Perché la Scuola della magistratura deve essere autonoma
Le condizioni di una buona giustizia sono condizioni di metodo, di modo di operare e di sostanza: certamente una buona competenza e una buona preparazione tecnica che però devono unirsi alla capacità di ascolto da parte del magistrato e all’attitudine a conoscere il contesto umano e sociale in cui si muove e le sue caratteristiche. L’apprezzamento delle realtà economiche e culturali, che costituiscono il contesto nel quale il giudizio si colloca, non può mai restare estraneo al giudicante. Dunque un ruolo fondamentale per una giustizia giusta ha la formazione del magistrato, che non può chiudersi nei confini di un mondo a sé stante, ma deve aprirsi al mondo che circonda quello del diritto. Perciò il “datore di lavoro” che deve occuparsi della formazione dei magistrati non è il Csm o l’istituzione giudiziaria, ma la società in cui il magistrato amministra giustizia. Ne consegue l’esigenza che la Scuola, cui è affidato il compito di curare la formazione, goda di effettiva autonomia e responsabilità.
Il primo quadriennio di vita della Scuola ha visto molte novità di rilievo, ma è stato caratterizzato anche dal riaffiorare di spinte alla riappropriazione di poteri di controllo sulla Scuola da parte del Consiglio, come dimostra anche la decisione contra legem del Csm di considerare come necessario il rinnovo di tutti i componenti del Comitato direttivo, compresi quelli che non avevano ancora compiuto il quadriennio.
1. Chi è il “datore di lavoro” dei magistrati?
Qualcuno ha detto che la formazione dei magistrati non può non far capo al Consiglio superiore, organo di governo autonomo del personale di magistratura, così come non può non far capo all’imprenditore la formazione professionale dei suoi dipendenti.
Ma chi è il “datore di lavoro” dei magistrati? Facile rispondere “lo Stato”. Ma chi è, dove si incarna lo Stato che assume e fa lavorare i magistrati? Qual è l’organo, o quali sono gli organi dello Stato abilitati a stabilire che cosa vuole lo Stato dai “suoi” magistrati?
Rispondere “il legislatore”, cioè gli organi che deliberano le leggi destinate ad essere applicate dagli organi della giurisdizione, non è sbagliato, ma è chiaramente insufficiente: una volta che si concordi – come non si può non concordare – sulla circostanza che il giudicare non si riduce all’operazione puramente logica e meccanica di dedurre la conclusione da una premessa maggiore data (la norma positiva) e da una premessa minore oggetto di semplice oggettivo accertamento (il fatto). Il giudice «bocca della legge», espressione di un «potere nullo», non appartiene alla realtà, come non vi appartiene l’idea che l’interpretazione giurisprudenziale delle leggi sia un’operazione dal risultato necessariamente univoco (ogni dubbio andrebbe allora risolto dal legislatore: l’antico référé législatif).
E allora? Una risposta corrente (anch’essa non sbagliata, ma insufficiente) è: la funzione giudiziaria va esercitata dal magistrato in condizioni di indipendenza (da ogni potere pubblico o privato esterno al giudicante) e di imparzialità (assenza di legami specifici con le parti in giudizio). Ciò richiede uno status del magistrato, garantire il quale è compito del Consiglio superiore, che esercita i poteri tipici del governo del personale (assunzioni, carriera, provvedimenti disciplinari: art. 105 della Costituzione).
Ma indipendenza e imparzialità sono condizioni necessarie, non sufficienti, di un “buon” esercizio della giurisdizione, del “fare giustizia”.
2. Le condizioni di una “buona” giustizia
Quali sono le altre condizioni? Sono condizioni di metodo, di modo di operare, e condizioni di sostanza.
Fra le prime, le attitudini del magistrato alla relazione e all’ascolto, essenziali perché il suo lavoro non si svolge in solitudine, ma comporta continua interazione con altre persone (con gli altri magistrati nei collegi e negli uffici, con le parti, con gli altri operatori della giustizia), e le modalità concrete di questa interazione influiscono assai sul risultato; ma anche attitudini a realizzare un processo decisionale efficace (sia come individuo, sia come membro di un collegio o come componente di un ufficio). L’attitudine alla collegialità, ad esempio, e più ampiamente la capacità di operare tenendo conto di essere parte di una organizzazione che va al di là del singolo magistrato, sono attitudini necessarie e preziose, tanto più in un contesto nel quale esigenze di rapidità e di risposta ad un contenzioso sovrabbondante spingono verso l’ampliamento di forme monocratiche di esercizio della funzione, e insieme richiedono modalità “efficienti” di lavoro.
