Processo civile: modelli europei, riforma Cartabia, interessi corporativi, politica
Il saggio rivolge uno sguardo d’insieme alle strutture del processo civile negli ordinamenti europei, articolando uno schema di alternative modellistiche; indica spunti di comparazione con la riforma del 2021/2022 del processo civile italiano; presenta le Regole europee modello sul processo civile, approvate nel 2020; in seno a queste delinea la combinazione dinamica tra i principi di cooperazione e di proporzionalità, con particolare riguardo alla fase preparatoria; esplora infine alcuni contesti critici per il buon funzionamento della giustizia civile: la crisi dell’unità della figura del giurista, l’insegnamento universitario del diritto, la necessità che la politica recuperi l’autorevolezza per arginare il peso degli interessi corporativi.
1. Da un altrove / 2. Giustizia come fairness (un appunto sul rapporto tra giurisdizione statale e metodi negoziali di composizione delle controversie) / 3. Schema di alternative modellistiche (e primi spunti di comparazione con la riforma italiana del processo di cognizione) / 4. Segue: strutture bifasiche o trifasiche / 5. Segue: articolazioni interne alle strutture / 6. Segue: modi di scansione temporale / 7. «Regole europee modello sul processo civile» / 8. Segue: struttura del processo / 9. Segue: principi / 10. Segue: combinazione dinamica tra cooperazione e proporzionalità / 11. Segue: case management / 12. Segue: fase introduttiva della causa / 13. Segue: domanda congiunta di processo concordato tra le parti / 14. Tra Regole europee e riforma italiana della fase introduttiva: sintesi comparatistica /15. Ciò che non è scritto nelle leggi: cultura comune della giurisdizione e crisi dell’unità della figura del giurista / 16. Sulla rilevanza dei modi di insegnamento universitario del diritto / 17. Politico e Politica
1. Da un altrove
È questo il tempo in cui avvocati, magistrati, studiosi del processo civile, dirigenti e funzionari amministrativi, cancellieri, ufficiali e operatori giudiziari – e perfino qualche giornalista giudiziario insolitamente attratto a narrare delle condizioni della giustizia civile – sono immersi nei problemi suscitati dalla prima applicazione della riforma del 2021/2022 del processo civile italiano[1].
Come ogni cosa di questo mondo, la riforma è ben lungi dall’essere perfetta. Molti commentatori sono inclini a negare con buoni argomenti che essa servirà a migliorare nel complesso le sorti della giustizia civile e auspicano che quanto meno non le peggiori. Si lamentano che la giustizia sia da decenni ostaggio degli umori quotidiani della politica: e così, di volta in volta, delle sue disattenzioni, delle sue inettitudini o dei suoi astratti furori efficientistici. Mentre sul tema dei rapporti tra politica e giustizia (civile) ritornerò alla fine del discorso, all’inizio vi è spazio per un’osservazione semplicemente logica: chi commenta una riforma non lo fa da un luogo esterno ad essa. Egli è nel bel mezzo. Contribuisce a fare (o a disfare) la riforma con le sue parole. I discorsi sul diritto e sulla giustizia sono prassi teoriche che, nel momento in cui ricostruiscono la normatività giuridica, non ne offrono unicamente un fondamento o una critica razionale, ma ne costituiscono un momento di concretizzazione.
Sarebbe superfluo muovere per l’ennesima volta rilievi critici che si ripetono ormai da decenni. Finché non si ripristinerà un giusto rapporto tra il numero di giudici (e di personale giudiziario) addetti al lavoro giudiziario e il numero delle cause da trattare, nel breve o lungo termine ogni modifica legislativa sarà destinata a fallire. “Rapporto giusto” significa questo: che ogni giudice di buona volontà abbia il tempo a disposizione per studiare fin dall’inizio ogni causa che è a lui assegnata, in modo tale da consentirgli di esercitare i suoi poteri in modo equilibrato e fattivamente indirizzato a uno svolgimento del processo che colga fin dall’inizio gli aspetti fondamentali della controversia e ponga, così, le condizioni per chiudere la vicenda in tempi ragionevoli. È necessario, pertanto, che la carta finanziariamente più pesante che il Governo ha calato in tavola, l’ufficio per il processo, trovi la via per inserirsi durevolmente, in modo vitale e razionale, nella macchina dell’amministrazione della giustizia, accanto a una costante immissione di magistrati professionali che copra tempestivamente almeno i vuoti di organico, per tacere dell’esigenza di un progressivo incremento.
