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Vero e falso sulla responsabilità datoriale da Covid-19. Aspetti civili, penali e previdenziali

di Roberto Riverso
consigliere Corte di cassazione
La polemica antigovernativa contro la presunta responsabilità penale delle imprese per l’infortunio sul lavoro da Covid, che tanto agita le associazioni datoriali ed alcuni settori politici, è fondata sul niente. Anche se mira ad un risultato molto concreto quanto incostituzionale: lo scudo penale

1. Premessa

Monta da parecchi giorni una veemente polemica in merito al contenuto delle norme varate dal Governo per la tutela dei lavoratori dal rischio di contagio da Covid-19. In particolare, in relazione al tema della responsabilità datoriale per Covid-19 si è fatta via via strada – pretendendo di divenire verità – l’assunto per cui la normativa anti-contagio, fin qui emanata dal Governo, abbia finito per aggravare sul piano penale e civile la condizione giuridica dei datori di lavoro in caso di eventi lesivi della salute dei lavoratori o di terzi. Tanto che gli imprenditori si preparano a chiedere modifiche legislative e ad invocare scudi protettivi.

Ma il detto secondo cui una bugia ripetuta fino alla noia finisce per diventare una mezza verità, se potrà mai valere sul piano politico e della comunicazione, non può valere sul terreno giuridico.

Il compito della norma (ancor più se di natura penale, art. 25 Cost.) è quello di separare ciò che esiste da ciò che non esiste per l’ordinamento, dare regole possibilmente certe ai consociati, escludere il caos e l’imprevedibilità dei comportamenti sociali.

La tesi che si discute, sostenuta, in particolare, da esponenti dell’opposizione all’attuale governo e dalle associazioni datoriali, ha già avuto largo seguito nella pubblica opinione e crea una comprensibile preoccupazione tra gli imprenditori. Il quotidiano il Sole 24 ore se ne occupa tutti i giorni, registrando malumori ed ospitando l’opinione critica di svariati rappresentanti del mondo imprenditoriale. Anche il novello presidente generale designato di Confindustria, Bonomi, ha lamentato in più occasioni televisive lo spirito anti-imprenditoriale della normativa varata dal Governo che mirerebbe a punire i datori rendendoli responsabili penalmente di fatti che non avrebbero mai commesso. Si invocano perciò modifiche e scudi protettivi; si preannunciano azioni di lobbing presso il Governo per fare in modo che le regole cambino. E c’è chi minaccia la serrata.

Di recente al coro si è unito, sempre su il Sole 24 ore, anche il presidente dell’Inail Lucibello, affermando che non sarebbe irragionevole la richiesta datoriale di uno scudo penale.

La tesi risuona, peraltro, anche nelle sorprendenti, ma non troppo, parole dell’ex on. Violante sul Corriere della Sera del 7 maggio 2020 il quale ha parlato, su un piano politico più generale, di un eccesso di sfiducia nei confronti dei cittadini e delle imprese da parte del Governo e di leggi che guardano agli imprenditori come soggetti socialmente pericolosi.

Ma il mondo imprenditoriale, messo a dura prova dall’interruzione produttiva e dalle regole di contenimento sociale, non ha bisogno di subire ulteriori stress legati alla disinformazione ed alla demagogia, tanto meno sul contenuto delle regole penali.

2. I protocolli per la sicurezza e l’art. 2087 cc

Com’è noto, dinanzi all’esigenze di una pandemia devastante per la salute collettiva ed in continua ascesa, il Governo ha promosso l’emanazione di un apparato normativo destinato a contenere la diffusione del contagio, proteggere i lavoratori e, con essi, il resto della popolazione[1].

In particolare, per quanto interessa, ha proceduto d’urgenza con un primo decreto legge (dl n. 19 del 2020) alla sospensione di molte attività produttive; e per quelle non sospese ha stabilito che si potessero svolgere previa assunzione delle misure idonee a garantire il rispetto di adeguata distanza di sicurezza interpersonale, protocolli di sicurezza anti-contagio, strumenti di protezione individuale.

Successivamente (il 14 marzo ed il 24 aprile 2020), le parti sociali, tra cui Confindustria, hanno tempestivamente sottoscritto, d’intesa con il Governo, due protocolli condivisi di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro. Gli stessi protocolli sono stati quindi resi obbligatori, per tutta la durata della pandemia, rispettivamente, con i Dpcm del 10 aprile e del 26 aprile 2020 (che ne ha previsto anche l’allegazione), per le imprese le cui attività non fossero sospese o fossero riprese dopo la sospensione.

