Bilancio e prospettive della formazione dei dirigenti
La tormentata elaborazione dei corsi per aspiranti dirigenti, realizzati con qualche ritardo rispetto ai corsi della formazione permanente, è avvenuta tra molte difficoltà, tra lo scetticismo di gran parte dei colleghi e con qualche incomprensione con il Csm, chiamato ad impartire le linee guida per la formazione.
La novità della struttura dei corsi e la riflessione sui temi dell’organizzazione degli uffici giudiziari dapprima non hanno trovato diffuso apprezzamento tra i frequentanti e nell’opinione dei magistrati più in generale. Ciò ha richiesto al Comitato direttivo e agli esperti della Scuola un lavoro di elaborazione e di aggiustamento dei programmi finalmente apprezzato nelle ultime edizioni dei corsi.
Lo sviluppo della cultura dell'organizzazione degli uffici giudiziari, che non appartiene tradizionalmente alla giurisdizione, ha bisogno del contributo di tutti e specialmente del Consiglio superiore che, nel pieno rispetto dell'autonomia e dell'indipendenza della Scuola, si faccia carico di delineare un modello di dirigente degli uffici capace di rispondere alla domanda di giustizia che sale dal Paese.
1. I limiti della legislazione vigente
Non si può dire che siano molte le indicazioni fornite dalla legge istitutiva della Scuola superiore della magistratura per chi voglia riempire di contenuti la formazione di coloro che aspirano a svolgere le funzioni di dirigente degli uffici giudiziari. Il decreto legislativo n. 26 del 2006, infatti, si limita a stabilire che i corsi «sono mirati allo studio dei criteri di gestione delle organizzazioni complesse nonché all’acquisizione delle competenze riguardanti la conoscenza, l’applicazione e la gestione dei sistemi informatici e dei modelli di gestione delle risorse umane e materiali utilizzati dal Ministero della giustizia per il funzionamento dei propri servizi». La caratteristica più evidente di questa previsione è la genericità dei contenuti: i criteri di gestione delle organizzazioni complesse sono così ampi da impegnare parecchie discipline. Più particolari e forzatamente limitati sono gli obiettivi di conoscenza, applicazione e gestione dei sistemi informatici utilizzati dal Ministero della giustizia; ma è difficile pensare che tali obiettivi possano rappresentare i valori formativi essenziali per i futuri dirigenti e siano capaci di riempire da soli il programma di un intero corso per aspiranti dirigenti.
Il compito di indicare obiettivi più concreti è stato affidato dalla legge al Csm e al Ministro della giustizia chiamati a redigere le «linee programmatiche sulla formazione» (art. 12, lett. a), cosa che è puntualmente avvenuta. Deve anzi dirsi che le indicazioni dei due organi si sono venute progressivamente affinando fino a fornire ormai una vera e propria guida per il Comitato direttivo della Scuola. Una particolare difficoltà, tuttavia, si sconta quando si devono fornire linee programmatiche con specifico riguardo alla formazione dei dirigenti.
Va ricordato che in materia di formazione dei dirigenti non vi è stata una lunga elaborazione del Csm, nel tempo in cui la formazione dei magistrati era affidata a quest’organo. Vi sono state iniziative rilevanti nei primi anni del nuovo secolo, specificamente mirate alla formazione dei capi egli uffici, che hanno visto contributi di esperti di notevole livello. Tuttavia non si può dire che si siano sedimentati metodi o prassi di formazione capaci di indicare linee collaudate anche per il futuro.
Il Comitato direttivo della Scuola si è trovato dunque a percorrere un terreno poco esplorato e lo ha fatto impostando la necessaria interlocuzione con il Csm. Interlocuzione non facile non solo per l’oggetto, ma anche per la scarsa disponibilità dell’interlocutore che era chiamato a collaborare in una materia per la quale aveva appena perso la sua competenza.
Tuttavia i frequenti incontri hanno permesso di fissare obiettivi prima assai generici e via via sempre più precisi con riguardo alla formazione dei dirigenti e degli aspiranti dirigenti.
