1. Tutta la discussione che si sta sviluppando sulla nomina dei dirigenti di uffici giudiziari e sul loro ruolo mi sembra che pecchi di un errore di fondo. Tutta la logica è interna alla magistratura e sembra guardare più alle prospettive di carriera e/o a salvaguardare il ruolo del magistrato dall’arrivismo, piuttosto che partire dalle necessità di governance che ha un ufficio giudiziario. Il primo problema per noi dovrebbe essere quello delle esigenze del servizio, ovvero di quale tipo di dirigenza ha bisogno un ufficio giudiziario e quindi quali ruoli e quali caratteristiche deve avere chi lo dirige.
Questo errore di prospettiva mi sembra tanto più grave in un momento di ripartenza in cui dovremmo fare tesoro degli errori e delle carenze che l’epidemia ed i suoi riflessi sulla giustizia hanno rivelato, in cui una delle consapevolezze che dovremmo trarre è la debolezza della struttura di governance degli uffici giudiziaria e la mancanza di leadership in troppe sedi. Perché la gestione del periodo dell’epidemia a livello di giustizia è stata così variegata, indipendentemente dai livelli di contagio, e la stessa ripresa dell’attività giudiziaria sta avvenendo a macchie di leopardo, sempre indipendentemente dai livelli di contagio.
La presenza, l’autorevolezza e la capacità dei dirigenti (sia magistrati che amministrativi) ha in tutto ciò un ruolo non esclusivo, ma fondamentale.
In questi anni la direzione di un ufficio giudiziario è divenuta sempre più un’attività complessa assommando ad un ruolo giurisdizionale, sempre più limitato, un ruolo fondamentale di amministrazione della giurisdizione (tabelle, applicazioni, simmetria con le cancellerie, controllo di gestione), oltre ad un ruolo crescente di pura amministrazione. Ovviamente con amplissime differenze nelle diverse percentuali tra uffici giudicanti e requirenti, tra uffici di diverse dimensioni e tra diverse tipologie di uffici.
Questo comporta che davvero quello del dirigente dell’ufficio giudiziario viene essere in parte un altro mestiere, ovviamente tanto più diverso, quanto più grande e complesso è l’ufficio, in cui punto fondamentale deve essere la capacità organizzativa e le specifiche attitudini che vanno oltre, anche se si radicano, nella competenza professionale e giurisdizionale.
Non solo, ma sempre più il modello disegnato dall’ordinamento giudiziario, che vede un uomo solo al comando, è del tutto inadeguato e del resto si scontra sempre più con strutture formali e informali di supporto al dirigente create nei diversi uffici (uffici innovazione, uffici studi, coordinatori di settore, segreterie generali), oltre che con il ruolo sempre più invocato del dirigente amministrativo come direzione integrata.
Non è un caso se la magistratura sia passata dalla polemica contro la doppia dirigenza a lamentarsi per la mancanza di dirigenti amministrativi, quando addirittura non invocando che siano loro ad essere designati come responsabili e datori di lavoro.
Il fatto che a dirigere un ufficio giudiziario debba esservi un magistrato, ovviamente non da solo, è, secondo me, inevitabile per due ordini di motivi: da un lato è indispensabile conoscere appieno tutti i meccanismi, le procedure su cui si fonda il funzionamento di un’organizzazione complessa e dall’altro è necessario mantenere uno stretto legame tra la giurisdizione ed i suoi assetti e strutture e il personale amministrativo che assicuri una coerenza ed un’identità di scopo.
La scelta quindi dovrebbe essere da un lato di privilegiare le attitudini organizzative nelle nomine dei dirigenti magistrati e dall’altro di creare una sorta di veri e propri “consigli di amministrazione” che possano adiuvare, in particolare negli uffici medi e grandi, il dirigente (con una partecipazione flessibile di magistrati e dirigenti e direttori amministrativi).
2. Ci lamentiamo dell’eccessiva discrezionalità che ha il Consiglio e di scelte non consone che vengono effettuate. In realtà quanto sta distruggendo il Consiglio è stata la vera e propria inoculazione di veleno che la nuova legge elettorale varata nel 2002 dall’allora ministro Castelli e la controriforma dell’ordinamento giudiziario hanno comportato.
Perché di riforme si continua a parlare, ma si dimenticano le molteplici riforme che già sono state fatte e gli effetti negativi che alcune di queste hanno avuto.
Veleno perché la nuova legge elettorale del CSM (L. 28 marzo 2002 n.44) costruita per distruggere il potere delle correnti prevedendo la candidatura di singoli scollegati tra di loro, senza nessun vincolo di lista, ha portato all’esaltazione del singolo come persona e notabile, spesso più utilizzatore di una corrente che sua espressione, ma nel contempo chiaramente dipendente da una corrente o gruppo perché lo stesso ambito nazionale della contesa elettorale presupponeva appoggi estremamente ampi essendo necessari almeno 2000 voti per essere eletti come esponenti di legittimità, almeno 1000 come requirenti ed almeno 450 come giudicanti. Del resto nessun vero “indipendente” è mai stato eletto in questi anni ed anzi proprio la difficoltà del sistema ha portato man mano a far diradare le candidature fino all’estremo di 4 candidati per 4 posti delle candidature requirenti del 2018. E abbiamo visto la trasversalità e lo svincolarsi dalle correnti, una volta eletti, stante l’assenza di qualsiasi responsabilità “politica”, proprio negli episodi più inquietanti (vedi Hotel Champagne) dove emergono rapporti del tutto personali che attraversano le correnti e che si basano su legami di puro potere. La volontà di “spoliticizzare” il CSM ha prodotto l’esatto contrario, ovvero l’esaltazione della corrente come veicolo di interessi (locali o di gruppo) e il protagonismo di singoli che acquisiscono potere per il potere.
