Per una nuova cultura del giudice: gli obiettivi della formazione dei magistrati
L’autore evidenzia la necessità di un nuovo approccio nella formazione culturale del magistrato, che, oltrepassando gli steccati imposti dai formalismi della tradizione giuridica positivistica, incapace di affrontare esaustivamente la crescente complessità del reale, deve fare proprio, nell’attività di interpretazione delle norme, l’insegnamento delle altre scienze umane e sociali, a partire da quelle storiche e filosofiche, in modo da (ri)costruire, aggiornandola, quella figura di “giudice umanista”, che si colloca nell’alveo della cultura giuridica italiana ed europea, soprattutto di matrice illuministica.
Appare ormai definitivamente superata l’idea (invero dura a morire) che il sapere del giurista ed, in particolare del giudice, debba essere confinato nei recinti della dimensione positivistica e della interpretazione tecnico-giuridica.
Applicare il diritto, attraverso il contributo delle altre scienze umane e sociali, consente di usufruire di un approccio esterno utile a comprendere i fenomeni ricondotti nello spazio del processo, il cui divenire è immerso in un contesto sociale e politico, dal quale non è possibile staccarsi.
Ciò è particolarmente vero per il giudice, chiamato a confrontarsi quotidianamente con i problemi, non solo tecnici, ma anche culturali, posti dall’interpretazione del diritto positivo.
Il diritto moderno è segnato, infatti, sin dalla sua nascita, dalla contrapposizione e dalla convivenza dialettica tra leggi e giudici, cioè tra il potere legislativo ed il potere giudiziario.
Anche in paesi di common law, come l’Inghilterra o gli Stati Uniti d’America, l’intervento legislativo non è sparito, anzi si è irrobustito, spesso assumendo le forme di una vera e propria codificazione; per converso nei paesi di civil law è cresciuto in modo esponenziale il ruolo “creativo” della giurisprudenza in ogni branca del diritto (stante il valore, di fatto vincolante, riconosciuto ai precedenti giurisprudenziali delle Corti superiori), con la conseguenza che ad essa va ormai riconosciuto, di fatto, il ruolo di vera e propria fonte di produzione del diritto.
Ciò è accaduto perché la legge positiva e l’interpretazione giurisprudenziale corrispondono a due insopprimibili esigenze: la certezza del diritto e la necessità di evitare il distacco del diritto dalla società.
Intese in questo senso la legge e l’attività interpretativa dei giudici non costituiscono, per dirla con Paolo Grossi, «mitologie giuridiche della modernità», perché forniscono, sul piano giuridico, risposte eternamente valide a problemi profondamente radicati nelle società politiche moderne e contemporanee, per cui è possibile sostenere che più una società diventa complessa, più articolate e frammentate si manifestano le issues coinvolte dall’azione dei poteri, pubblici e privati, che operano al suo interno e, dunque, maggiormente avvertita sarà la necessità di un’azione comune della legislazione e della giurisprudenza perché tali interessi possano trovare adeguata considerazione e tutela, attraverso una ponderata valutazione dell’esatto significato e della portata degli interessi in gioco, che implica una pre-conoscenza del reale.
Una pericolosa illusione, piuttosto, sarebbe credere che la vivacità del diritto e la pluralità delle istituzioni che lo producono possano essere contenute esclusivamente in una concezione formalistica della legge e che la disciplina giuridica dei rapporti sociali possa essere soddisfatta esclusivamente dalla produzione normativa o giurisprudenziale, in un rapporto di alternatività.
La Storia ci insegna che non è mai stato così, che legge e giurisprudenza sono “condannate” a percorrere insieme lo stesso percorso, anche se su veicoli diversi.
Ancora una volta soccorre l’insegnamento di Grossi, che, nel suo «Società, Diritto, Stato», nel rivendicare la sua dimensione di giurista, proprio in quanto storico del diritto, ha lucidamente individuato i limiti del cultore del diritto positivo, dedito ad «operazioni di carattere logico ermeneutico con una limitazione eccessiva del suo orizzonte e con la preclusione di arricchimenti che possono provenire soltanto di là dal testo; con una funzione, cioè, estremamente ridotta», laddove l’utilizzazione degli strumenti della cultura umanistica, ed in primo luogo di quella storica, non sottratti al confronto con lo specifico del sapere giuridico, che si esprime attraverso una propria tecnica, realizza un «triplice salvataggio culturale: per la scienza giuridica, innanzi tutto; più specificamente per lo storico del diritto e per l’analista del diritto positivo, sottratti – l’uno e l’altro – dall’esilio d’ombra in cui può confinarli, per un verso l’erudizione, per l’altro l’eségesi normativa».
D’altra parte, come pure è stato notato, non può negarsi che la sensibilità per i problemi legati alla giustizia ed alla funzione giurisdizionale chiamata a darvi corpo, siano stati tanto più attentamente considerati, quanto più la dimensione storica sia stata ad essi presente. Basterebbe richiamare nomi settecenteschi come Cesare Beccaria, Gaetano Filangieri, Mario Pagano, Charles Louis Montesquieu, per intendere come l’analisi delle criticità connesse al delicato esercizio della funzione destinata ad amministrare la giustizia abbia raggiunto livelli di elevata consapevolezza, quando sia stata svolta nella prospettiva della lunga durata: una prospettiva lungo la quale è visibile il sorgere, lo svilupparsi ed il sedimentarsi di disfunzioni che, colte nella dimensione del presente, spesso nemmeno vengono percepite nella loro ricca complessità. Grazie ad approfondite indagini sul divenire delle istituzioni, non solo giudiziarie, fu possibile a quegli studiosi anzitutto di scorgere le disfunzioni nelle quali vivevano e poi d’intervenirvi, concependo veri e propri piani per rimediarvi.
