La formazione iniziale vista da un giovane magistrato
Il tirocinio iniziale rappresenta un’occasione irripetibile per i giovani che, raggiunto un traguardo tanto agognato, affilano le armi prima di entrare nell’agone della giurisdizione. Fondamentale è, in questo periodo – che l’autore non esita a definire magico – saper cogliere l’essenza del bisogno formativo, da soddisfare nell’esclusivo interesse dei destinatari, privilegiando un approccio pratico-casistico e senza indulgere nella reiterazione di schemi più consoni agli ambienti accademici.
Una efficace azione formativa rifugge dal conformismo interpretativo o dalla necessaria individuazione di soluzioni universalmente condivise per privilegiare, invece, l’abitudine alla riflessione critica ed al franco confronto dialettico.
Il magistrato che la Scuola deve concorrere a forgiare coniuga l’attenzione alla intelligente ed equilibrata gestione del ruolo ed ai concreti e quotidiani profili applicativi con la tendenziale adesione ad uno dei modelli che la storia giudiziaria ci ha consegnato, efficace rimedio contro il pericolo di confinare l’esercizio della giurisdizione in una prospettiva di mero tecnicismo e, nondimeno, breve respiro.
Premessa
Non sono capace di scrivere fiumi di parole; il mio pensiero, al massimo, si struttura in capitoletti nei quali mettere nero su bianco le riflessioni sulla formazione iniziale che ho maturato nel periodo del tirocinio e che sto cercando di mettere meglio a fuoco nel corso della attività giurisdizionale.
Ovviamente, sono opinioni personali ma che spero possano, anche se non condivise, sollecitare il dibattito. Se così sarà, sarei di già molto contento.
La magia del periodo del tirocinio
Il periodo del tirocinio costituisce per tutti i nuovi magistrati un periodo magico: dopo l’abbuffata di nozioni, sentenze, articoli per la preparazione del concorso, i patemi d’animo per quella sentenza (che conoscevo, ma poi me la sono dimenticata...), la contentezza per essere in quella lista, insomma, dopo tutto questo, si apre un momento, unico nella vita di ogni magistrato, in cui si è sostanzialmente pagati per lo studio (una sorta di risarcimento, forse, per tutti gli anni in cui lo studio avveniva gratis et gratia Dei); tra l’altro (il che costituisce la principale fortuna), senza che nessuno ti metta troppa pressione e con molto tempo a disposizione per approfondire le tematiche che gli affidatari di volta in volta ci pongono.
In questo contesto, parlare di formazione potrebbe risultare superfluo, dato l’alto numero di dati immagazzinati e metabolizzati per la preparazione ad un concorso che, in genere, impone uno studio che va oltre il mero sforzo di acquisizione di nozioni istituzionali, privilegiando il loro confronto con specifiche problematiche emerse nella pratica.
Dunque, si potrebbe dire che così formati non si sia mai stati (e, ahinoi, forse non lo si sarà mai più).
Occorre quindi domandarsi quali possano essere i bisogni cui la formazione centrale (ed, oggi, quella della Scuola) deve rispondere.
I veri bisogni formativi dei Mot (e dei magistrati in genere)
La formazione iniziale (ma anche quella successiva) dovrebbe fornire gli strumenti operativi per padroneggiare le principali questioni che possano presentarsi nella futura attività giurisdizionale. Per fare un esempio: credo non interessi poi così tanto che l’ennesimo professore ci dica che cosa sia il possesso o il dolo eventuale, mentre maggiore interesse desterebbe l’analisi delle modalità di riconoscimento dell’uno e dell’altro, perché solo in questo modo riusciremmo a capire – in tempi brevi come questa frenesia efficientistica ormai impone (forse a scapito della qualità) ed anche con pochi elementi di fatto forniti dalle parti – che strada è destinato a prendere il giudizio.
Nella mia esperienza (dm del 2010), ricordo con piacere e gratitudine due colleghi relatori nel periodo della formazione centrale: uno incentrò tutta una lezione sulle notifiche in sede civile, portandoci esempi tratti dalla pratica quotidiana, e l’altro, in una chiarissima relazione, ci illustrò le principali tematiche sulle nullità in sede penale.
Quelle relazioni sono ancora nel mio cassetto, sempre pronte per saltare fuori nel caso in cui avessi qualche dubbio.
Quale metodologia per la formazione?
Altra questione è la metodologia.
Parafrasando le parole di un noto cantante, si potrebbe dire che «le lezioni frontali hanno fatto il loro tempo». Dopo otto ore di lezioni così strutturate, i caduti si contano a centinaia. Nessun dubbio sul risultato finale.
Uno strumento alternativo potrebbero essere le slides: in questo modo l’uditorio ha maggiore agio nel seguire il ragionamento del relatore, sempre che si abbia cura di evitare di inserire nella slide la relazione stessa, pena la sostanziale riproposizione della metodologia frontale sotto mentite spoglie.