Queste sono capacità che si acquistano e si affinano, soprattutto nei primi anni di esercizio della professione (più difficile è cambiare abitudini già acquisite e consolidate), non solo facendo esperienza, ma anche partecipando ad un ambiente formativo in cui esse siano valorizzate e promosse: di qui l’importanza soprattutto della formazione iniziale.
Poi ci sono le condizioni di sostanza. Certo, la competenza: un giudice senza solide basi di preparazione, o che non si aggiorna, non può essere un buon giudice. Ma non si tratta solo di competenza e capacità “tecnica”.
L’arte del “fare giustizia” non si esaurisce nel dominio delle tecniche interpretative e applicative delle norme: da trattare alla stessa stregua in cui un meccanico chiamato a montare una macchina, secondo un disegno dato e con i “pezzi” dati, possiede la capacità di far combaciare questi, metterli nell’ordine giusto, fissare viti e bulloni, e così via. La giustizia è un risultato, che si serve bensì del materiale e delle logiche normative, ma in vista dell’obiettivo di dare a rapporti concreti un assetto conforme a principi e regole “giuste”, cioè rispondente a un equilibrio equo e ragionevole fra interessi e posizioni delle persone in carne ed ossa coinvolte in tali rapporti.
Ars boni et equi, dicevano i latini: dove il bonum e l’equum richiamano non ad assetti astrattamente e interamente predefiniti, ma a soluzioni e misure che appaiano le più conformi in concreto al “senso di giustizia”. In certi casi limitati, come si sa, l’equità è addirittura l’unica regola del decidere (giudizio di equità); ma assai spesso giudizi di “equità” o di conformità a clausole generali (dalla buona fede alla personalità dei soggetti coinvolti) entrano per regola legale nelle valutazioni cui il giudice è chiamato.
Come si forma, nell’ambito della cultura professionale del magistrato, l’attitudine a rendere giustizia in questo senso più comprensivo?
Non è solo – ma è anche - questione di equilibrio della personalità, di atteggiamento psichico, di formazione umana e spirituale: tutti elementi che certo non si misurano in concreto valutando un tema di concorso. Il che apre il delicato tema dei criteri di selezione degli aspiranti magistrati e dei criteri di valutazione dei magistrati durante la loro vita professionale: rimessi, i primi, forse, alla capacità di un legislatore di introdurre – con tutte le cautele del caso – elementi di attenzione a questi aspetti nei processi selettivi in vista dell’ingresso in magistratura; rimessi, i secondi, essenzialmente alla capacità dei titolari di uffici direttivi di valutare anche sotto questi aspetti i magistrati del loro ufficio, oltre che – sia pure anche qui con tutte le cautele del caso – a forme di concorso (in senso largo) degli “utenti” alla complessiva valutazione della professionalità dei singoli magistrati.
Ma, ripeto, non di solo questo si tratta. Più in generale la ricerca e la individuazione della soluzione “giusta” del caso concreto richiede sempre l’attitudine a “conoscere”, oltre e prima delle norme pertinenti, il contesto umano e sociale di cui il rapporto controverso fa parte e da cui esso è condizionato, e le sue caratteristiche. Non solo vi sono valutazioni (di fatto e di diritto) che richiedono di passare attraverso l’impiego di “saperi” diversi da quello tecnico-giuridico, di regola forniti dai periti, rispetto ai quali il giudice mantiene comunque un ruolo di controllo e di supervisione (judex peritus peritorum). Ma più in generale l’apprezzamento delle realtà sociali, economiche, culturali, che costituiscono il contesto nel quale il giudizio si colloca, non può mai restare estraneo al giudicante (ma anche al requirente): questi deve saper collocare il caso e il giudizio su di esso in tale contesto, essendo in grado di conoscerlo e di comprenderlo.
Solo tale comprensione consente al giudice di cogliere fino in fondo la “domanda di giustizia” che verso di lui si rivolge, non esauribile nei termini delle domande filtrate dai mezzi processuali. Comprensione che richiede dialogo con tutte le “voci” in cui quella realtà si esprime, e confronto attivo con tutti coloro che operano nel campo: gli altri magistrati, e anche gli altri operatori della giustizia, al di là dell’esperienza processuale in cui questo confronto opera quotidianamente.