Purtroppo, quella sensibilità storicizzante per i temi della giustizia, è andata dissolvendosi nel corso dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto per l’affermarsi – con pochissime eccezioni – pressoché acritico del positivismo giuridico con i suoi formalismi, potenziati dal trionfo della mentalità idealistica ed antipragmatica propria della nostra cultura giuridica.
Cruciale, inoltre, è il tema delle percezioni della giustizia.
Come ha in più occasioni evidenziato Gennaro Carillo (che, in qualità di esperto formatore, cura il corso sulle rappresentazioni della giustizia presso la Scuola della magistratura), partendo dalle riflessioni di Pierre Rosanvallon su potere giudiziario e contro-democrazia, se il potere giudiziario, che resta un potere senza delega, svolge da tempo una funzione di supplenza rispetto a quello legislativo, è evidente che esso debba essere sottoposto a un controllo sempre più pervasivo da parte dell’opinione pubblica, il cui processo di formazione corre il rischio di essere inquinato da fattori manipolativi.
Perché opinione pubblica e giustizia svolgano efficacemente i propri rispettivi ruoli, è necessario, pertanto, nota opportunamente Carillo, che aumenti, in entrambe, il tasso di consapevolezza della complessità dei problemi, concludendo, in maniera affatto convincente, che la coscienza delle rappresentazioni e delle percezioni della giustizia deve far parte di quella che, parafrasando Michel Foucault, egli chiama la «cassetta degli attrezzi» del giudice, in cui vanno custoditi anche gli strumenti critici di analisi dei contesti e messa in discussione delle proprie prospettive operative.
Può, dunque, affermarsi che oggi le attività formative devono, nel loro complesso, adeguarsi ad un nuovo modello di magistrato, che non può non tenere conto della evoluzione della società e della contaminazione del diritto con le variegate forme di espressione dello spirito umano.
In particolare alla formazione del magistrato è indispensabile un approccio multiculturale, che metta in evidenza i profondi legami esistenti tra il diritto, le sue regole e il suo linguaggio, con il sistema di valori circostante, vale a dire il contesto culturale e sociale in cui essi operano, come intuito profeticamente dal movimento Law and Literature, sorto negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, e tornato di prepotente attualità nella riflessione statunitense sull’educazione del giurista negli anni ‘70 del XX secolo con opere come The Legal Immagination: Studies in the Nature of Legal Thought and Expression di James Boyd White.
Sotto questo profilo prende corpo la figura del giudice come storyteller, cioè, letteralmente, narratore di storie (si veda, al riguardo, anche per la ricchezza delle note bibliografiche, il recente articolo, cui è stato dato un certo risalto dalla stampa nazionale, di Alex B. Long, docente di diritto presso la University of Tennessee college of law, The Freewheelin’ Judiciary: a Bob Dylan Anthology, pubblicato sul Fordham Urban Law Journal).
Prospettiva, quella del giudice come il più importante dei soggetti che, con la loro “narrazione”, contribuiscono alla costruzione dei fatti, formanti oggetto dell’accertamento giudiziale, su cui insiste in particolar modo Michele Taruffo, nel suo fondamentale La semplice verità – Il giudice e la costruzione dei fatti, evidenziando la molteplicità dei significati e, quindi, delle discipline, che presiedono alla costruzione delle narrazioni da parte dei soggetti del processo.
La sensibilità di cui si è detto sino ad ora, mi sembra stia trovando spazio nei percorsi formativi organizzati dalla Scuola superiore della magistratura, dove, non solo da tempo opera con successo il corso sulle rappresentazioni della giustizia, cui si accennava in precedenza, ma sono stati meritoriamente attivati, di recente, tra gli altri, anche un corso dedicato alla «storia della giustizia e lavoro giudiziario moderno», affidato, in qualità di esperto formatore, ad Adriano Prosperi, uno dei più importanti storici (non del diritto) italiani, ed uno sul «linguaggio della giurisdizione».
Su questa linea, dunque, bisogna insistere, con un accorgimento che mi permetto di suggerire.
Il contributo dei portatori di un sapere diverso da quello tecnico-giuridico non dovrebbe essere tenuto separato da quello degli interpreti del diritto positivo, ma deve affiancarsi a quest’ultimo, in una dimensione dialettica, che consenta a chi giurista positivo non è di aiutare il giudice nella costruzione della sua narrazione processuale, attraverso la ricognizione di tutte le implicazioni culturali coinvolte nel processo di interpretazione delle norme giuridiche, da condurre in contraddittorio con i portatori del sapere giuridico positivo.
Ciò appare evidente non solo in alcune materie particolarmente sensibili alle influenze esterne, come quando sono in gioco la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto di critica politica (una più meditata riflessione sul ruolo dell’intellettuale nella società odierna avrebbe potuto forse evitare l’azzardato esercizio dell’azione penale nei confronti dello scrittore Erri De Luca) o nei casi in cui assumono particolare rilievo la formazione culturale e religiosa dei soggetti attivi del reato, come nei reati in materia di terrorismo o in quello di riduzione in schiavitù commesso all’interno di comunità ispirate a valori diversi da quelli della società laica occidentale, che richiedono necessariamente, pena l’incomprensione, un approccio fondato sul multiculturalismo, come suggerisce da tempo Mario Ricca.
Ma anche per tutte le materia oggetto dell’indagine giudiziaria, secondo una metodologia didattica fatta propria per il corso sulla criminalità organizzata, coordinato da Franco Roberti (non a caso attento conoscitore del movimento Law e Literature), che dedica uno specifico spazio, al suo interno, alla riflessione storica, politica e giornalistica sulle organizzazioni criminali.