Le misure previste dai protocolli vanno dagli obblighi di informazione alle distanze di sicurezza, dalla sanificazione degli ambienti all’accesso in azienda, dagli strumenti di protezione individuale alla gestione degli spazi comuni; dai trattamenti dei sintomatici in azienda alle regole sugli spostamenti interni e sullo svolgimento delle riunioni. Una serie di regole precauzionali che rispecchia la gerarchia dei valori costituzionali ed il principio di solidarietà sociale (artt.2, 32 e 41 Cost.); si integra nel sistema di prevenzione in vigore (TU 81/2008 ed art. 2087 cc) e si conforma alle raccomandazioni precauzionali fornite dall’Oms[2].

Lo scopo di tali regole è ovviamente quello di fronteggiare una pandemia che si trasmette attraverso il contatto tra le persone e le goccioline veicolate con la respirazione; e che richiede pertanto di osservare misure di distanziamento, di adottare dispositivi di protezione personale, regole igieniche e quanto altro necessario per evitare la trasmissione. Si tratta di regole universalmente valide in funzione del pericolo, e la cui adozione sarebbe stata comunque obbligatoria per il datore di lavoro già sulla scorta delle norme di carattere generale presenti nel nostro ordinamento come l’art. 2087 cc, l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, l’art. 15 del Tu n. 81/2008.

In particolare l’art. 2087 del codice civile, risalente al 1942, prevede che “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza unanime la disposizione, "come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica", e pertanto "vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima e di adeguamento di essa al caso concreto" (Corte di Cassazione, sentenza n. 5048/1988). La norma individua il contenuto del dovere di sicurezza attraverso criteri elastici che evitano la cristallizzazione di regole cautelari ed impongono un continuo aggiornamento dei mezzi e delle misure da adottare, pur specificamente previste dalla normativa (d.lgs n. 626/1994 o Tu n. 81/2008) e rese eventualmente obsolete dallo sviluppo scientifico e tecnico. Si dice pertanto che l’art. 2087 cc assicura, in questo modo, la chiusura dell’apparato normativo di tutela prevenzionale, anche dal punto di vista penalistico; integrando una previsione che consente di ampliare in continuo l’obbligazione di sicurezza posta dalla legge a carico dell’imprenditore.

Pertanto per configurare la responsabilità penale (e, a maggiore ragione, civile) del datore di lavoro, in materia di infortuni e malattie professionali, non occorre che sia integrata la violazione di specifiche norme cogenti dettate per la prevenzione degli infortuni, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure e accorgimenti imposti all'imprenditore dalla scienza e dalla tecnica (e dal buon senso) ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6360 del 26/01/2005).[3]

Dunque si può riassumere sul punto, che in materia di misure di prevenzione il Governo si è limitato a rendere obbligatoria l’osservanza di regole precauzionali individuate con l’intesa delle stesse parti sociali. Regole che in mancanza di qualsiasi disposizione prescrittiva sarebbero divenute ugualmente obbligatorie per ogni imprenditore sulla scorta dello svolgimento di una qualsiasi prestazione di lavoro, ancorché nulla o di fatto, ai sensi dell’art.2087 cc.

 3. L’infortunio da Covid-19 e l’art.42

 Tutto ciò sul versante preventivo. Per l’ipotesi di infezione conclamata contratta da un lavoratore, il Governo ha invece emanato un’unica apposita previsione, l’art. 42, co. 2, dl n. 18/2020, avente esclusivo contenuto riparatorio.

Una norma di grande rilievo che, con lodevole tempestività, risolve molti dissidi interpretativi che la contrazione dell’infezione da coronavirus avrebbe potuto determinare sul terreno giuridico, innescando contenziosi di varia natura (civili, penali, previdenziali) che la stessa norma aiuta invece a prevenire, e se non altro a contenere.

L’art. 42, co. 2, del dl n. 18/2020 (“Cura Italia”) convertito con la legge n. 27/2020, ha riconosciuto che l’infezione da coronavirus, quando avvenuta in “occasione di lavoro”, costituisce un infortunio protetto dall’assicurazione obbligatoria INAIL, per cui l’Istituto assicuratore è obbligato ad erogare le prestazioni dovute ai soggetti protetti a seconda dell’evento subito (lesione o decesso) e delle conseguenze riportate dal lavoratore, sia esso pubblico o privato[4].