In questo contributo vorrei principalmente riflettere sulla struttura del processo di cognizione, con particolare riguardo alla fase introduttivo-preparatoria, situando altrove il punto di vista: muovendo cioè dai modelli europei e cercando di inserire in una linea di sviluppo il punto in cui ci troviamo in Italia dopo la riforma del 2021/2022. Tale riflessione, più che un fuor d’opera, mi sembra necessaria in considerazione della pesante sollecitazione finanziaria europea che ne è alla base.
La struttura del processo civile di cognizione si presenta in versioni variegate in Europa, che si possono assoggettare a uno sguardo d’insieme, se si adotta l’accorgimento di osservarle da una distanza tale da stemperare i dettagli[2]. In ogni processo civile statale si riscontra un processo “ordinario”. Fondamentalmente, esso ha le seguenti caratteristiche generali, comuni a ogni ordinamento di riferimento: (a) è il procedimento di default per la cognizione dei diritti riconosciuti dalla legislazione sostanziale; (b) il diritto di essere ascoltati in giudizio (il contraddittorio, nel gergo italiano) è predeterminato a svolgersi nel modo più pieno ed esauriente; (c) lo scopo prevalente è di pervenire a una giusta composizione della controversia; (d) il provvedimento finale di merito è dotato del maggior grado di stabilità.
2. Giustizia come fairness (un appunto sul rapporto tra giurisdizione statale e metodi negoziali di composizione delle controversie)
In questo contesto, si dice “giusta” la composizione della controversia raggiunta attraverso l’applicazione di norme di diritto ad opera di un giudice, ma con ciò non si esclude che si possa predicare come giusta anche la composizione negoziale. Al contrario, già una ventina di anni fa si era sottolineato un fatto ormai ampiamente riconosciuto, cioè che i metodi di composizione delle controversie negoziali sono presentati «come alternativi, ma sarebbe meglio qualificarli come complementari, rispetto al processo di cognizione statale»[3]. Tale terminologia, insieme agli assunti concettuali che essa presuppone (a partire dalla concezione che ripone fiducia nella creatività relazionale degli esseri umani), nonché a molte delle conseguenze normative che essa è chiamata a produrre, ha trovato finalmente ingresso nella legislazione italiana, sebbene la ristrettezza dei tempi di attuazione della delega contenuta nella legge n. 206/2021 abbia impedito che si mettesse mano al previsto testo unico degli «strumenti complementari alla giurisdizione»[4].
Intendo “giustizia” nel senso dell’inglese fairness. Una ricerca dell’etimologia della parola fair, svolta fino al protogermanico fagraz mi ha restituito i significati di: adeguato, calzante, appropriato, e finanche bello, ove forse risuona l’eco dell’idea antica di identità tra ciò che è bello e ciò che è buono (Kalokagathia), propria della Grecia del V secolo a.C. Si rinvia così a uno dei nuclei ancora pulsanti della cultura europea, che si fa sentire anche nel mondo della giustizia civile.
Vorrei additare così un percorso di ricerca a chi intenda tentare di gettare una luce diversa sul dibattito in tema dei modi consensuali di composizione delle controversie e del loro rapporto con la giurisdizione statale. Mi sembra che il dibattito, pur vigoroso, tenda a scorrere su due binari in cui le occasioni di scambio sono sempre meno frequenti: da un lato, le argomentazioni di principio, che tendono a ripetersi ormai da decenni[5]; dall’altro lato, una discussione sulla miriade di problemi di dettaglio. Tali tratti si possono riscontrare sia nella discussione in Italia, che negli altri paesi europei, salvo che da noi il centro dell’analisi di dettaglio continua a essere occupato dal tentativo obbligatorio di mediazione (nonostante le pur significative innovazioni in tema di negoziazione assistita), mentre nella maggior parte degli altri Paesi europei si preferisce discorrere di incentivare il ricorso volontario ai metodi negoziali di composizione.