Sarebbe molto più utile per l’uditorio che la presentazione fosse sviluppata per punti problematici e con l’enucleazione, per ognuno di essi, delle diverse soluzioni interpretative sostenute dalla dottrina e dalla giurisprudenza e, se possibile, alla luce del vaglio critico del relatore. L’effetto sarà sicuramente utile: il magistrato in tirocinio potrà, una volta al lavoro, già conoscere le tesi che si incontrano (e scontrano) in giurisprudenza ed in dottrina e, così, motivatamente prendere la propria posizione.
Se la formazione è un servizio, dovrebbero essere evitare scene imbarazzanti in cui professori universitari tentano di convincere i magistrati relatori, specie se provenienti dai ranghi della Cassazione, della bontà della loro tesi: un monologo, questo, che, al massimo, é utile all’autore, mentre per l’uditorio la distrazione (od un pisolino innocuo) costituisce difesa legittima, proporzionata e non violenta.
La citazione delle sentenze della Cassazione, ovvero il gioco della morra
Altra questione che, a mio avviso, merita attenzione attiene alla parossistica attenzione che, in taluni casi, si pone alla citazione delle sentenze della Corte di cassazione: il dibattito, in tali frangenti, si esaurisce in una lotta di numeri tra infinite sentenze della Suprema corte, non sorprendendosi certo nessuno del fatto, che da qualche parte, a ben vedere, ci sarà una sentenza che ne contraddice altre mille.
È forse banale ricordarlo, ma capita spesso che, rispetto ad un determinato problema, siano espresse posizioni differenti, tutte pienamente legittime e ragionevoli: l’essenziale non è chi lo ha detto e quando, ma, piuttosto, che cosa si è detto e quale ragionamento vi sia alle spalle.
Il rischio è che, altrimenti, tutto si riduca ad uno scontro di numeri che termina solo se, come nel gioco della morra, i contendenti si ritrovino a citare lo stesso numero di sentenza (salvo il rischio che essa abbia anche un terzo significato).
A mio modestissimo parere, la citazione delle sentenze della Cassazione, sempre comode, non può essere finalizzata a se stessa e dovrebbe, piuttosto, servire ad identificare i filoni della giurisprudenza su cui aprire un effettivo dibattito, specie se il relatore, con arguzia, è capace di segnalarti gli eventuali punti deboli di una o dell’altra pronunzia.
Allora, davvero, si potrà uscire dal convegno arricchiti: magari verrà sostenuta la tesi poi rivelatasi minoritaria ma, almeno, si sbaglierà, come diceva il solito cantante, «da professionisti», ovvero dopo avere argomentato la tesi (poi rivelatasi momentaneamente errata) in maniera onesta, umile e trasparente.
I trucchi del mestiere: ovvero come difendersi da se stessi, dagli avvocati e dalla Cancelleria
«Tribunale di Reggio Emilia, verbale dell’udienza del 27 aprile 2015. Davanti al giudice dott. Marini sono comparsi l’avv. X e l’avv. Y. Il giudice invita le parti a precisare le conclusioni. L’avv. X precisa come da atto di citazione e l’avv. Y come da comparsa. Le parti chiedono la concessione dei termini ex art. 190 cpc. Il giudice trattiene la causa a decisione ed assegna i termini di cui all’art. 190 cpc.».
Ottimo: il 15 agosto scadono i termini dei trenta giorni per il deposito della sentenza. Spiegalo poi alla fidanzata che devi tornare in Ufficio (ammesso che la beva).
Sono errori che si fanno una volta sola, la seconda te lo ricordi.
Però, nessuno mai ha richiamato la tua attenzione sulla necessità di calibrare la tua agenda per evitare che le ferie diventino, come spesso succede, “lavorative”, magari tornando al lavoro più stanco che mai.
Né ti è mai stato insegnato a difenderti dai molti che non hanno un buon rapporto con il diritto (e viceversa).
Questo il caso: opposizione di terzo all’esecuzione in cui l’opponente si dichiarava addirittura «fratello del proprietario del bene pignorato». Fissare o non fissare udienza? Su suggerimento di un arguto collega, nel decreto di fissazione è bastato precisare che nel corso dell’udienza sarebbe stata preliminarmente vagliata la questione della legittimazione dell’opponente, per determinare un’insperata riappacificazione tra l’istante ed il diritto: niente notifica e rinuncia all’opposizione.
Nessuno ti ha nemmeno mai insegnato come difendersi dalla Cancelleria.
Nei primi mesi di lavoro, può capitare di essere ancora pervasi dal fuoco sacro della Giustizia e, in uno slancio di coraggio (assai vicino all’incoscienza), di decidere di fissare per ogni settimana tre fascicoli per la precisazione delle conclusioni, con scadenze sfalsate di settimana in settimana.
La scelta si rivela vincente se la Cancelleria è in grado di monitorare anch’essa il calendario delle scadenze per trasmettere in tempo i fascicoli: è sufficiente che non vengano trasmessi al magistrato i primi tre fascicoli affinché essi si accumulino su quelli successivi; il risultato è che, in un ristretto lasso di tempo, devono essere decisi dodici fascicoli.