Inoltre la norma, facendosi carico dell’incertezza e della generale impreparazione con cui è stata affrontata - sia a livello pubblico sia a livello privato - la pandemia, ha riconosciuto che le imprese non subiranno oneri di nessun tipo. Si prevede infatti che i “predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019”.

La norma in sostanza, in ipotesi di contrazione del virus in ambito lavorativo, riconosce una protezione economica di natura sociale per il danno alla salute ed alla capacità lavorativa dei lavoratori, nonché alle loro famiglie per la perdita del reddito nell’ipotesi del decesso. Stabilisce nel contempo che nessun onere sarà per questo posto a carico dell’imprese, nemmeno in termini di aumento di premi assicurativi.

La norma chiarisce tecnicamente che sul piano assicurativo si applica la protezione più ampia possibile, quella stabilita (dall’art.2) per infortunio (subito “in occasione di lavoro”), anche in itinere, e non la protezione stabilita (dall’art.3) per malattia professionale per la quale occorre invece un nesso causale col lavoro (“a causa delle lavorazioni”) che è meno agevolmente configurabile[5].

Il provvedimento del Governo realizza così il conseguimento di plurimi interessi ed un equilibrio valoriale che raramente si è visto dinanzi a nuove questioni e fattispecie. Esso offre una soluzione certa e tempestiva a problemi interpretativi che avrebbero dato luogo ad innumerevoli dibattiti ed a contenziosi amministrativi e giudiziari che sarebbero perdurati anni e anni, come l’esperienza di ogni giorno insegna secondo il costume litigioso del nostro Paese.

 4. Vero e falso sull’art. 42 del dl “Cura Italia”

Nonostante il chiaro contenuto dell’art.42 cit., la specifica previsione del decreto legge ha suscitato e suscita ancora accese polemiche, soprattutto presso ambienti dell’opposizione ed in area imprenditoriale e confindustriale.

Ora, bisogna dirlo nella maniera più chiara e diretta possibile, i giudizi formulati sul contenuto della normativa emanata dal Governo sono da ritenere privi di qualsiasi fondamento. E solo non si capisce se siano dovuti ad un pregiudizio politico, ad ignoranza od a malafede.

Anzitutto perché il provvedimento normativo incriminato (l’art. 42 del dl) si limita a riconoscere ai lavoratori quanto già previsto dall’ordinamento.

La norma – peraltro assolutamente opportuna per orientare la prassi dell’Istituto assicuratore e degli interpreti chiamati ad inverare l’ordinamento - non fa altro che ribadire i principi della tutela già contenuti nel dPR n. 1124/65[6].

Il lavoratore assicurato (ai sensi dell’art. 4 del dPR) è infatti protetto dal rischio di qualsiasi evento lesivo della salute (per danni superiori al 5%) in ipotesi di infortunio o di malattia; ed i suoi familiari lo sono pure per il caso di morte; ciò già sulla scorta del dPR n.1124/65 e del d.lgs n. 38/2000. E tanto vale sia per gli infortuni avvenuti in occasione di lavoro, sia per le malattie di cui sia stata accertata (in via presuntiva o con altro mezzo di prova) la causa professionale.

In secondo luogo, l’art.42 in commento è conforme all’ordinamento in vigore anche laddove ha stabilito che l’infezione da coronavirus dia luogo ad un infortunio e non ad una malattia. La differenza tra i due tipi di evento riposa, com’è noto, sulla concentrazione e violenza del fattore causale. Ed esiste in proposito un consistente e risalente orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 5764 del 3 novembre 1982; n. 8058 del 19 luglio 1991; n. 3090 del 13 marzo 199; Cass. 28 ottobre 2004 n.20941; Cass., 1° giugno 2000 n. 7306; Cass. 27 giugno 1998 n.6390, Cass., n. 20941 del 28 ottobre 2004) che ha chiarito da anni che nell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta (e quindi infortunio) anche l'azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell'organismo umano, ne determinino l'alterazione dell'equilibrio anatomo - fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell'infezione.

In altri termini è da anni acquisito che la “causa virulenta” (l’azione di fattori microbici o virali) sia da considerarsi “causa violenta”, per cui l’evento viene protetto come infortunio sul lavoro e non si possa parlare perciò di malattia[7].

