1. L’ammissione di un errore
Sono stato io a propormi per recensire, sulle pagine di Questione Giustizia, il libro di Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli, intitolato Una fragile indipendenza. Conversazione intorno alla magistratura (pubblicato, con la prefazione di Enrico Deaglio, nella collana Motivè, Edizioni Seb 27, 2021).
E sono io, ora, a dover riconoscere di aver commesso un errore.
Si può recensire un “dialogo” nel quale ad ogni passaggio si è direttamente stimolati a consentire, a dissentire, ad obiettare, a replicare, a prendere parte e posizione, in una parola ad “intromettersi” nel fitto colloquio tra i due autori?
Ed è adeguato al compito di recensire chi, leggendo una pagina, saluta con entusiasmo l’emersione di una verità troppo a lungo nascosta sotto la coltre di un deteriore senso comune e, di lì a poco, si sente pronto a replicare a ciò che gli appare una ingiustificata concessione allo stesso senso comune?
Se una recensione è – come recitano giudiziosamente i dizionari – un esame critico e valutativo di un’opera di recente pubblicazione, essa reclama uno stato d’animo ed uno sguardo più freddi di quelli che io mi senta in grado di garantire.
Dall’errore iniziale scaturirà dunque una recensione diseguale, sbilenca, frammentaria. Dotata però di un non trascurabile pregio: mostrare quanto il libro sia “coinvolgente” per diverse generazioni di lettori.
Per i più maturi, che saranno stimolati a rivivere e a ripensare le fasi, talora drammatiche, della loro esperienza sociale e professionale e per i più giovani, che vi troveranno racconti e chiavi di lettura di un passato conosciuto solo attraverso i libri, spesso meno sinceri e problematici di quello di Borgna e Rosatelli.
2. Cominciamo dagli autori
Cominciamo dai due autori. Dai loro caratteri. O meglio dai caratteri delle loro intelligenze quali si esprimono nella conversazione.
A dialogare fittamente lungo tutto l’arco del libro, sono Paolo Borgna, un magistrato di lungo corso, colto e valoroso, che ha al suo attivo moltissimi processi e molti libri e un giovane studioso della politica, Jacopo Rosatelli, che alterna domande incisive e ampie riflessioni, senza mostrarsi mai condizionato o intimidito dalla ricca e straordinaria esperienza del suo interlocutore.
Nei pensieri e nei giudizi di Paolo Borgna sembra inverarsi a pieno il celebre aforisma di Schopenhauer: «più intelligenza avrai più soffrirai».
Nelle riflessioni del magistrato non c’è infatti mai nulla di libresco, di astratto, di intellettualistico.
C’è, invece, il segno, di ciò che egli ha vissuto e toccato con mano, svolgendo, ad occhi aperti e con spirito critico, il lavoro professionale e coltivando la parallela passione di scrittore e di storico.
Ed è in questo segno profondo, tracciato dall’esperienza, che si ritrova la sofferenza per le carenze, le cadute ed i guasti della nostra travagliata giustizia e l‘insofferenza per problemi tante volte discussi e quasi mai risolti e per molti stereotipi sulla giustizia, divenuti ormai frustri e inascoltabili.
Dal canto suo, Jacopo Rosatelli è molto più di un interrogante curioso o di uno sparring partner.
Come si è già accennato, è un interlocutore alla pari, che immette nella discussione ricordi e pensieri importanti, senza però – questa almeno è la mia impressione - il timbro dell’amarezza intransigente del più maturo magistrato e con una propensione a interpretare in termini più aperti e problematici la crisi culturale e politica che sta vivendo la magistratura e le possibili vie d’uscita.
3. Le molte facce della «fragile indipendenza» e il governo della magistratura
La prima prova concreta di questo diverso atteggiamento la si ha già nel primo capitolo del libro, intitolato «L’autogoverno tra ideali e realtà».
Dopo una rapida ricognizione della fase nascente dei contrasti tra politica e magistratura e del ruolo di Bettino Craxi nel porre, sia pure in modo sbagliato, il tema reale della diversa legittimazione dei politici (basata sul consenso popolare) e dei magistrati (fondata su di un concorso tecnico), Paolo Borgna affronta la questione - che resterà centrale nel corso dell’intero dialogo – dei diversi significati dell’indipendenza, declinando cinque valenze di questo fondamentale postulato.
Elenchiamole.