Il rischio di ignorare la realtà si traduce nel vizio – non a caso frequente in certa giurisprudenza – del formalismo giuridico: quello che coltiva, come scriveva Piero Calamandrei, «idoli inesorabili, ai quali, pur di rispettare la giurisprudenza consolidata, non era vietato sacrificare vittime umane» (Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1989, p. 183).
Né si potrebbe sostenere in contrario che ai nostri giorni le norme di origine legislativa tendono a espandersi e a occupare sempre più posto, così che c’è sempre meno spazio – al di fuori della inaccettabile rivendicazione di un “diritto libero” – per il sovrapporsi di considerazioni sostanziali a quelle dedotte dalla fedele applicazione della legge. In verità, la “forma” delle leggi non può mai prevalere sulla realtà al punto da farne trascurare i connotati concreti. La forza dei principi, in particolare dei principi costituzionali e derivanti da fonti sovranazionali (come le convenzioni sui diritti), impone di dare ingresso alle interpretazioni della legge che meglio ne conformano ad essi il significato (l’interpretazione costituzionalmente o convenzionalmente orientata), e, in caso di impossibilità per incompatibilità testuale, di attivare le procedure attraverso le quali la disposizione legislativa può essere espunta dal novero dei “materiali” di cui il giudice si serve per giudicare. E i principi, come si sa, non si esauriscono in enunciazioni verbali confrontabili con altre, ma esprimono significati che si rifanno ad esigenze sostanziali e a un contesto giurisprudenziale, da utilizzare, in termini di continuità, di distinzione (la tecnica del distinguishing) e se del caso di innovazione, come un “patrimonio di senso” a cui il giudice deve continuamente attingere.
Ecco perché la formazione e l’aggiornamento professionali del magistrato non possono mai chiudersi nei confini di un “mondo” a sé stante, sia esso pure quello del “corpo” della magistratura e della relativa giurisprudenza, ma deve continuamente aprirsi al mondo che circonda, innerva e percorre quello del diritto.
Il “datore di lavoro” che deve occuparsi della formazione, iniziale e continua, dei magistrati non è dunque l’istituzione giudiziaria in quanto tale e tanto meno il Consiglio superiore, ma è, si potrebbe dire, la società in cui il magistrato amministra o aspira ad amministrare la giustizia.
3. La Scuola della magistratura e la sua autonomia
Di qui l’esigenza che l’istituzione cui è affidato il compito di organizzare e curare tale formazione – la Scuola superiore della magistratura – goda di una sua effettiva autonomia e responsabilità.
La istituzione della Scuola è stata, da questo punto di vista, una significativa novità nell’evoluzione dell’Ordinamento giudiziario. Per molto tempo, come si sa, essa è rimasta sulla carta, così che quando il primo direttivo si insediò, il 24 novembre 2011 (a cinque anni di distanza dal decreto istitutivo), la Scuola iniziò il suo percorso fra lo scetticismo generale, senza sede, senza personale, senza bilancio autonomo. Risolti i problemi logistici e pratici (e in ciò la Scuola ha potuto fruire soprattutto dell’appoggio fattivo dell’allora Ministro della giustizia Paola Severino), essa si trovò subito a far fronte al nuovo ordinamento del tirocinio dei neo-magistrati, che affidava alla Scuola la gestione di un terzo del tempo di questo, e subito dopo all’eredità dei corsi di formazione permanente, che fino ad allora erano stati gestiti dal Csm.
Il primo impegno (che ha coinvolto in tre anni circa mille magistrati in tirocinio e decine di docenti e di tutori), comportava non facili problemi di armonizzazione dei calendari, di raccordo con le strutture operanti in sede distrettuale, e soprattutto di risposta ad un bisogno di formazione nuovo, che non riproducesse percorsi solo teorici, ripetitivi di esperienze già ampiamente attraversate dai vincitori del concorso, né si identificasse con l’”imparare facendo” che caratterizza il tirocinio presso gli uffici. È qui soprattutto che trova posto la sfida di percorsi formativi attenti a far posto al mondo reale che sta sotto il diritto e lo nutre. Approfondimenti per materia, confronto con protagonisti della società, esperienze concrete presso istituzioni diverse da quella giudiziaria ma con essa correlate (dal carcere alle pubbliche amministrazioni), riflessioni sulla deontologia professionale, incontro con aspetti meno “quotidiani” ma essenziali dell’esperienza giudiziaria (dai problemi del linguaggio a quelli del rapporto fra giudici comuni e giustizia costituzionale e sovranazionale): tutto ciò trova nella Scuola la sede naturale e dedicata. Si aggiunge ancora l’insostituibile occasione di scambio e confronto fra neo-magistrati provenienti da tutta Italia e destinati a prendere servizio in ogni parte del Paese.