L’Inail si è conformato a tale giurisprudenza a partire dagli anni ‘90 (circolare del 1° luglio 1993, relativa alle “Modalità di trattazione dei casi di epatite virale a trasmissione parenterale e AIDS”; Circolare Inail n. 74 del 23 novembre 1995 e “Linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie” del 1° dicembre 1998). E lo stesso ha fatto, di conseguenza, anche nella presente occasione attraverso l’Istruzione operativa Inail del 17 marzo 2020 nella quale ha ribadito che la malattia da coronavirus, contratta nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, sia tutelata a tutti gli effetti come infortunio sul lavoro.

“Nulla di nuovo sul fronte occidentale” verrebbe da dire. Nessuna novità è contenuta nel dl n.18/2020 sul fronte della tutela del lavoratore in ragione della qualifica dell’infezione come infortunio sul lavoro. E non si capisce allora perché una disposizione meramente riproduttiva e con valenza chiarificatrice, valevole solo nel rapporto tra INAIL e lavoratore, a fini della tutela indennitaria, possa suscitare tanto sconcerto nel mondo confindustriale ed agitare il sonno degli imprenditori.

Anche perché la tutela Inail riconosciuta al lavoratore dal Cura Italia non è subordinata, com’è proprio della assicurazione sociale, ad alcun accertamento di responsabilità datoriale. Non occorre pertanto verificare se il datore abbia rispettato o meno le misure prescritte. Conta soltanto che l’evento sia avvenuto in occasione di lavoro e scatta sempre la tutela assicurativa a prescindere da qualsiasi profilo di responsabilità.

Se un contenuto innovativo va invece riconosciuto alla disposizione in discorso esso riguarda, certamente, la parte in cui esonera le imprese dall’aumento dei premi. Si tratta di una misura di favore. Che si può anche giustificare in relazione all’inizio della pandemia, dal momento che poco si sapeva delle caratteristiche del contagio, del rischio di diffusività e nessuno era pronto per affrontare una simile eventualità con misure di prevenzione, mancando persino la possibilità materiale di reperire i mezzi di protezione.

La stessa esenzione potrebbe invece non essere ritenuta coerente con i principi che devono governare la fase successiva, per i casi di infezione che si sono sviluppati a partire da una certa data in avanti, dopo la conclusione dei protocolli di sicurezza.

Ed infatti secondo l’ordinamento l’aumento del premio ha anche un’efficacia deterrente e spinge ad adeguarsi alle regole di prevenzione in modo da contenere gli eventi lesivi. Ma una volta che le regole precauzionali sono state individuate e sottoscritte, una previsione che continui a stabilire, persistendo ipotesi di infortuni professionali, che le imprese rimangano esenti da aumenti di premi, risulta incongrua, in quanto norma dissonante col principio generale di oscillazione del tasso secondo la sinistrosità aziendale (artt.19/25 Mat)[8]; e, forse, anche con l’art. 3 della Costituzione.

Ma non è questo l’unico profilo (di favore) che viene distorto, perché sottaciuto, nei commenti critici sul contenuto della normativa realmente messa in campo dal Governo. Un provvedimento di favore, come del resto quello contenuto nel recente decreto legge Rilancio che prevede il pagamento alle imprese di 403 milioni a fondo perduto da parte dell'Inail per l'acquisto di attrezzature di prevenzione e dispositivi di sanificazione.

Altre pretestuosità sono riscontrabili nelle posizioni assunte su questa tema negli ambienti prima indicati.

Il più evidente dei quali è che il Governo abbia introdotto una nuova forma di responsabilità penale del datore di lavoro imprenditore per il caso di contagio in azienda da parte dei lavoratori o di terzi.

È questa un’affermazione che poggia sul nulla, dato che la normativa varata dal Governo non contempla alcuna previsione che sia destinata a valere sul piano penale. Nessun nuovo reato è stato introdotto per l’imprenditore. Il legislatore ha piuttosto ignorato la responsabilità datoriale per quanto riguarda il versante penalistico.

Al contrario, com’è noto, il legislatore[9] ha persino depenalizzato la sua responsabilità in relazione all’art.650 c.p. (che prevede la natura penale delle violazioni alle ordinanze in materia di salute pubblica) ed ha disposto che la stessa inosservanza delle disposizioni anti-Covid, in quanto tali, rivesta natura amministrativa essendo sanzionata con una sanzione amministrativa, salvo che non integri una diversa e precedente disposizione penale. Pertanto, anche l’inosservanza delle regole relative alle misure di prevenzione in ambito lavorativo, in quanto relative a precetti adottati con dPCM oppure con provvedimenti delle Regioni o dei Sindaci è punita con la sanzione amministrativa stabilita dal comma 1 e 2 dell’art. 4 del dl n. 19/20, salvo che il fatto non costituisca reato[10].

