Lo scritto riprende e rielabora la relazione svolta il 18 aprile 2024 nella Sala lettura della Fondazione Basso sul libro Vindiciae contra tyrannos di Stephanus Junius Brutus, Edimburgi, 1579, nel quadro del ciclo di incontri Le strade dei libri.
Alle ardite teorizzazioni del diritto di disobbedire, di resistere, di ribellarsi a sovrani empi o rovinosi per lo Stato - contenute nel libro Vindiciae contra tyrannos, pubblicato nel 1579 da due pensatori protestanti ascrivibili alla schiera degli scrittori monarcomachi - fa da contraltare una drastica limitazione della titolarità di tali diritti. Essi non spettano al popolo inteso come somma di singoli individui, visto con sospetto come una «bestia da un milione di teste» e una «moltitudine senza briglie», ma al corpo ordinario degli “stati” composto da principi, ufficiali della corona ed altri dignitari che soli “rappresentano” il popolo e possono dargli voce e soggettività. Se questa élite istituzionale rimane inerte e non esercita il suo potere di contrasto della tirannide, ai privati che non vogliono assoggettarsi non resta che l’alternativa disperata tra l’esilio e la morte. E’ il timore dell’anarchia, evidentemente superiore a quello della tirannia, a suggerire la spessa rete di limiti soggettivi al diritto di resistenza. Occorrerà attendere i successivi sviluppi culturali e storici del contrattualismo e la laicizzazione del patto tra governanti e governati per registrare l’ampliamento, sul versante soggettivo, del diritto di resistenza. A partire dalle affermazioni di Hobbes – sorprendenti perché provenienti da un teorico dell’assolutismo - sul «diritto di renitenza» del cittadino rispetto alle guerre di aggressione intraprese dallo Stato sino alle enunciazioni di Locke che giustificano la resistenza al governo che viola i diritti naturali irrinunciabili dei cittadini, infrangendo il patto sociale su cui si fonda il dovere di obbedienza.
Lo scritto riprende e rielabora la relazione svolta il 18 aprile 2024 nella Sala lettura della Fondazione Basso sul libro Vindiciae contra tyrannos di Stephanus Junius Brutus, Edimburgi, 1579, nel quadro del ciclo di incontri Le strade dei libri.
Alle ardite teorizzazioni del diritto di disobbedire, di resistere, di ribellarsi a sovrani empi o rovinosi per lo Stato - contenute nel libro Vindiciae contra tyrannos, pubblicato nel 1579 da due pensatori protestanti ascrivibili alla schiera degli scrittori monarcomachi - fa da contraltare una drastica limitazione della titolarità di tali diritti. Essi non spettano al popolo inteso come somma di singoli individui, visto con sospetto come una «bestia da un milione di teste» e una «moltitudine senza briglie», ma al corpo ordinario degli “stati” composto da principi, ufficiali della corona ed altri dignitari che soli “rappresentano” il popolo e possono dargli voce e soggettività. Se questa élite istituzionale rimane inerte e non esercita il suo potere di contrasto della tirannide, ai privati che non vogliono assoggettarsi non resta che l’alternativa disperata tra l’esilio e la morte. E’ il timore dell’anarchia, evidentemente superiore a quello della tirannia, a suggerire la spessa rete di limiti soggettivi al diritto di resistenza. Occorrerà attendere i successivi sviluppi culturali e storici del contrattualismo e la laicizzazione del patto tra governanti e governati per registrare l’ampliamento, sul versante soggettivo, del diritto di resistenza. A partire dalle affermazioni di Hobbes – sorprendenti perché provenienti da un teorico dell’assolutismo - sul «diritto di renitenza» del cittadino rispetto alle guerre di aggressione intraprese dallo Stato sino alle enunciazioni di Locke che giustificano la resistenza al governo che viola i diritti naturali irrinunciabili dei cittadini, infrangendo il patto sociale su cui si fonda il dovere di obbedienza.