D’altro canto la strutturazione di una nuova carriera dei magistrati operata con la L. 25 luglio 2005 n.150 con la prospettiva, che seppure attenuata dalle modifiche apportate nel 2007, è rimasta di tipo gerarchico /arrivista, ha stimolato logiche che precedentemente la gerontocrazia dominante riusciva a gestire, complice anche il numero elevatissimo di incarichi direttivi all’epoca esistenti (basti pensare alle Preture e alle Procure presso le Preture) che faceva sì che a fine carriera un incarico direttivo e semidirettivo fosse raggiungibile quasi per chiunque.
Teniamo conto che fino al giudice unico di primo grado i posti direttivi erano oltre 900 (e nella mia esperienza nel Consiglio 1994 – 1998 la media delle domande per ogni posto era di appena tre) che poi sono stati gradualmente dimezzati con la soppressione delle Preture e delle Procure presso le Preture e quindi con l’accorpamento di altri trenta Tribunali.
Va detto con chiarezza che il sistema preesistente che si basava sull’anzianità è fallito alla prova dei fatti e che la qualità di dirigenti che abbiamo oggi è nella media sicuramente superiore al passato, ma quanto avvenuto è andato ben oltre quanto si proponeva la storica battaglia che l’associazionismo giudiziario ha condotto per la temporaneità degli incarichi direttivi. Quanto si riteneva inaccettabile era che un magistrato nominato dirigente dell’ufficio rimanesse tale tutta la vita, oltretutto senza valutazione alcuna. Abbiamo visto dirigenti in personificare lo stesso ufficio per oltre trent’anni. E d’altro lato il ruolo del dirigente veniva ad essere una sorta di premio alla carriera.
Ora si è creata invece (ovviamente non dappertutto) competizione, arrivismo, produttivismo cieco, anche se, a ben vedere, l’anzianità è tuttora un criterio latente, ma rilevante, se l’età media dei dirigenti nominati nella consiliatura 2014 – 2018 era di 60 anni e se l’anzianità nel ruolo viene tuttora accettata culturalmente come parametro di valutazione nella bontà delle nomine.
A ben vedere una volta abbandonata l’anzianità, criterio che aveva un unico elemento positivo, ovvero l’oggettività, il Consiglio non aveva strumenti seri di valutazione ed ha ripiegato nel migliore dei casi su di una valutazione per titoli che è del tutto diversa da una valutazione sulla capacità organizzativa, nel peggiore su scambi e nomine per appartenenza.
Oggi vengono valutati i titoli, ovvero se uno è stato presidente, se ha coordinato qualcosa, se ha ricoperto qualche ruolo, non come l’ha fatto e i risultati che ha raggiunto (e per risultati occorre intendere non solo le statistiche, ma l’indipendenza dell’ufficio, il benessere organizzativo, la coesione, il rapporto col territorio), bensì il mero possesso di nomine e incarichi.
Questo per il semplice fatto che il Consiglio, ma anche i Consigli giudiziari, non hanno né le fonti di conoscenza, né la capacità valutativa per farlo.
A fronte di questa difficoltà si è rinunciato e si rinuncia a prender per le corna il problema e si torna a rivalutare fasce di anzianità ed esperienze giudiziarie, fatti che indubbiamente riducono la discrezionalità e le difficoltà del consiglio, ma che non rispondono in alcun modo alle necessità che hanno gli uffici giudiziari. Del resto è ben curioso come in questo periodo abbiamo visto rimarcare l’assurdità della mancata nomina di Falcone a Presidente dell’ufficio istruzione di Palermo, quando la logica dell’anzianità porterebbe (come aveva portato) inevitabilmente ad escluderlo.
Pretendere di oggettivizzare nomine in cui una discrezionalità di valutazione è inevitabile, viene ad essere del tutto perdente. La strada è soltanto quella di nominare il più anziano o tra i più anziani, continuando a perpetuare una logica gerontocratica molto forte tuttora in magistratura, ovvero alternativamente di cercare di stabilire una graduatoria tra i vari titoli astratti che vengono poi fatti confluire in indicatori generali o specifici come ha fatto l’attuale testo unico sulla dirigenza.
Strade entrambe che hanno dimostrato tutti i loro limiti e che rispondono comunque a logiche interne alla magistratura e all’idea che la nomina di un dirigente debba dare una risposta alle aspirazioni di carriera dei magistrati.