 5. Il governo non ha previsto l’infortunio Covid a fini penali

Ma non è nemmeno questo (la punizione dell’inosservanza delle regole prevenzionali anti Covid) il pomo della discordia.

La polemica riguarda appunto i reati di evento (i fatti di lesione o di omicidio colposo). Ed è basata sull’affermazione secondo cui la responsabilità penale delle imprese sarebbe stata aggravata dal Governo nel momento in cui con l’art. 42 cit. ha previsto che la contrazione del virus dia luogo ad infortunio piuttosto che a malattia.

Ma si tratta di falsità manifesta; poiché, come già detto, la norma qualifica l’infezione virale da coronavirus come infortunio sul lavoro soltanto ai fini della sua protezione indennitaria nell’ambito del sistema dell’assicurazione obbligatoria gestita dall’Inail. E non si occupa della responsabilità datoriale (anche perché non necessario allo scopo).

Non stabilisce nemmeno che la qualificazione del fatto come infortunio rilevi anche ai fini penali o civili. Né che dello stesso fatto il datore debba rispondere come se si trattasse di un infortunio in sede civile e penale. Nulla di tutto ciò.

Anche perché, al contrario di quanto si sottende in tutti questi interessati commenti, sul piano del diritto penale (e civile), risulta del tutto irrilevante stabilire che un fatto costituisca un infortunio sul lavoro oppure una malattia professionale. Ed invero l’ordinamento penale (e civile) non contempla alcuna differenza normativa tra infortunio e malattia professionale. Per le offese alla salute del lavoratore il codice penale prevede – nel titolo relativo ai delitti contro la persona - il reato di omicidio colposo (all’articolo 589 cp) ed il reato di lesioni colpose (nell’art. 590 cp), entrambi aggravati in ipotesi di violazione delle norme per la sicurezza sul lavoro (tra le quali rientra anche la violazione dell’art.2087 cc) e perseguibili d’ufficio in ipotesi di lesione superiore a 40 giorni (artt. 590 e 583 cp).  

Pertanto, per perseguire penalmente (o civilmente) un’infezione da coronavirus contratta sul lavoro, non c’è alcuna necessità di verificare se essa dia luogo ad una malattia piuttosto che ad un infortunio professionale. Del fatto il responsabile risponde ugualmente ed alla stessa maniera, a prescindere che si tratti tecnicamente di una malattia piuttosto che di un infortunio.

Alcuna conseguenza, sotto il profilo della rilevanza penale (e civile) di un fatto commesso ai danni della salute del lavoratore (o di terzi), discende quindi dalla sua qualificazione come infortunio o malattia.

La lamentazione secondo cui il Governo avrebbe aggravato la posizione penale dei datori di lavoro stabilendo che l’infezione da coronavirus dia luogo alla fattispecie dell’infortunio, non ha ragion d’essere ed è priva addirittura di qualsiasi senso a lume dell’ordinamento.

Ma come si può sostenere una cosa così illogica? Come è possibile affermare che da una norma assicurativa derivi una responsabilità penale? È qualcosa che non si dovrebbe mai sentire, salvo ipotizzare l’esistenza di quel “regime onagrocratico” spesso citato dal compianto prof. Franco Cordero recentemente scomparso.

Il diritto penale (e civile) misura l’entità delle conseguenze che derivano dalla lesione alla salute. Ma non s’interessa se siano derivate da una condotta violenta concentrata nel tempo (come nell’infortunio); o se siano invece conseguenti ad una condotta che danneggia l’organismo attraverso un processo causale lento (come nella malattia). 

In ogni caso, l’autore del fatto viene chiamato a rispondere soltanto se lo ha commesso materialmente (anche attraverso un’omissione), e sempre che abbia agito almeno con colpa. Pertanto, non sussistendo la responsabilità oggettiva, nemmeno sul piano civilistico, nessun imprenditore potrà mai essere chiamato a rispondere di alcunché (neppure nei confronti dell’Inail) se osserva le regole prevenzionali che su di lui gravano.