Indipendenza del giudiziario dagli altri poteri, giudicata la più importante. Indipendenza del giudice dalle parti, nei processi civili e penali. Indipendenza dei magistrati dallo spirito del tempo, affidata alla ricerca del difficile equilibrio tra sensibilità alle nuove istanze sociali e capacità di resistere alla pressione pubblica. Indipendenza dall’azione pervasiva e dalle seduzioni dei media. Indipendenza, infine, dalla propria corporazione, intesa come rifiuto del vecchio corporativismo ma anche come estraneità ai gruppi di potere interni rappresentati dalle correnti.
Al suo interlocutore - che gli rappresenta i rischi concettuali e istituzionali di una critica radicale ed indiscriminata dei gruppi associativi e la necessità di cogliere i segnali di un possibile rinnovamento e miglioramento del governo autonomo - Borgna oppone una drastica convinzione contraria.
No - dice - il governo autonomo non è riformabile dall’interno. Occorre che il mutamento sia prodotto da «un’onda d’urto esterna»: E aggiunge: «se non si pone mano ad un ridisegno dell’autogoverno, alla fine si perderà anche l’indipendenza».
Di qui l’adesione alla proposta di una diversa composizione del CSM: metà togati eletti dai magistrati, metà laici. E questi ultimi nominati per un terzo dal Parlamento, per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dalla Corte costituzionale.
Né lo smuove l’obiezione di Rosatelli che gli ricorda come, in passato, proposte analoghe (non identiche) alla sua siano state avanzate da uomini politici interessati ad una riduzione del ruolo e della indipendenza della magistratura.
Tra i proponenti – replica Borgna - c’erano, accanto a politici discutibili, anche molte personalità specchiate. E comunque quei progetti avevano una giustificazione destinata ad andare al di là delle intenzioni contingenti.
Già sulla base di questa rapidissima sintesi, e assai più leggendo il libro, si può constatare che le analisi sono affilate e le proposte nette.
E’ un grande pregio. Se non altro perché, pronunciandosi su questo punto più come giudice inflessibile che come storico, Borgna costringe il lettore a misurarsi, a chiarire le sue idee, e, se necessario, a schierarsi. Necessità, questa, per la quale il futuro fornirà sicure occasioni.
Qui basterà ricordare che a ciascuno dei diversi volti dell’indipendenza e della imparzialità, così efficacemente passati in rassegna nel volume, la magistratura di orientamento democratico ha dedicato negli ultimi due decenni una attenzione profonda e non di maniera, anche superando schematismi e superficialità del passato.
Parlo, per fare un solo esempio, delle riflessioni sulla imparzialità. Cioè sulla necessità di una «consapevole tensione verso l’imparzialità all’atto del decidere» da parte di un magistrato che non è una tabula rasa e non vuole rinunciare alla sua cultura e alle sue idee ma è in grado di sorvegliarsi e di fare la tara alle sue stesse convinzioni per rendere ai cittadini l’indispensabile «prestazione professionale» di una applicazione imparziale della legge.
Un giudice, come è stato icasticamente detto, capace di essere indipendente anche da se stesso.
Questa ricerca condotta a più voci ed i ragionamenti sul servizio giustizia, sui rapporti con i media, sull’etica professionale testimoniano che nella storia recente della magistratura non ci sono solo le cadute e i vizi degli uomini e le prassi deteriori e devianti del governo autonomo ma anche un patrimonio collettivo di pensiero da cui attingere per rinnovare e rigenerare.
Il che, culturalmente e storicamente, non “quadra” con la rappresentazione – condivisa da Borgna in parziale dissenso con Rosatelli - di tutte le attuali correnti come meri gruppi di potere e realtà decadute da una mitica età dell’oro nella quale si pensava e ci si divideva sulle grandi questioni.
4. I passaggi cruciali della storia recente della magistratura e le pagine esemplari sui casi Sofri e Meli - Falcone
Superato il capo tempestoso dell’autogoverno, il libro si fa più narrativo e disteso, ripercorrendo, in un susseguirsi di rievocazioni anche autobiografiche e di riflessioni generali, alcuni dei passaggi cruciali della storia della magistratura: il mutamento generazionale e di immagine del “corpo” dei magistrati iniziato negli anni settanta; la scelta della sinistra giudiziaria per il garantismo a partire dal processo del “7 aprile” del 1979; la svolta segnata da Mani pulite, quando a sinistra «il valore della legalità come “potere dei senza potere” sostituisce il garantismo».
E poi le pagine davvero esemplari ed illuminanti, sui casi spinosi.