Su un altro aspetto è stata preziosa la collaborazione del Csm: quello dell’ammissione ai corsi. La legge, come si sa, non contiene indicazioni, salvo quella relativa alla possibilità di «concorrere all’attribuzione degli incarichi direttivi, sia requirenti che giudicanti, sia di primo che di secondo grado soltanto (per) i magistrati che abbiano partecipato al corso di formazione» (art. 26 bis, co. 5). È evidente che è necessario distinguere la fase della domanda del magistrato relativa all’incarico direttivo (che sola può consentire di individuarlo come aspirante ad un incarico direttivo) dalla fase del concorso per l’attribuzione degli incarichi direttivi. Distinzione senza la quale sarebbe impossibile per tutti i richiedenti produrre l’attestazione di partecipazione al corso al momento della domanda, dal momento che avere proposto la domanda è condizione necessaria per poter partecipare al corso. Molto opportunamente è intervenuto l’accordo tra Csm e Scuola in base al quale l’organo di autogoverno invia alla Scuola l’elenco di coloro che hanno proposto domanda per un incarico direttivo (sono cioè diventati aspiranti) in modo che essi possano essere ammessi al corso. (Sia detto per inciso che il nuovo TU sulla dirigenza andrebbe corretto sul punto, giacché porta ancora come condizione necessaria per la domanda l’avere partecipato al corso per aspiranti dirigenti).
2. L’elaborazione dei moduli del corso per aspiranti dirigenti
Il Comitato direttivo si è trovato dunque ad elaborare i contenuti della formazione per i dirigenti, partendo da una limitata esperienza del Csm in materia, da alcune esperienze virtuose in materia di organizzazione degli uffici giudiziari, disseminate su tutto il territorio nazionale e da alcuni riusciti tentativi di formazione per i dirigenti della pubblica amministrazione (il cui contesto è peraltro assai diverso da quello degli uffici giudiziari).
Questa è stata anche la ragione per la quale i corsi di formazione per aspiranti dirigenti sono partiti con un certo ritardo rispetto ai corsi della formazione iniziale o di quella permanente. Ho già dato conto in altro scritto[1] dei contenuti dei corsi.
Qui mi limiterò a dire sinteticamente che l’ipotesi di partenza sulla quale sono stati elaborati i contenuti del corso è data dal fatto che esiste uno spazio di autonomia per il dirigente degli uffici giudiziari che può essere utilizzato per intervenire sulle dinamiche organizzative dell’ufficio. Proprio attraverso questi spazi di manovra il dirigente può migliorare le prestazioni del suo ufficio. Naturalmente questo margine di manovra per il dirigente varia da ufficio ad ufficio, in relazione alle dimensioni, alle caratteristiche territoriali o alla congiuntura della domanda di giustizia. Tuttavia esistono in qualche misura per tutti gli uffici e sono messi in luce da vari indicatori, a partire dalle significative differenze di funzionamento tra uffici giudiziari simili per dimensione e collocazione geografica. Di questo spazio, del resto, di sono serviti quei dirigenti che in questi anni hanno dato vita a diversi progetti di innovazione dell’organizzazione giudiziaria. In quest’ottica gli incarichi direttivi hanno un ruolo rilevante nell’organizzazione dell’ufficio (il ruolo direttivo, appunto) perché hanno il compito di migliorare le prestazioni dell’ufficio, di presidiare le linee di lavoro e le opportunità di sviluppo organizzativo. Perciò il ruolo direttivo implica competenze e modi di operare specifici per ciascun presidente di Tribunale o procuratore della Repubblica: implica cioè una professionalità diversa, quella direttiva, che non si sovrappone ma si affianca alla professionalità giurisdizionale. Questa impostazione (del tutto nuova rispetto alla tradizionale formazione del magistrato dirigente) postula che il capo dell’ufficio giudiziario si impadronisca dei processi di programmazione del lavoro giudiziario, che conosca i metodi e le tecniche di direzione dell’ufficio; che, come vuole la legge, conosca i programmi di informatizzazione e le nuove tecnologie utilizzate dal Ministero; che sappia tenere i rapporti con le altre istituzioni e con l’ambiente esterno e rendere conto del proprio operato.