3. La nomina alla direzione di un ufficio deve vedere in primo luogo le esigenze dell’ufficio e del servizio. Da ciò discendono molte conseguenze sia quanto al metodo di nomina, sia quanto alla permanenza e all’eventuale conferma.
Se la scelta deve guardare alle attitudini vuol dire che andranno valutate le capacità organizzative ed i risultati raggiunti sul campo. Capacità e risultati che inevitabilmente presuppongono una congrua esperienza giudiziaria. Il C.S.M., ma neppure i Consigli Giudiziari hanno queste competenze, perché la valutazione è una scienza o quanto meno una tecnica che richiede a sua volta approfondimento e studio.
Del resto anche nel settore privato per scegliere un amministratore delegato vengono incaricate società specializzate nella cernita.
Creare un organismo consultivo – consultivo perché secondo Costituzione la decisione spetta al CSM – di tecnici esterni da incaricare di valutare i candidati e di fornire le caratteristiche e capacità di ciascuno, verificando i risultati avuti sarebbe già possibile a legislazione invariata.
Le Università potrebbero dare un forte apporto, mettendo a regime ed utilizzando le competenze che diverse Università hanno già maturato nella collaborazione con Uffici Giudiziari, portando alla creazione di una sorta di organismo consultivo indipendente di valutazione che fornirebbe quella base tecnica fondamentale per una scelta avveduta.
L’organismo di consultazione dovrebbe poter non solo visionare i curricula, ma svolgere istruttoria, acquisire documenti, sentire persone e gli stessi interessati giungendo a dare una fotografia su attitudini, capacità e idoneità al posto specifico.
È chiaro che la decisione finale spetterebbe al C.S.M., alla luce delle valutazioni che emergono o discostandosene, ma con l’ulteriore pregio di avere una forte legittimazione tecnica per le scelte.
Quanto alla durata il ruolo del dirigente è un servizio e quindi le esigenze di stabilità devono prevalere sulle ambizioni di carriera. Se il dirigente chiede la conferma deve assicurare la permanenza per tutto il periodo (4 + 4), senza l’idea di alcuna carriera successiva. Questo perché l’interesse predominante deve essere quello dell’ufficio e non del singolo.
Così cruciale deve diventare il momento della conferma che deve essere un vero e proprio momento di verifica, non solo dei risultati numerici, ma della coesione dell’ufficio e dei rapporti intessuti. Sentire i magistrati interessati, il dirigente amministrativo, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati è fondamentale come verifica ed in caso di dubbi e perplessità il Consiglio potrà attivare l’organismo consultivo.
Una procedura che comunque, se ben scansionata, risulta gestibile anche come tempi.
Se a questo accompagniamo la proposta che da tempo sostengo della tabellarizzazione degli incarichi semidirettivi ne risulta un quadro in cui da un lato il Consiglio può concentrarsi sulle nomine più delicate e dall’altro disegniamo una governance dell’ufficio molto più ampia e responsabilizzata.
Per essere chiari tabellarizzazione non è rotazione, ma scelta su proposta del capo dell’ufficio, di gruppi di magistrati dell’ufficio o ancora del Consiglio Giudiziario, che comunque deve avvenire da parte del C.S.M. come avviene per tutte le scelte tabellari e dei criteri organizzativi delle Procure.
La scelta della rotazione risponde ancora una volta a istinti corporativi che tendono a spartire tra tutti incarichi più o meno ambiti e vorrebbe dire non scegliere, ma privilegiare anzianità e causalità, quando anche l’incarico semidirettivo richiede capacità organizzativa e di relazione, oltre che di punto di riferimento giuridico. Sostenere che tutti sono eguali ed idonei non risponde pacificamente al vero.
Così non può essere condivisa l’ipotesi di chi pensa all’elezione tra i componenti dell’Ufficio del semidirettivo. L’elezione comporta una ricerca del consenso, ma chi dirige deve essere rispettato, non amato, deve essere autorevole e deve essere capace di dire dei no. Non solo, ma l’idea di elezione, se ha come elemento positivo, quello di operare la scelta ad opera di chi ben conosce le persone, ha come punto di partenza non accettabile l’idea che le nomine siano problema tutto interno alla magistratura, addirittura all’interno della stessa sede e dello stesso ufficio, e non riguardi il territorio ed altre categorie professionali. Questa del resto è la ragione che ha portato il costituente e disegnare una composizione mista del C.S.M. e a demandare ad un organo nazionale le nomine.
Comunque la tabellarizzazione, legata al periodo di vigenza delle tabelle, comporta la possibilità per più persone di fare questa esperienza costituendo la base con cui un domani si potranno scegliere a ragion veduta bravi dirigenti, senza creare una carriera.
E’ chiaro che il prezzo della scelta della tabellarizzazione è quella di dare un forte ulteriore possibile potere al dirigente dell’Ufficio, ma è un prezzo da pagare in un quadro in cui il lavoro di dirigente è sempre più complesso e responsabilizzante.
Una risposta diversa, molto più manageriale e moderna oggi è possibile, senza pensare ad anacronistici ritorni all’anzianità pura o alle fasce di anzianità.