Il caso Sofri, in primo luogo, che induce a riflettere sul crinale sottile tra responsabilità penale e responsabilità morale.
E, nelle pagine seguenti, il caso della nomina di Antonino Meli - e non di Giovanni Falcone - a capo dell’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo, che riporta l’attenzione sulle complesse dinamiche dell’autogoverno, dimostrando come scrupolo di verità ed equilibrio possano far giustizia delle tante ricostruzioni faziose che di questa vicenda sono state date.
Chi scrive pensa che gli uomini liberi si dividono; che non devono vergognarsi delle loro divisioni se queste sono nate da motivazioni ideali e da ragioni giuridiche; che su queste legittime divisioni non può essere scaricato a posteriori il peso truccato e deformante di successivi sviluppi drammatici degli avvenimenti.
Nel libro questa elementare verità è enunciata, si starebbe per dire dimostrata, attraverso la lineare ricostruzione di una vicenda istituzionale, riportando alla luce fatti alterati e stravolti dalle polemiche seguite alla tragica morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e dei poliziotti che li proteggevano.
Si trattò – sostiene Borgna parlando della mancata nomina di Falcone – di «una scelta che fece molto discutere» ma che non fu fatta «sulla base di giochi di potere» bensì «di legittime valutazioni di politica giudiziaria».
E sorregge questo giudizio, controcorrente rispetto alla vulgata dominante, mettendo in fila i dati e gli argomenti che lo corroborano. Sino alla coraggiosa sottolineatura della diversità di idee, nella fase di progettazione della Direzione nazionale antimafia, tra Falcone e Borsellino, eroi della Repubblica ed uomini liberi, e per questo capaci di dividersi.
Del resto non è certo questo l’unico caso nel quale Borgna si incarica di sgonfiare, con lo spillo acuminato di una memoria fedele ai fatti, le montature ed i falsi che costellano la storia della magistratura e in particolare quella di Md.
Valga per tutti il passo nel quale smentisce la leggenda che negli anni 70 e 80 Magistratura democratica fosse la cinghia di trasmissione del PCI nell’istituzione giudiziaria, ricordando che in Md convivevano anime culturali e politiche molto diverse e ironizzando sul fatto che se mai «nella testa di qualche dirigente di Md il rapporto era rovesciato, il Pci doveva fare quello che diceva Md».
5. Mettersi nei panni degli altri
Dopo questi contributi preziosi di verità il dialogo ritorna, con notazioni veloci e incisive, sui temi più attuali della giustizia italiana: la cultura politica dei magistrati; l’orribile “gergo” dei giuristi, con l’impellente necessità e le difficoltà di liberarsene; il rapporto dei magistrati con gli avvocati; il tema delle carriere e della loro possibile separazione; il carcere.
Sino al capitolo finale del libro il cui titolo «Fra soggezione alla legge e creazione del diritto» farebbe presagire una virata verso una impostazione più teorica.
Ma l’impennata verso l’astrazione - fortunatamente - non c’è, perché il talento ed il gusto dei due autori li tiene sempre felicemente ancorati alla storia avvenimentale della giustizia, intessuta di eventi, di casi, di pensieri concreti.
Intendiamoci: i principi, le filosofie del diritto e della giustizia, i maestri, sono costantemente presenti ai dialoganti e vengono spesso richiamati nel confronto.
Ma pochi giuristi rifuggono come Borgna e Rosatelli dagli “astratti furori” teorici.
Sono consapevoli, invece, che il diritto è una tecnica di organizzazione sociale che ha senso se è in grado di offrire risposte adeguate ai problemi sociali ed alle domande delle persone e che il processo e il giudizio sono accettabili solo se appaiono ai cittadini come luoghi nei quali si cerca la verità con umiltà e con scrupolo.
Rimanendo fedeli a questi imperativi i magistrati possono sperare di sottrarsi al destino di rassomigliare, invecchiando male, ai “mostri” descritti da Pintor in un suo articolo del 1972 dedicato alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario o alle caricature di Daumier, tutte pose teatrali, nasi prominenti e dita adunche.
Parole ed immagini ispirate all’idea che la pratica del giudicare altri esseri umani deformi, col tempo, anime e fisionomie e che possono essere smentite solo da magistrati che sappiano davvero mettersi, come suggeriscono Borgna e Rosatelli, «nei panni degli altri», guidati in questo dalla cultura del dubbio e dalla passione di verità che corre lungo tutto il filo di questo dialogo.