Su quest’ultimo punto il programma del corso non sempre ha trovato immediata adesione tra i partecipanti. La convinzione espressa da qualcuno era che non vi fosse alcuna necessità di avere rapporti con altri che non fossero gli organi previsti specificamente dalle norme in vigore (Csm e Ministero) e, quanto al rendere conto della propria azione (accountability), era diffusa l’idea che il magistrato non debba rendere conto a nessuno perché già lo fa con la motivazione pubblica dei suoi provvedimenti. Si tratta di una concezione di netta chiusura, assolutamente dominante fino a tutti gli anni ’60, ancorata alla visione della giurisdizione come esclusivo esercizio di una funzione alta e ineludibile dello Stato assegnata al potere giudiziario. In questa visione è del tutto assente l’idea che la giurisdizione sia anche un servizio, quello appunto di rendere giustizia. Dove si afferma il concetto di servizio pubblico, è ineliminabile l’idea che esso debba essere reso con responsabilità e trasparenza, se non altro perché nelle moderne democrazie nessun potere può essere esercitato senza renderne conto all’opinione pubblica. E non è un caso che negli ultimi anni il tema del rapporto tra gli uffici giudiziari e l’ambiente esterno abbia assunto notevole importanza ed abbia visto molteplici esperienze di rafforzamento della trasparenza pubblica e di comunicazione quali il bilancio sociale, l’ufficio di relazioni con il pubblico, ecc.
Lo spazio assegnato a questo scritto non consente di affrontare gli aspetti, pur assai rilevanti, di metodo e di organizzazione della didattica che, com’è noto, sono fondamentali per la riuscita delle iniziative di formazione, specialmente quando la platea dei discenti sia formata, come in questo caso, di magistrati di notevole cultura ed esperienza.
3. Il gradimento dei corsi tra i magistrati
È appena il caso di sottolineare che i programmi sono stati definiti, e via via aggiornati, attraverso un confronto, talvolta vivace e perfino aspro, tra i componenti del Comitato direttivo, il gruppo degli esperti incaricati dalla Scuola e, nel corso di un intero anno, con i magistrati che frequentavano i corsi.
È noto che le prime reazioni che si sono avute in diversi ambiti sono state poco favorevoli alla struttura e ai contenuti dei corsi. Non poteva essere diversamente, dal momento che la Scuola provava a mettere in circolo concetti, prassi e metodi che fino ad allora erano estranei alla cultura dei magistrati, salvo poche eccezioni. I pochi magistrati che avevano dato vita ad esperienze organizzative fuori dal comune hanno avuto inevitabilmente il ruolo di “testimoni privilegiati” e sono stati invitati a raccontare le loro esperienze, così diverse da quelle che appartengono alla generalità degli uffici giudiziari italiani. Ma queste testimonianze, pur importanti, non potevano bastare a creare un consenso diffuso tra i partecipanti al corso, né tra coloro che ne avvertivano gli echi da lontano. Storicamente i magistrati italiani (ma forse non solo loro) sono cresciuti e si sono nutriti di una cultura individualistica e talvolta autoreferenziale per quanto riguarda il ruolo del giudice. Ci hanno insegnato che la giurisdizione vive del lavoro individuale di ogni giudice, colto, preparato, indipendente e solo con la sua coscienza. Si tratta di un modello di magistrato che tradizionalmente non ha dedicato grande spazio ai temi dell’organizzazione degli uffici e a quelli fondamentali della valutazione dei risultati oggettivi del lavoro giudiziario e delle leve da utilizzare quando si debbano superare difficoltà e criticità organizzative.
Le critiche che sono state rivolte alla struttura di questi corsi sono state di vario tipo[2], ma sostanzialmente si appuntavano in due rilievi: a) il “taglio” di questi corsi è aziendalistico e non si confà allo specifico lavoro dei magistrati che non producono beni o servizi, ma esercitano una funzione essenziale dello stato di diritto; b) i corsi hanno carattere eccessivamente teorico (la teoria dell’organizzazione) e non colgono le fondamentali esigenze dei dirigenti degli uffici giudiziari che sono: quella di possedere solida cultura tabellare, saper fare i progetti ex art. 37 e i progetti di organizzazione dell’ufficio, tenere i rapporti con i dirigenti amministrativi, governare il personale, provvedere alla sicurezza e alla salute dei lavoratori, ecc.. Per insegnare tutte queste cose è necessario – si è detto- che intervenga un magistrato d’esperienza in grado di conoscer bene i compiti del dirigente di ufficio giudiziario.
Si tratta di rilievi che trovano la loro giustificazione proprio nella cultura che finora è stata propria dei magistrati: del resto per tutti noi finora il modello del buon dirigente è stato quello di un giudice eccellente, capace di dare l’esempio, preparato tecnicamente, autorevole e rispettato dai colleghi. Raramente ci è venuto in mente che il lavoro del dirigente è un lavoro diverso da quello del giudice o del pubblico ministero, per il quale occorre servirsi di cognizioni e strumenti che storicamente non sono appartenuti alla cultura dei giudici. L’esperienza si incarica quotidianamente di dimostrarci che un ottimo giudice talvolta si rivela un pessimo dirigente, pur restando fermo che un buon dirigente deve conoscere bene il lavoro giudiziario, se non altro perché ha il compito di organizzarlo.