Inoltre egli non risponderà di niente (né a livello penale, né a livello civile) se le stesse regole violate non avrebbero mai evitato l’evento. In ogni caso non risponde se non è certo che l’evento sia stato da lui cagionato, quando sia possibile ipotizzare ragionevolmente che potrebbe essere stato causato da altri, in luoghi ed ambienti diversi; come appare possibile e ragionevole, alla luce dei fatti ed a seconda dei casi, in relazione ad un agente virale ubiquitario come il Covid-19.

E lo stesso schema varrà per l’azione di regresso dell’Inail nei confronti del datore, del pari difficilmente esperibile con esiti positivi, siccome assoggettata ai medesimi oneri della prova relativi alla responsabilità contrattuale o addirittura, secondo altre più restrittive tesi, penale del datore di lavoro.

Si discute pertanto di niente.

Nel diritto penale (ma anche nel diritto civile) la presenza degli elementi costitutivi della responsabilità va indagata in ragione dello specifico fatto, da individuarsi, appunto, in una infezione da coronavirus; ma non perché essa sia qualificabile come infortunio o come malattia professionale. Per il diritto penale e civile interessa capire piuttosto come l’infezione si trasmette, come si contrae e quando. Interessa capire se è richiesta una dose infettante e quale sia la sua azione nell’organismo; importa verificare l’idoneità delle misure di protezione e le interazioni dei fatti addebitati all’autore con altre eventuali condotte e responsabilità; è fondamentale indagare i dati epidemiologici e quelli circostanziali relativi a precisi ambienti di lavoro e di vita; ricostruire, passo dopo passo, la fenomenologia di ogni singolo fatto concreto. Tutto interessa al diritto penale (e civile), meno che il dibattito sul tema classificatorio infortunio/malattia che è all’ordine del giorno delle polemiche confindustriali; un dibattito che è privo di rilevanza e che non dovrebbe portare ad alcuna conseguenza.

La verità è che il legislatore non ha emesso alcuna norma non solo per stabilire, ma nemmeno per aggravare, la responsabilità penale dei datori di lavoro in caso di infezione da coronavirus sul lavoro. Nessuna. L’unica norma vera (dotata cioè di efficacia innovativa), contenuta nell’art. 42 cit. ha invece un contenuto di favore per le imprese perché le solleva dagli oneri economici derivanti dall’aumento dei premi assicurativi cui, secondo le norme generali valevoli in base all’assicurazione obbligatoria, avrebbe dato invece vita il riconoscimento di casi di infezione Covid-9 in ambito lavorativo.

Insomma le grida manzoniane sollevate su questa presunta “norma gravissima” e “antimpresa” sono fondate sul niente. Perché la norma non esiste. Il Governo non ha emanato nessuna norma di questo tipo. L’eventuale responsabilità datoriale per un’infezione da coronavirus può semmai discendere dalle norme generali ed autonome risalenti all’epoca fascista (codice penale Rocco e codice civile Grandi).

Il reato di lesioni colpose o di omicidio colposo è infatti configurabile sulla scorta delle precedenti norme generali vigenti, a prescindere dalla normativa emessa a seguito dell’epidemia coronavirus. E per integrare la colpa datoriale è sufficiente l’art.2087 cc che vige dal 1942. Le norme penali che tutelano la persona (i reati di lesione e omicidio colposo) delineano fattispecie causalmente orientate; non tipizzano la condotta e non puniscono specifiche condotte lesive, ma tutte quelle che incidono sul bene tutelato in quanto imputabili ad un soggetto responsabile. E la fattispecie dell’esposizione ad un agente patogeno nocivo o infettante e del relativo contagio sul luogo di lavoro è rischio già da tempo contemplato dall’ordinamento e dalla giurisprudenza. Per quanto riguarda poi l’esposizione a polveri di amianto esistono sentenze che risalgono agli inizi del 1900.

Anche le regole cautelari trascritte nei protocolli, una volta individuate sul piano tecnico scientifico, avrebbero acquisito rilevanza attraverso la clausola aperta dell’art.2087 cc che vale a rendere responsabile il datore di lavoro in virtù del canone della massima protezione tecnologicamente fattibile da cui consegue l’obbligo di un continuo aggiornamento dell’apparato di prevenzione.

Talché, anche in difetto di protocolli, di regole anti-Covid e di misure prevenzionali tipizzate, sarebbe comunque ipotizzabile la condanna penale e civile del datore di lavoro in caso di contagio contratto sul luogo di lavoro per colpa datoriale.

