato affidato un incarico che rappresenta alcun tipo di promozione» e che essi «dopo aver scontato interamente le pene inflitte, anche nella forma accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, nonché i provvedimenti disciplinari irrogati, sono stati riammessi in servizio come previsto dalla legge» non essendo «possibile allo stato attuale ad alcuna forma di destituzione».
[7] Corte cost. sentenza n. 9 del 1965.
[8] Corte cost. sentenza n. 168 del 1971.
[9] Corte cost. sentenza n. 84 del 1969.
[10] Si veda al riguardo la delibera Csm del 16 giugno 2011. Per un approfondito esame della circolare si rinvia all’articolo di G. Fiorentino, L’art. 2 della legge sulle guarentigie: lo stato della legislazione, dell’interpretazione e le prospettive di riforma, in Questione giustizia trimestrale, fascicolo 4/2017, http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2017−4_14.pdf.
[11] Così il Consiglio di Stato nella sentenza della IV Sezione, 13 giugno 2011, n. 3587 che ha condiviso la ricostruzione dell’Istituto fatta propria dal Csm. È stata così ribaltata, nel medesimo contenzioso, la pronuncia di segno negativo del Tar Lazio, Sez. I, 29 aprile 2009, n. 4454. In senso conforme all’orientamento del Consiglio di Stato si è poi espressa la sentenza n. 6972 del 2012 del Tar Lazio.
[12] Come è noto l’art. 58 bis del d.lgs n. 29/93 del 3 febbraio 1993, n. 29, che dettava norme in materia di Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 prevedeva che la Presidenza del Consiglio dei ministri, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative adottasse codici di comportamento dei dipendenti pubblici. Per le magistrature, invece, si prevedeva che l’introduzione di codici etici avvenisse ad opera degli organi delle associazioni di categoria, entro il termine di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 29 da sottoporre all'adesione degli appartenenti alla magistratura interessata. Solo dopo l’inutile decorso di tale termine fissato dal legislatore il codice sarebbe stato adottato dall'organo di autogoverno. L’attribuzione all’associazione del compito di redigere il codice etico era ed è un significativo riconoscimento istituzionale ed un rilevante fattore di legittimazione del suo ruolo e della sua funzione. Il legislatore ha preso atto che l’Associazione − in forza della sua cultura, del suo patrimonio di riflessione e di continua elaborazione sulla figura del magistrato e sul ruolo che deve svolgere nella società e nelle istituzioni – è la naturale depositaria e l’interprete di un’etica professionale molto complessa come è quella del magistrato e che essa è se non l’unico, almeno il primo soggetto in grado di enucleare ed aggiornare i valori e le regole di questa etica.