Contro la trattazione scritta delle cause civili! (Qualche principio bisogna pur averlo)
La trattazione scritta introdotta dall’art. 127-bis cpc può dimostrarsi utile, evitando rinvii di udienza, nei limitati casi in cui sia prevedibile un’attività “standardizzata” sostituibile da note scritte. Ma sarebbe un grave errore far diventare una regola quella che dovrebbe essere un’eccezione, trasformando l’eventuale trattazione scritta di singole cause nella sistematica trattazione scritta di intere udienze.
1. Premessa / 2. La trattazione scritta: da necessità a utilità; da utilità a comodità / 3. Quali costi? / 4. Gettar via il bambino con l’acqua sporca? / 5. Resistenza
1. Premessa
“Qualche principio bisogna pur averlo!”, esclama un affranto, ma non per questo sconfitto, Giovanni/Nanni Moretti, protagonista dell’ultimo film del regista romano, Il sol dell’avvenire, di fronte a chi viola, senza neanche essere consapevole dei danni che cagiona, i canoni della sua poetica (che è anche etica) cinematografica.
Questa frase – insieme ad altre, pure illuminanti nella loro spigolosa ruvidezza – mi è tornata in mente (potere del cinema!) mentre ragionavo di tutt’altro. Riflettevo, infatti, di processo civile, riforma Cartabia e trattazione scritta.
Qualche principio bisogna pur averlo! E un principio che noi giudici civili avevamo, per quanto sfilacciato, violato, bistrattato e maltrattato, era quello della trattazione orale delle cause, che ancora fa bella mostra di sé, a rischio del ridicolo, nell’art. 180 cpc, che apre la sezione II del capo II, titolo I, libro II del cpc.
Oggi, invece, è sufficiente camminare nei corridoi un tempo affollati dei tribunali o affacciarsi nelle aule, un tempo rumorose, delle corti d’appello per rendersi conto che non solo non c’è più parvenza di trattazione orale delle cause (discussioni, argomentazioni, litigi, toni di voce sovreccitati), ma la stessa presenza nelle nostre aule giudiziarie civili è estremamente ridotta.
Domina la trattazione scritta delle cause civili.
2. La trattazione scritta: da necessità a utilità; da utilità a comodità
Come tutti sanno, il termine “udienza” deriva dal latino audire, ascoltare; l’udienza, dunque, è per definizione il luogo dell’ascolto, del dibattito e del dialogo. Non per caso i magistrati in tirocinio, sino a pochi anni or sono, erano qualificati uditori giudiziari, proprio a indicare nell’ascolto (principalmente, di ciò che accade in udienza) un elemento fondante del loro apprendistato.
Questa millenaria tradizione, per quanto molto spesso ridotta a un vuoto simulacro (secondo una prassi deteriore contro cui, tuttavia, da tempo si cercava di rivitalizzare l’udienza come luogo di effettivo dialogo processuale), ha subito una brusca cesura in conseguenza della pandemia[1]: piuttosto che chiudere i tribunali in periodo di lockdown (ma alcune attività si sono sempre e comunque svolte in presenza), si è scelto, opportunamente, di utilizzare al massimo gli strumenti offerti dalla tecnologia; e, dunque, di far lavorare, per quanto possibile, giudici e avvocati da remoto, mediante scambio di atti scritti a distanza. Scelta funzionale alla conservazione di un minimo di efficienza in un momento in cui occorreva limitare al massimo i contatti interpersonali (il cd. “distanziamento sociale”).
Ma quella scelta necessitata ha ben presto evidenziato ulteriori profili potenzialmente positivi e utili, al di là di quelli strettamente legati alla prevenzione della diffusione del contagio: il risparmio di tempo; la possibilità di accudimento di figli piccoli o familiari invalidi senza dover rinunziare a una giornata di lavoro; il completamento, nell’arco delle 24 ore, di attività prima necessariamente vincolate all’incontro fisico e, dunque, da completare nel giro di poche ore, etc. Così, si è passati dalla trattazione scritta di singole cause (funzionale a evitare assembramenti eccessivi) alla trattazione scritta di intere udienze: si sono, cioè, concentrate le cause da trattare “in presenza” in udienze (spesso affollate come in passato), fissando invece da remoto e a trattazione scritta le altre.
Dunque, nel breve volgere di un paio di anni, abbiamo assistito al rapido scivolamento della giustificazione della trattazione scritta dall’originaria necessità verso una più blanda utilità, diventata ben presto, e spesso, mera comodità: restare a casa anziché uscire, prendere mezzi pubblici o auto private, affrontare traffico, folla, etc.
E la cosa è piaciuta tanto a giudici e avvocati, che, anche in fase di regressione del contagio e della diffusione virale, si è pensato di istituzionalizzarla con la cd. “riforma Cartabia”, mediante l’inserimento nel codice di procedura civile dell’art. 127-ter, che prevede, salvo alcune eccezioni, la possibilità di sostituzione dell’udienza, in forza di un decreto (quindi, atto non motivato) del giudice, col deposito di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni delle parti (dunque, in teoria e ad essere rigorosi, senza nessuna argomentazione a sostegno delle stesse).
Tutti contenti, giudici e avvocati, di potersene restare a casa o nei propri studi, a gestire comodamente (non solo e non tanto la singola causa, ma) l’intera udienza senza la fatica e lo stress di andare in tribunale o in corte d’appello, affrontarsi o scontrarsi con le rispettive controparti.