6. Tanto rumore per nulla? Scudi e immunità incostituzionali

Perché, dunque, se il Governo non ha penalizzato i datori (ed anzi ha pure depenalizzato alcuni comportamenti e con norma di favore li ha esonerati dall’aumento dei premi) le polemiche vengono sollevate con tanto stridore ed aumentano di tono, giorno dopo giorno? È evidente che esse hanno, devono avere, un altro fine reale. Che non può essere quello di contestare o cambiare una norma penale (l’infortunio penale da infezione Covid), che non c’è.

Un primo fine antigovernativo queste polemiche effettivamente rivestono, in quanto alimentate da ben individuabili ambienti politici (non necessariamente situati all’opposizione).

Esse si spiegano, inoltre, perché tendono ad ottenere un generale salvacondotto rispetto all’eventuale sottoposizione alle normali azioni civili e penali. Uno scudo protettivo che sarebbe, esso sì, in contrasto con i principi fondamentali che reggono l’ordinamento, perché si porrebbe in violazione con la protezione costituzionale della salute, del lavoro e del principio di eguaglianza.

Si tratta di una esplicita richiesta che mortifica pure il principio di legalità; e che prelude ad uno ius singulare che non può avere cittadinanza nell’ordinamento. Fino a che punto deve estendersi tale salvacondotto? Può coprire chi ha proseguito l’attività nonostante il divieto? O chi ha lavorato senza rispettare le regole di prevenzione? Può coprire i fatti avvenuti nelle case di cura milanesi o in Rsa che hanno riguardato degenti ed operatori sanitari? Ed entro quali limiti temporali?

Si tratta comunque di una richiesta di immunità che risulta ingiustificata, dal momento che già i caposaldi normativi in vigore, e la loro prassi applicativa, non consentono di condannare nessun imprenditore per omicidio o lesioni colpose quando egli rispetti le regole precauzionali e, comunque, quando non ci sia la prova certa che i fatti di cui è imputato siano stati cagionati in azienda. E ciò vale anche ai fini della stessa responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ex d.lgs n.231/2001 che richiede pur sempre l’indefettibile esistenza degli elementi costitutivi dell’illiceità penale del fatto.

Le stesse polemiche in discorso denunciano inoltre l’atteggiamento schizofrenico delle associazioni datoriali ed un modo di intendere la sicurezza sul lavoro in senso puramente formale, fondato sulle parole. Un atteggiamento, purtroppo, anch’esso praticato non di rado nel nostro mondo del lavoro. Basti riflettere sul fatto che le associazioni imprenditoriali hanno lodevolmente condiviso la sottoscrizione di due protocolli dove sono contenute una serie di misure che mirano a consentire lo svolgimento dell’attività di lavoro in sicurezza. Ma allora come si può immaginare che la violazione di queste norme possa rimanere priva di effetti sul piano delle responsabilità? Forse c’è da registrare una sorta di riserva mentale, se prima di iniziare l’attività si sottoscrivono roboanti protocolli sulla sicurezza della cui effettiva osservanza poi si dubita in sede applicativa ad attività iniziata; tanto da richiedere scudi e franchigie e da dubitare sull’effettività delle stesse regole, la quale va garantita anzitutto con l’irrogazione della sanzione dovuta in caso di inosservanza.

Coerenza vorrebbe invece che fossero per primi i firmatari di quei protocolli a chiedere che vengano garantite le condizioni per l’effettiva osservanza delle misure stabilite. Con l’aumento delle ispezioni e degli ispettori anzitutto. E col riconoscimento delle responsabilità, in caso di inosservanza, in secondo luogo. Ed invece il fronte datoriale agita questioni strumentali, inesistenti, che nascondono la realtà e che mirano ad ottenere un privilegio incostituzionale.

Aleggia in tutto questo la solita ideologia dell’egemonia dell’impresa secondo cui ciò che va bene per l’impresa va bene per il Paese. Il progetto delineato della Costituzione si muove però in un’altra direzione. 