È questa la ragione per la quale i corsi per aspiranti dirigenti devono fornire ai magistrati quegli strumenti specifici appartenenti alla cultura dell’organizzazione che finora non hanno fatto parte del loro bagaglio. La novità ha generato resistenze, com’è fisiologico; ci sarebbe stato da preoccuparsi se non ne avesse generate. La prova della bontà del percorso intrapreso è venuta con il tempo: a mano a mano che si è provveduto ad apportare ai programmi le modifiche che l’esperienza suggeriva, l’apprezzamento dei corsi è cresciuto[3]. E quando si sono progressivamente meglio conosciuti e diffusi i principi che ispiravano il programma dei corsi, molti li hanno giudicati irrinunciabili.
4. Il rapporto tra la Scuola e il Csm nella formazione degli aspiranti dirigenti
Si tratta di un rapporto che, come è stato già detto[4], per ragioni occasionali più che per questioni sostanziali, non ha avuto un inizio felice. Ne sono testimonianza le prime linee guida del Csm per la formazione degli aspiranti dirigenti, tutte intese a limitare l’azione e l’autonomia della Scuola fino ad affermare che la Scuola nell'esprimere gli elementi di valutazione sugli aspiranti dirigenti che partecipano ai corsi diventa «organo tecnico ausiliario della competente Commissione consiliare». Tutto questo comunque appartiene ad un passato che, essendo privo di solido fondamento, non ha lasciato molte tracce. Resta peraltro la necessità di impostare correttamente i problemi che derivano dalla formulazione non felicissima della norma. Innanzitutto quello relativo alla valutazione riservata al Comitato direttivo al termine del corso per aspirante dirigente. La legge dispone che il Comitato direttivo «al termine del corso di formazione sulla base delle schede valutative redatte dai docenti nonché di ogni elemento rilevante, indica per ciascun partecipante elementi di valutazione in ordine al conferimento degli incarichi direttivi, con esclusivo riferimento alle capacità organizzative». È chiaro che la norma deve essere interpretata nel suo senso più ristretto. Mai come in questo caso è necessaria un’interpretazione sistematica che tenga fermi i paletti di ordine costituzionale posti dall’Ordinamento. Poiché è indubbio che le valutazioni in ordine al conferimento degli incarichi direttivi spettano al Csm, quelle assegnate alla Scuola devono essere tutt’altra cosa. Proprio le parole usate dal legislatore («al termine del corso di formazione ... sulla base delle schede redatte dai docenti ... indica elementi di valutazione ... con esclusivo riferimento alle capacità organizzative») ci dicono: a) che la valutazione del Comitato direttivo è tutta interna alle logiche del corso; b) che si pone nell’ordine degli strumenti didattici usati dalla Scuola e precisamente come verifica dell’apprendimento; c) che essa deve riguardare il cuore delle materie trattate nel corso, cioè in primis l’organizzazione degli uffici giudiziari; d) che, infine, la valutazione delle capacità organizzative non è la valutazione dell’attitudine a dirigere ed organizzare un ufficio (che spetta al Csm), ma più semplicemente quella che deriva dal grado di apprendimento dei contenuti del corso.
Di questi “elementi di valutazione” trasmessi dal Comitato direttivo il Csm farà l’uso che discrezionalmente riterrà opportuno «in ordine al conferimento degli incarichi direttivi». Perciò è evidente che la valutazione della Scuola deve essere intesa in senso esclusivamente tecnico e didattico, cioè come espressione conclusiva (ancorché limitata alle sole capacità organizzative) della positiva frequenza del corso di formazione da parte dell’aspirante dirigente.