Meno diffusa è l’idea che tra i due ambiti di ricerca (il dibattito sui principi, l’elaborazione delle soluzioni di dettaglio) vi debba essere un intreccio continuo, ispirato da reciproca fecondazione. Un buon punto di ripartenza potrebbe essere l’attenzione costante al senso delle parole, alla genealogia del loro uso quotidiano e a come esse retroagiscono sulla struttura dei nostri pensieri. Fin dall’inizio, la parola “complementari” ha ambìto a sostituirsi alla parola “alternativi”, con la quale i metodi consensuali di composizione delle controversie vengono ancora oggi frequentemente indicati, sulle tracce del sintagma inglese Alternative Dispute Resolution. L’idea sottesa all’impiego di “complementari” è di valorizzare la relazione di arricchimento e integrazione reciproci, piuttosto che la contrapposizione, tra strumenti negoziali e giustizia civile statale. Si segnano così punti a vantaggio sia dei primi, che della seconda. Quanto ai primi, essi acquistano decisamente un rilievo istituzionale, in primo luogo nel senso che la scelta di ricorrere agli uni o all’altra per risolvere la controversia non è relegata nella sfera privata, ma è oggetto di politiche pubbliche. Quanto alla seconda, si rifugge dalle tesi estremistiche che intenderebbero relegare la giurisdizione statale a un ruolo residuale.
In altri termini, nel rinunciare alla decisione del giudice statale e all’applicazione di criteri decisori oggettivi e predeterminati, la composizione negoziale, assistita o meno dall’opera di un terzo, non può rinunciare a essere giusta, bensì deve perseguire questo obiettivo con gli strumenti contrattuali. Ciò comporta non solo la possibilità di rimuovere gli effetti di un accordo conciliativo ingiusto, nei limiti in cui l’ingiustizia possa essere sanzionata dall’accoglimento di una impugnazione negoziale, bensì anche la possibilità della parte di prevenire la formazione di un accordo ingiusto, allontanandosi dal tavolo della negoziazione e invocando un rimedio effettivo dinanzi al giudice statale.
Perciò la promozione dei metodi di composizione consensuale delle controversie deve essere costantemente abbinata agli sforzi per migliorare nel suo complesso la risposta della giustizia civile statale ai bisogni di tutela. La protezione dell’interesse delle parti a raggiungere una composizione negoziale dev’essere contemperata con un’adeguata protezione degli interessi degli altri utenti del servizio giustizia. In considerazione della situazione concreta su cui incide, il bilanciamento può svolgersi in più direzioni e ispirare la soluzione dei problemi di dettaglio. In generale, esso gioca nel senso di incentivare il ricorso alla risoluzione negoziale per risparmiare risorse giudiziarie a vantaggio di altri utenti, ma in determinate situazioni il principio di proporzionalità gioca nel senso di limitare il ricorso a metodi in cui la composizione della controversia abbia luogo attraverso un precetto negoziale. Ciò accade specialmente quando: (a) la controversia implichi la soluzione di questioni giuridiche di interesse collettivo o generale, che pertanto debbano essere affidate alla concretizzazione giurisprudenziale di norme legislative inderogabili; (b) la relazione tra le parti sia notevolmente sbilanciata (socialmente, economicamente, etc.) e quindi i rischi di ingiustizia della composizione consensuale superino la soglia della tollerabilità (nel quadro di questa ipotesi si colloca anche il problema di assicurare una risoluzione efficiente alle controversie seriali, che non è data tanto dalla possibilità di trarle ad oggetto di un tentativo individuale di composizione negoziale, quanto dalla introduzione di una robusta azione di classe).
Per ragioni diverse, ma omologamente apprezzabili sotto il profilo di un canone di corretta amministrazione della giustizia che non sia preda di un approccio efficientistico, entrambe le situazioni segnano argini alla cooperazione negoziale delle parti. Tali limitazioni sono argomentabili sulla base del principio di proporzionalità, perché l’intervento della giustizia civile statale, specialmente quando culmini in una guida autorevole di coerenza affidata alla corte suprema, assicura un adeguato parametro di giudizio che vale erga omnes nella sua efficacia persuasiva. In tali situazioni, si previene anche il proliferare del contenzioso nel futuro e una frammentazione negoziale inadeguata delle soluzioni (per tacere delle ipotesi in cui il processo giurisdizionale è il canale di accesso alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia dell’Unione europea, con quel che ne consegue).