 

 

[1] S. Giubboni, Covid-19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, in corso di pubblicazione in Lavoro e previdenza oggi, n. 1/2020; Bacchini, Controlli sanitari sui lavoratori al tempo del COVID-19, in giustiziacivile.com, 18.3.2020; de Falco La normativa in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro a confronto con l’emergenza epidemiologica da covid-19 Giustizia Insieme 22 aprile 2020; Dovere, Covid -19: sicurezza del lavoro e valutazione dei rischi. Giustizia Insieme 22 aprile 2020; Guariniello, La sicurezza del lavoro al tempo del coronavirus, (e-book), WKI, 2020, 5; Ingrao, C’è il COVID ma non adeguati dispositivi di prevenzione: sciopero o mi astengo? in giustiziacivile.com, 18.3.2020; Lazzari, Per un (più) moderno diritto della salute e della sicurezza sul lavoro: primi spunti di riflessione a partire dall’emergenza da Covid-19, in Dir. sic. lav., n. 1/2020, 136 e ss; Marazza, L’art. 2087 c.c. nella pandemia (Covid-19), di prossima uscita in Riv. it. dir. lav.; Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT-413/2020; Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale? in DSL, 2019, fasc. 2, 107 ss.; ID Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL, 2020, fasc. 1, 129, 4; Pelusi Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Riv. Sic. lav., n. 2/2019, 122 e ss; Riverso Salute, lavoro e coronavirus, nella ricorrenza del 1° maggio, in Questione Giustizia dell’1.5.2020; Tullini, Tutela della salute dei lavoratori e valutazione del rischio biologico: alcune questioni giuridiche, in corso di pubblicazione in Riv. dir. sic. soc., n. 2/2020

[2] V. S. Giubboni, Covid-19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, cit. il quale nota che “Lo stretto rapporto con la fonte pubblicistica, a cui accede, attribuisce al Protocollo (ovviamente, già a quello del 14 marzo 2020) non soltanto quella estensione generale che scaturisce (indirettamente) dal rinvio in funzione integrativa del precetto di legge, ma – più ancora – efficacia “lato sensu normativa”. Non si può pertanto dubitare che le previsioni contenute nel Protocollo – ad integrazione di precetti che rinvengono fonte diretta nei decreti legge e nella normazione secondaria nel frattempo stratificatisi – condividano con questi ultimi la medesima natura di misure di tutela riconducibili alla nozione generale offerta dall’art. 15 del d.lgs. n. 81/2008” .

[3] La Corte Costituzionale ha precisato (sentenza n. 312/2006) che, nel caso di violazione dell’art.2087 cc, alla quale consegua l’applicazione di una sanzione penale, “può essere penalmente censurata soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive”.

Il rapporto tra obbligo di sicurezza ed acquisizioni scientifiche è stato affrontato anche dalla Corte di Giustizia Europea con la sentenza del 15 novembre 2001 secondo la quale i rischi professionali oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro non sono stabiliti una volta per tutte ma si evolvono in funzione dello sviluppo, delle condizioni di lavoro e delle ricerche scientifiche in materia.

 

[4] Più precisamente la norma stabilisce che “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati.

[5] Sulla portata della norma ed i suoi problemi applicativi v. anche G. Corsalini, Coronavirus, la tutela dell’INAIL in caso di contagio del lavoratore, in Questione Giustizia on line, www.questionegiustizia.it/articolo/coronavirus-la-tutela-dell-inail-in-caso-di-contagio-del-lavoratore_01-04-2020.php; nonchè S. Giubboni Covid-19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, cit.

[6] Su cui concordano G. Corsalini, Coronavirus, la tutela dell’INAIL in caso di contagio del lavoratore, cit.; nonchè S. Giubboni, Covid-19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, cit.

[7] Corsalini, Coronavirus, cit.

[8] Sui cui ampiamente, A. De Matteis, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2016 ( terza ed.), 558 ss.

[9] L’art. 4, comma 1, del dl. n. 19/2020, dispone: “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all'articolo 3, comma 3”.

[10] Cfr. S. Dovere, La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19, in Giustizia Insieme, il quale osserva che “per quanto ampio sia il catalogo delle contravvenzioni previste dal TULS, principale sospettato di competizione, specie tenuto conto delle previsioni dei protocolli già stipulati, appare improbabile che le misure ritagliate sulle peculiarietà del rischio da Covid-19 possano specchiarsi nelle disposizioni del d.lgs. n. 81/2008. Il quesito, quindi, non pare dover trovare soluzione a partire dall’opzione sui fondamentali; sia che le misure previste dai d.p.c.m. e dai Protocolli vengano considerate come trama di un sistema congiunturale sia che esse intrattengano relazioni (di integrazione, di inclusione, di specificazione et similia) con il sistema incentrato sul TULS, quel che rileva, almeno per l’applicazione della sanzione, è che il fatto integrato dalla violazione delle misure sia anche violazione di una (almeno per ora) preesistente norma incriminatrice”. 

 

19/05/2020
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