Eppure, il rispetto dei termini è un elemento di primaria importanza per la valutazione della professionalità, ma pare sia necessario che ognuno di noi si scontri con il sistema per imparare, a sue spese, come difendersi dallo stesso. E pensare che sarebbe bastato tenere una sorta di calendario parallelo a quello della Cancelleria per tenere sotto controllo le scadenze: se la Cancelleria non va dal Magistrato, sarà il Magistrato che va in Cancelleria... a prendersi i fascicoli una volta che, secondo la propria tabella, i termini per le parti sono decorsi.
Come si vede, si tratta di piccoli suggerimenti che avrebbero fatto decisamente comodo per lavorare in serenità e nel rispetto delle regole.
Ma che magistrato si vuole diventare?
Nessuno di noi, all’inizio, sa cosa significa essere e fare il magistrato (ammesso che lo si sappia mai). Non c’è ovviamente un unico modo di farlo (ed è questa la ricchezza della magistratura) ed ognuno deve trovare il proprio; credo che, però, bisognerebbe «scegliere in tempo e non arrivarci per contrarietà», come cantava altro grande autore.
Insomma: per davvero la Giustizia è cieca? Bisogna cercare di prevedere gli effetti del nostro lavoro (parlo di lavoro e non delle decisioni) sulla vita delle persone o occorre lavorare come se non ci fosse mai un “fuori” rispetto al nostro ufficio? Si deve essere un magistrato che, come un burocrate sperso nell’Amministrazione, svolge asetticamente il proprio lavoro o occorre coniugare l’imparzialità del giudizio con la necessaria parzialità dei suoi effetti?
Il bello non sta nella risposta ma nella domanda.
A me pare che, nel corso del tirocinio, sia mancata la possibilità di avere un minimo di confronto e di riflessione sul ruolo e la funzione del magistrato, pure in una cornice in cui ognuno può interpretare il ruolo (ovviamente nei limiti della legalità) come crede in una maniera che deve essere libera ma, allo stesso modo, necessariamente consapevole. L’approfondimento di questi temi, per così dire “etici”, costituisce forse la formazione più alta che si possa avere ed è questa che, forse, ci può sostenere nei momenti di sconforto e di crisi.
Interrogarsi sul proprio ruolo, dovrebbe in primo luogo consentire di sottolineare il fatto che si è diventati magistrati senza raccomandazioni, esclusivamente per meriti propri, che l’autonomia è una garanzia e non un privilegio e che tutto questo ha un senso se la tutela della legalità è finalizzata a proteggere chi è socialmente ed economicamente più debole.
Non si tratta di una parentesi effimera di auto celebrazione quanto di un momento di consapevolezza sulle responsabilità del ruolo assunto.
In questo contesto, quale migliore strumento che la testimonianza di colleghi che sono stati considerati “buoni magistrati”? Non si tratta di dimostrare alcun teorema, quanto di evidenziare per ognuno di loro particolari “stili” di comportamento da prendere a spunto per strutturare il proprio, magari anche in chiave opposta e contraria (per chi così ritenga).
Ancora qualche esempio: per quale motivo non raccontare la storia di Antonino Caponnetto e del pool antimafia con Falcone e Borsellino? Perché, rimanendo ad esperienze più locali, nel corso del mio tirocinio a Firenze, nessuno mi ha parlato di Silvio Bozzi, il cui nome ho letto solo su una fredda targa di pietra nella ex Pretura ma che, leggendo una pubblicazione in ricordo della sua morte, doveva essere stato davvero un “buon giudice”? E perché nessuno ha mai parlato dei giudici Galli, Alessandrini e di tutti quelli che hanno perso la vita perché facevano seriamente quel lavoro che mi appresto a fare anch’io?
Per quale motivo, poi, nel corso del tirocinio e della formazione non si è prestato un po’ di attenzione a quel capolavoro di Piero Calamandrei che è L’elogio di un giudice scritto da un avvocato, in cui tutto è già stato scritto? Basta leggere qualche pagina per capire come, ancora oggi, quel libro non smetta di regalare preziosi spunti di riflessione camuffati da aneddoti raccolti nel corso della carriera forense, che spalancano spazi sterminati di pensieri e cultura giuridica e tanta umanità.
Insomma: il magistrato che tutto il percorso formativo intende plasmare deve essere solo tecnicamente preparato o capace anche di interpretare il proprio ruolo nella maniera più funzionale all’esigenza ed alla richiesta di giustizia? Non si tratta di indottrinare nessuno, ma semplicemente di presentare modelli cui ognuno può essere libero di aderire o meno; l’assenza di proposte di modelli indebolisce il senso del ruolo, ci costringe a non alzare mai gli occhi dalle sudate carte e ci toglie quel “respiro più lungo” che possa richiamarci al vero motivo per cui si è diventati magistrati.