Tutto bene, allora?
3. Quali costi?
A me pare che non ci si renda ancora conto – e, quando questo avverrà, potrebbe essere troppo tardi – dei costi e dei danni insiti in questa scelta.
L’udienza è il luogo di incontro, a volte di scontro, tra tesi contrapposte; luogo di conoscenza di umane esperienze narrate da esseri umani ad altri esseri umani disposti, e tenuti, ad ascoltare secondo regole che garantiscono il contraddittorio; luogo, si potrebbe dire, se l’espressione non rischiasse di apparire eccessivamente enfatica, di confronto civile e democratico, condotto secondo principi prestabiliti per legge e in condizioni di potenziale parità di armi.
Che giustizia è quella in cui meno ci si incontra e meglio è?
Sarà, forse, più efficiente (anche se è lecito dubitarne), ma è certamente una giustizia meno umana, una giustizia disumanizzata[2], affidata alla lettura di carte, anzi di “files”, senza un momento di fisico incontro.
Un’udienza interamente fissata con “trattazione scritta”, oltre a essere dal punto di vista etimologico una contraddizione in termini, comporta inevitabilmente una perdita di conoscenza per il giudice, che non ha la possibilità di chiedere quei chiarimenti, a volte anche minimi, che consentono di mettere a fuoco le difese delle parti; e un danno per le parti, che non hanno la possibilità di verificare se e fino a che punto siano riuscite a spiegare (o il giudice a comprendere) le proprie tesi.
Oggi siamo arrivati al paradosso di ritenere «legittimo lo svolgimento dell’udienza di discussione orale della causa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. in forma scritta»[3] e di considerare ammissibile la trattazione scritta anche nelle cause di lavoro, regno assoluto, un tempo, dell’oralità.
Si dirà che in altri Paesi ci sono esperienze simili (mi torna in mente ancora Moretti: “in 190 Paesi! In 190 Paesi!”). Non so, e forse neanche voglio saperlo: io ricordo le udienze di soli pochi anni fa (“mi ricordo… mi ricordo”: ancora Moretti), e provo una grande nostalgia per quei corridoi affollati, per quelle discussioni a volte animate che rimbombavano da un’aula a un’altra. E penso con angoscia a cosa possano capire i nuovi magistrati in tirocinio del processo civile, cosa impareranno senza vedere, o quasi, delle vere udienze: diventeranno forse dei bravissimi tecnici del diritto, ma il diritto non è se non vive delle esperienze umane a cui va applicato; e non è un diritto vivo quello che si realizza dietro lo schermo di un computer.
4. Gettar via il bambino con l’acqua sporca?
Non credo sia utile, e neanche opportuno, limitarsi a rimpiangere i tempi passati; o sognare che le cose vadano diversamente solo perché c’è stata la possibilità che diversamente andassero (questo può farlo solo la magia del cinema… ). Occorre essere realisti, e riconoscere che la trattazione scritta può rappresentare una utilità in alcuni casi: di fronte, ad esempio, a preventivabili impedimenti a tenere udienza (come improcrastinabili visite mediche proprie o di stretti congiunti, o necessità di accudimento di figli molto piccoli), è senz’altro molto utile poter disporre la trattazione scritta, e così “salvare” da un altrimenti necessario rinvio almeno quelle limitate cause per le quali sia prevedibile un’attività “standardizzata”, sostituibile da note scritte. Così come è senz’altro apprezzabile la possibilità che, in casi parimenti eccezionali, possa svolgersi l’udienza mediante collegamenti audiovisivi (art. 127-bis) per evitare agli avvocati trasferte onerose.
Ma, detto questo, credo che i giudici civili, e gli avvocati con loro, stiano compiendo un grave errore nel trasformare quella che dovrebbe essere un’eccezione in una regola; e trasformare l’eventuale trattazione scritta di singole cause nella sistematica trattazione scritta di intere udienze.
5. Resistenza
Da qualche mese, agli avvocati che a volte mi chiedono interpretazioni dell’art. 127-ter cpc, o quale sia la prassi da me seguita al riguardo, rispondo semplicemente che la mia interpretazione e la mia prassi sono nel senso che quella norma non c’è, e che nella mia aula esiste solo la trattazione in presenza. Visto che l’opzione per la trattazione scritta è affidata all’impulso del giudice, e non dovendo confrontarmi con una di quelle eccezionali situazioni di impedimento sopra indicate, non farò mai utilizzo di questa norma. Certo, se dovesse accadere che tutti i procuratori concordemente sollecitassero, per gravi ragioni, la trattazione scritta di una determinata causa (ma non di intere udienze!), potrei prendere in considerazione l’istanza. Ma questo tenendo ben presente il rapporto tra regola ed eccezione.
Sarà, forse, un’inutile resistenza, un velleitarismo destinato a scontrarsi con un dato di realtà che va in altra direzione.
Ma qualche principio bisogna pur averlo!
1. Cfr. art. 83 dl 17 marzo 2020, n. 18, convertito con l. 24 aprile 2020, n. 27 e successive modifiche ed integrazioni.
2. G. Scarselli, Mala tempora currunt, in Judicium, 29 novembre 2022.
3. Cfr. Cass., n. 37137/2022.