C’è chi dice che sei mesi di tirocinio presso la Scuola sono troppi: è semmai, vero il contrario, se si guarda all’esigenza di una formazione “integrale”.
L’impegno della formazione permanente era meno nuovo, avvalendosi dell’esperienza pluriennale del Csm, di cui la Scuola ha in larga parte ripercorso moduli e tradizione, anche qui tuttavia cercando di introdurre proposte culturali innovative, nella stessa logica di una formazione “integrale” e non solo tecnico-specialistica. L’offerta formativa è cresciuta quantitativamente in modo assai significativo, in parallelo con una domanda anch’essa in crescita. Fra gli elementi relativamente nuovi in questo campo vanno ricordati sia l’allargamento cospicuo, pur se ancora forse insufficiente, dell’offerta formativa rivolta ai magistrati onorari (giudici di pace, Got e Vpo nonché esperti delle sezioni specializzate), e il raccordo più stretto con i formatori decentrati, attraverso l’unificazione delle strutture distrettuali per la formazione dei magistrati togati e di quelli onorari, e l’inserimento di iniziative formative delle strutture decentrate nei programmi centrali, aperti anche ai magistrati degli altri distretti.
La formazione permanente a suo tempo curata dal Csm si articolava attraverso il ruolo attribuito al Comitato scientifico (composto anch’esso in prevalenza da magistrati), la IX commissione e il plenum: la storia dice che in questo raccordo non era infrequente che la scelta dei docenti passasse anche attraverso l’esercizio di poteri di veto o di “controllo attivo” dell’organo di governo.
La Scuola si è avvalsa delle proposte di esperti formatori da essa scelti con criteri di larga rotazione, formulate d’intesa con i membri del direttivo responsabili dei singoli corsi, portate in direttivo (secondo la legge in numero doppio rispetto ai relatori da designare) e da questo approvate, non sempre senza discussioni e contrasti (che peraltro a chi scrive sono apparsi per lo più ancorati a fattori “regionali” piuttosto che “politici” o “correntizi”). La rotazione è stata piuttosto ampia, coinvolgendo ogni anno quasi un migliaio di nomi.
Il “prodotto” più recente della Scuola sono stati i corsi per aspiranti dirigenti (inaugurati nel 2015), che si distinguono dalle altre attività formative sia perché hanno oggetti precisi indicati dalla legge (problemi di organizzazione degli uffici, utilizzo di strumenti e procedure informatiche), sia perché la loro frequenza è condizione legale per accedere ai posti direttivi, sia infine perché alla frequenza consegue la formulazione da parte del direttivo della Scuola di “elementi di valutazione” trasmessi al Csm in vista delle procedure selettive per le nomine. Tuttavia anche in questo campo (che ha comportato la necessità di “ideare”, con l’ausilio di esperti di scienze organizzative, e di sperimentare, moduli nuovi, che certamente richiederanno nel tempo di essere verificati e sviluppati) la Scuola ha operato tenendo ben distinte le competenze proprie da quelle del Csm: sia chiedendo a quest’ultimo di stabilire l’ordine di ammissione ai corsi (per non interferire indebitamente con i procedimenti di nomina), sia legando strettamente gli “elementi di valutazione” trasmessi al Csm all’attività didattica svolta, così da allontanare ogni ipotesi o anche solo ogni possibile sospetto di indebita influenza sulle scelte spettanti al Consiglio (e al Ministro, in sede di concerto sulle proposte) per le nomine dei capi degli uffici.
In tutti gli ambiti considerati la Scuola ha operato nella consapevolezza dei propri compiti formativi e della propria autonomia, sancita dalla legge, e dei relativi limiti.
4. La Scuola e il Consiglio superiore: segnali di una tendenza involutiva
Le istituzioni di governo del personale di magistratura (il Csm) e di governo del servizio giustizia (il Ministero) hanno infatti a loro volta precise competenze in materia di formazione, essendo le fonti di nomina del direttivo della Scuola ed avendo altresì il compito di dettare linee programmatiche sulla formazione; così come hanno qualcosa da dire sul tema anche altre istituzioni (è significativo che la legge preveda, a monte della programmazione formativa della Scuola, “proposte” - fino ad oggi peraltro pressochè inesistenti - del Consiglio nazionale forense e del Consiglio universitario nazionale; e affidi alla Scuola anche compiti di formazione congiunta dei magistrati con altri operatori giudiziari, in collaborazione con altre istituzioni).