Questa interpretazione del ruolo della Scuola in ordine agli elementi di valutazione, divenuta dopo qualche discussione patrimonio dell’intero Comitato direttivo, ha guidato le scelte del settore della formazione dei dirigenti. Si è stabilito di fornire al Csm brevi elementi di valutazione delle capacità organizzative mostrate da ciascun partecipante in termini discorsivi e sintetici, nei quali non si fa ricorso all’aggettivazione tradizionale: sufficiente, buono, ottimo; né a quella, ancora più insidiosa ai nostri fini, di: idoneo, non idoneo; né, infine, a voti espressi in numeri della scala decimale che non si saprebbero come giustificare. Gli elementi di valutazione espressi dal Comitato direttivo sono misurati sui parametri che derivano direttamente dai quattro contenuti principali del corso, che ne rappresentano anzi le linee portanti: capacità di valutare l’andamento del proprio ufficio giudiziario, capacità di organizzare un progetto che superi le criticità esistenti nell’ufficio, capacità di tenere i rapporti esterni, capacità di gestire correttamente il progetto di innovazione adottato. Come è noto, finora il programma prevedeva un'esercitazione in remoto, da elaborare entro venti giorni dalla chiusura del corso, nella quale l'aspirante dirigente, dopo avere individuato alcune criticità nell'organizzazione dell'ufficio giudiziario, proponeva i rimedi necessari avvalendosi degli strumenti che erano stati illustrati durante le giornate del corso. Questo esercizio ha sollevato alcune critiche, non del tutto ingiustificate (inevitabile disparità del tempo necessario per l'elaborazione tra i vari aspiranti, possibilità per ciascuno di avvalersi di contributi ed esperienze già note, ecc.), tanto che il settore preposto alla formazione dei dirigenti aveva pensato in alternativa di far elaborare ai candidati il loro progetto nell'ultima giornata di corso a conclusione di una serie di spunti che sarebbero stati forniti fin dalla settimana precedente l'inizio del corso.
5. I valori di libertà e autonomia della Scuola superiore della magistratura
Come è facile vedere l'interpretazione del ruolo della Scuola nel momento della valutazione degli aspiranti è assolutamente rispettosa delle prerogative dell’organo di autogoverno, se non altro perché delle verifiche di apprendimento formulate dal Comitato direttivo della Scuola il Csm potrà, se lo ritiene, non fare alcun conto al momento del conferimento dell’incarico direttivo. Ma soprattutto si tratta di una interpretazione che è ancorata ad un principio generalmente accolto nella formazione di tutti gli ordini professionali: che gli organi che sono incaricati della formazione professionale debbano essere istituzionalmente diversi dagli organi che valutano la professionalità o dispongono gli avanzamenti di carriera o giudicano delle mancanze disciplinari. Ed è proprio questo principio che, dopo decenni di discussioni (ricordo che la necessità di istituire la Scuola della magistratura come istituzione autonoma dal Csm fu evocata fin dai primi anni ’90 del secolo scorso), è alla base della decisione del legislatore che ha approvato il decreto legislativo n. 26/2006. Per la prima volta nell’Ordinamento italiano formazione e autogoverno dei magistrati sono stati separati ed affidati a due distinti organi.
Questo principio è pacificamente accolto in tutte le Scuole europee incaricate di provvedere alla formazione dei magistrati, dove pure non manca uno stretto rapporto tra la Scuola ed altri organi. Lo ricordano alcuni documenti internazionali[5], che raccomandano la creazione di autorità indipendenti incaricate della formazione dei magistrati, capaci di soddisfare i requisiti di apertura alla società, competenza professionale e imparzialità. Non sembra che possa trovare posto nel nostro Ordinamento una formazione chiusa, autoreferenziale o addirittura preoccupata di conformarsi agli orientamenti prevalenti negli organi di governo o di autogoverno. E, forse, in nessun campo come in quello della formazione degli aspiranti dirigenti il principio esplica i suoi benefici effetti.
La posizione di autonomia istituzionale delle Scuole della magistratura naturalmente non significa che non debba esservi uno stretto contatto con l’organo di autogoverno e con il Ministro della giustizia: anzi, si richiede uno stretto rapporto con questi organi proprio in vista della completezza e della diversificazione dell’offerta formativa. In questa direzione va letta la norma che prevede l’adozione di linee programmatiche del Csm e del Ministro della giustizia che poi la Scuola dovrà attuare con piena autonomia scientifica e didattica. Proprio l’attuazione delle linee guida che emanano dai due diversi organi dovrebbe avere come corollario un proficuo scambio di vedute, di spunti e progetti, arricchiti dalle diverse competenze degli organi interessati.