Le linee programmatiche – che in questi anni si sono espresse con documenti sempre attentamente valutati dalla Scuola, e con contenuti abbastanza generici, talvolta più concreti nel caso del Ministro – si pongono evidentemente a monte della programmazione dei contenuti dei corsi. Non investono e non possono investire – al di là di generali indicazioni metodologiche collegate agli obiettivi indicati – la determinazione concreta delle modalità di svolgimento dei singoli corsi e soprattutto delle persone chiamate a collaborare, scelte che intervengono a valle del programma formativo. Questo è il terreno proprio della Scuola.
Eliminare o ridurre l’autonomia di questa significherebbe da un lato allontanare la formazione dei magistrati dalla società (la vera “datrice di lavoro” dei magistrati) e ricondurla ad un ambito categoriale o corporativo, quindi autoreferenziale; dall’altro condizionare decisioni tipicamente operative, come la “costruzione” delle sessioni di formazione e l’attuazione delle concrete scelte didattiche, a scelte degli organi di governo.
Non si può negare che di recente siano affiorate o riaffiorate spinte nella direzione di una “riappropriazione” da parte del Consiglio di poteri di “controllo” sulla Scuola. Un segnale è apparso il recente intervento del Comitato di presidenza del Csm su una specifica iniziativa di formazione della Scuola, e il dibattito che ne è seguito, con interventi autorevoli che si muovevano esplicitamente in quel senso.
A questa luce acquista significato anche la sorprendente scelta del Csm, in occasione dell’avvio del procedimento per il rinnovo dei membri del direttivo della Scuola, e nonostante il dissenso sul punto del Ministro (che si è però poi anch’egli adeguato, significativamente senza motivare, e dunque solo per evitare uno scontro istituzionale) di considerare in scadenza tutti i precedenti componenti, compresi i due che in realtà, essendo subentrati in corso di mandato a membri dimissionari, avevano compiuto solo una parte minore del mandato quadriennale previsto dalla legge (l’art. 6, comma 3, del decreto legislativo istitutivo della Scuola precisa infatti che «i componenti del Comitato direttivo [non il Comitato] sono nominati per un periodo di quattro anni» e «non possono essere immediatamente rinnovati», senza prevedere affatto che i membri nominati in sostituzione di quelli anticipatamente dimissionari restino in carica solo fino al compimento del quadriennio in corso): così che sostituzioni anticipate darebbero luogo a incarichi che potrebbero durare anche solo pochi mesi. Una scelta contra legem che appare mossa anch’essa da un desiderio di riappropriarsi del controllo della Scuola, anche se il Csm nomina solo sette sui dodici componenti del direttivo (ma si sa che la presenza dei “laici” – quattro su cinque di nomina ministeriale - difficilmente riesce a riequilibrare pienamente quella dei magistrati, nominati in larghissima parte dal Csm, che a differenza dei primi sono collocati fuori ruolo per la durata dell’incarico, esplicato dunque a tempo pieno).
Anche l’affacciarsi di proposte per riportare a Roma la sede della Scuola avrebbe implicitamente un significato analogo – se non altro per il suo valore simbolico; e si sa che nel mondo delle istituzioni i simboli hanno il loro peso (si pensi, ad esempio, alla significativa scelta della Germania di collocare la Corte costituzionale federale, sia prima che dopo la riunificazione, in una città diversa da quella in cui hanno sede il Parlamento e il Governo).
Se poi le singole iniziative formative, oggi autonomamente realizzate dalla Scuola, dovessero tornare sotto il controllo sindacatorio del Csm (sul contenuto specifico del corso o sulla scelta dei relatori o degli interventori), il rischio più che concreto sarebbe quello di dare spazio a “censure” o a pretese ispirate da ragioni tutte interne agli equilibri di categoria o alle maggioranze che si formano in seno al Consiglio.
Di certo, non è ciò che serve alla formazione dei magistrati.
Per fortuna, al nuovo direttivo della Scuola non mancano né le qualità né l’autorevolezza per opporsi, al bisogno, ad una simile deriva.