Con la finalità di dare un senso a questa prospettiva, da molti mesi il settore della formazione dei dirigenti della Scuola ha deciso di aprire i corsi per aspiranti agli incarichi direttivi invitando un componente del Csm al illustrare il testo unico per la dirigenza di recente adozione e a dibattere con i partecipanti al corso sui suoi contenti. Ciò è parso opportuno non tanto per offrire ai magistrati un modello di dirigente cui conformarsi (anche perché, come si sa, l’elaborazione del modello di dirigente è per fortuna in perenne trasformazione), ma per offrire ai futuri dirigenti l’occasione di scambiare punti di vista ed esperienze in un dialogo fecondo con l’organo di autogoverno.
Questa finora illustrata è stata la posizione della Scuola, di piena disponibilità ad ogni contributo. In proposito mi pare necessario ricordare che alcune iniziative formative sono state realizzate per comune iniziativa della Scuola e del Csm, con accordo di intenti e di impostazione didattica.
Destano perciò sorpresa alcune prese di posizione di singoli componenti dell’organo di autogoverno dei magistrati che teorizzano una formazione effettuata sotto il rigido controllo del Csm, specie quando si tratti di quella assai delicata diretta a formare i futuri dirigenti degli uffici giudiziari. Si tratta di posizioni assunte a partire da non molti mesi fa, che forse sarebbero state più comprensibili se fossero state assunte da qualche consigliere del precedente Consiglio superiore, dispiaciuto dal vedere sottratte al Csm competenze di formazione esercitate per molti lustri. Tralascio di considerare altre proposte, come quelle di riportare la formazione dei dirigenti tra le competenze del Csm, ratione materiae (diciamo così) o quella di spostare la sede della Scuola da Castel Pulci a Roma. Non è il caso di discutere della ragionevolezza di queste proposte, tanto più che il nuovo Comitato direttivo della Scuola, e segnatamente il suo Presidente[6], mostrano piena consapevolezza di cosa significhi per la magistratura nel presente momento storico-politico avere una Scuola autonoma in cui tutti i magistrati possano riconoscersi.
Nel medesimo Convegno di cui si è fatto cenno vi è stato però l’intervento del presidente della Sesta Commissione consiliare che ha apertamente rivendicato un «ruolo maggiore al Csm nella formazione dei magistrati». Proponendo così un salto indietro di almeno dieci anni, quando non esisteva ancora la legge istitutiva della Scuola della magistratura. Poiché si deve ritenere che il presidente della VI Commissione non parli a titolo personale, ma dia voce ad un pensiero da altri condiviso, se ne deve ricavare che si tratta di una rivendicazione preoccupante, soprattutto per gli argomenti che la sostengono. Sono argomenti che si riducono ad un falso sillogismo: «Ora, se la formazione è solo un aspetto dell’indipendenza della magistratura, il Csm ne è il suo naturale custode»[7]. Si tratta dell’esatto contrario del principio sopra ricordato che contraddistingue le altre scuole europee secondo cui l’organo deputato alla formazione dei magistrati deve essere tenuto separato dall’organo che ne governa le valutazioni di professionalità, la carriera e i giudizi disciplinari. Il vizio del sillogismo è evidente: se è vero che il Csm è custode dell’indipendenza dei magistrati, non ne deriva affatto che debba anche provvedere alla loro formazione. Anzi, il fatto che la formazione sia affidata ad un altro organo, anch’esso autonomo e indipendente, garantisce meglio una formazione più libera e aperta e certamente meno autoreferenziale[8].
Si sostiene ancora che una corretta interpretazione delle norme costituzionali imporrebbe il ritorno della formazione alle cure del Csm, giacché «se al Consiglio spetta la responsabilità di verificare la professionalità dei magistrati, giudicarne sul piano disciplinare le condotte, esaminare i sistemi di organizzazione degli uffici, non si vede come possa restare tanto estraneo al momento formativo»[9]. Si potrebbe brevemente replicare che proprio nel fatto che il Csm ha quelle competenze sta la ragione fondamentale per cui la legge ha affidato la formazione ad altro organo del tutto autonomo. L’intervento del presidente della Sesta Commissione si conclude auspicando almeno un più penetrante controllo del Csm sull’attività della Scuola, dal momento che non sembra imminente una riforma delle attuali competenze in materia di formazione dei magistrati. Tra i “temi di stretta attualità” da discutere prioritariamente negli incontri tra Scuola e Csm vi sarebbe «la necessità di rivedere i deficit che sono stati riscontrati nei corsi di formazione dei dirigenti relativi ai profili ordinamentali e deontologici». Ho già mostrato come un giudizio meditato sui corsi per aspiranti dirigenti sia complesso e come sia crescente l’apprezzamento dei partecipanti. Ma questo non toglie che si possa e si debba intervenire da parte della Scuola, secondo le linee elaborate dal Csm, per migliorarne la struttura.
Proprio una lettura costituzionalmente orientata delle norme imporrebbe di ritenere che chi si occupa dello status dei magistrati non dovrebbe occuparsi della loro formazione, la quale postula un’ampia libertà di insegnamento e l’apertura alle diverse visioni della società che solo un’istituzione autonoma è in grado di garantire. E non va infine dimenticato che secondo l’articolo 33 della Costituzione «l’arte e la scienza sono libere e libero ne é l’insegnamento e che ... alle istituzioni di alta cultura è garantita piena autonomia»’.
6. La necessaria unità di intenti
Si potrebbe pensare che le vivaci discussioni nate intorno alla Scuola e alla sua autonomia siano il segno di un rinnovato interesse per la formazione dei magistrati, per la loro indispensabile preparazione tecnica e giuridica e soprattutto per la consapevolezza etica del ruolo che il magistrato ha nelle istituzioni e nella società. In realtà sorge qualche dubbio sulla genuinità di questo interesse, quando si pensa alle discussioni sorte intorno al corso sulla «giustizia riparativa» nel quale sarebbero dovuti intervenire anche Adriana Faranda e Franco Bonisoli. Il dibattito che ne è seguito ha costituito per alcuni occasione di contestazione dell’autonomia della Scuola e delle sue scelte formative. Ora non c’è dubbio che le scelte della Scuola si possano e si debbano discutere e, anzi, che questo dibattito sia assai fecondo per la giustizia e per la cultura dei magistrati. Purché resti ferma la libertà e l’autonomia della Scuola nell’operare le sue scelte per le quali le viene attribuita una competenza esclusiva. La Scuola ha bisogno del contributo di tutti per operare meglio, ma non ha bisogno di un tutore. Un’idea, questa, che non è stata condivisa dal Comitato di presidenza del Csm che, con un intervento inaudito ha invitato il Comitato direttivo della Scuola ad abolire la sessione del corso con Faranda e Bonisoli. Certamente il Comitato non ha esercitato una competenza propria, ma semmai del Csm (e anche questa era assai discutibile).
Questo clima di confusa rivendicazione di competenze che non stanno scritte nella legge, e meno che mai nella Costituzione, rischia di travolgere anche la formazione degli aspiranti dirigenti. La partita è troppo delicata per essere lasciata ai desideri di straripamento di questo o quel componente delle istituzioni interessate. Le competenze di ciascuno sono così ben definite ed impegnative che occorre il massimo sforzo per esercitarle al meglio, da parte di tutti. C’è bisogno di una grande concordia di intenti e di lucide sinergie che, da un lato, consentano al Csm di indicare gli obiettivi della formazione dei dirigenti e di operare discrezionalmente le scelte migliori in ordine agli incarichi direttivi e, dall’altro, mettano la Scuola della magistratura in condizioni di formare al meglio i magistrati che saranno chiamati a ricoprire incarichi così delicati.
[1] B. Deidda, La formazione degli aspiranti dirigenti, in Relazione del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura sull’attività svolta negli anni 2012-2015, Roma, 6 gennaio 2016.
[2] Si veda in questo numero il lavoro di M. Guglielmi e G. Fiorentino
[3] Si vedano ad esempio le valutazioni dei corsi tenuti nei mesi di gennaio e febbraio 2016, in generale ampiamente positive.
[4] Vedi Gugliemi-Fiorentino, cit.
[5] Vedi ad esempio la Raccomandazione CM/Rec (2010)12 del Comitato dei ministri del Consiglio di Europa in materia di indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici.
[6] Si veda il bell’intervento del prof. Gaetano Silvestri, presidente della Scuola, svolto presso la sala conferenze del Csm al Convegno su Le prospettive della formazione dei magistrati nel quadriennio 2016-2020.
[7] Si veda l’intervento di Luca Palamara nel già citato Convegno sulle prospettive della formazione dei magistrati nel quadriennio 2016-2020.
[8] Si veda al riguardo l’intervento del Presidente Valerio Onida che apre questo numero della Rivista.
[9] L.Palamara, cit.