Un maggiore intersecarsi tra riflessione sui principi e discussione dei dettagli rinvigorisce non solo la seconda, ma anche il dibattito sui primi. La concezione che vede nell’amministrazione della giustizia civile una funzione essenziale propria dello Stato moderno al servizio dell’attuazione della “volontà della legge”, con i crismi della relativa incontestabilità sul piano del diritto sostanziale e nel corso dei futuri processi, si rende interprete di una tradizione alta e ricca di prestigio, ma relega piuttosto sullo sfondo l’utilità che gli individui, in quanto parti del processo, ricavano dall’esercizio della giurisdizione. Viceversa, nell’ambiente contemporaneo si profila in primo piano l’utilità che gli individui si ripromettono di conseguire nel momento in cui intraprendono (o si difendono in) un processo. La giurisdizione non è da concepire tanto come una funzione dello Stato moderno diretta all’attuazione del diritto nel caso concreto, ma soprattutto come servizio pubblico diretto appunto alla giusta composizione delle controversie. Solo una concezione della giustizia civile come servizio pubblico è in grado di estendersi fino a considerare che la composizione delle controversie ad opera di istituzioni (o il tentativo di comporle), quando non si realizza esclusivamente nell’ambito della autonomia privata dei soggetti tra cui esse sorgono (o dei relativi enti esponenziali), può essere affidata non solo agli organi della giurisdizione statale, ma anche, in presenza della volontà concorde delle parti, a istituzioni diverse dallo Stato, di cui sia assicurata la terzietà, l’imparzialità, nonché l’efficienza.
Così si chiude il cerchio di questa riflessione preliminare, ritornando al punto di partenza: nel comporre la controversia, si potrà applicare vuoi un canone decisorio oggettivo e predeterminato, vuoi un canone negoziale, senza che venga meno l’attributo della giustizia, nel significato raccolto inseguendo la radice etimologica della parola “fairness”. Contemporaneamente, si indica il sentiero di ricerca nominato parimenti all’inizio del paragrafo, che qualcuno dovrà pur provare a percorrere. Ci si dovrà domandare, in altre parole, se l’orientarsi della giustizia verso la nozione di “giustezza” – cioè di appropriatezza, convenienza ovvero opportunità rispetto agli interessi in conflitto – sia un ulteriore aspetto di un modello di società aspramente secolarizzata, che relega ai margini qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza nella composizione degli interessi in conflitto. Ci si dovrà pur chiedere se tale evoluzione – che finisce con l’equiparare i contenuti degli atti di composizione delle controversie (siano essi atti giurisdizionali o consensuali) a segnali del mercato, collocandoli sullo stesso piano dei prezzi delle merci, abbia irrimediabilmente depotenziato il superamento in linea verticale della mera linea di galleggiamento sociale degli interessi in conflitto. Tale superamento è il merito storico dell’amministrazione statale della giustizia e, nella vicenda dell’Unione europea, ha prodotto risultati decisivi in termini di costruzione dell’edificio europeo attraverso l’esercizio di azioni giudiziarie dinanzi ai giudici nazionali.
Potrà tale deriva essere arginata da una rinnovata valorizzazione della dimensione istituzionale del diritto (quale si è adombrata nel capoverso precedente)[6]? In ogni caso, degno di interrogazione è il se ed in che misura tali sviluppi siano compatibili con il bisogno proprio degli esseri umani di prendere posizione sulla loro condizione e sui loro conflitti in una prospettiva di universalizzazione paradigmatica. In altre parole, si tratta di riflettere se tale evoluzione sia conciliabile con il nostro bisogno di trascendenza, con l’irrefrenabile urgenza di concepire l’infinito entro i limiti delle contingenze quotidiane e della finitezza della condizione umana.
3. Schema di alternative modellistiche (e primi spunti di comparazione con la riforma italiana del processo di cognizione)
Individuare caratteristiche generali della struttura del processo di cognizione, comuni agli ordinamenti dei Paesi europei[7], non significa evidentemente che si parli di caratteristiche uniformi. Oltre che nei limiti soggettivi, oggettivi e temporali del giudicato (messi alla prova in tempi recenti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, specialmente in materia di tutela del consumatore)[8], le differenze maggiori si registrano nella disciplina del diritto di essere ascoltati in giudizio.
Ferma rimanendo la previa determinazione delle forme e dei termini di svolgimento dell’attività dei soggetti processuali, le strutture del processo e il tasso di intensità della predeterminazione delle regole sono diversi da un ordinamento all’altro. In primo luogo, la disciplina può essere predeterminata secondo una struttura a tre fasi o a due fasi. In secondo luogo, a loro volta, le fasi possono articolarsi in un modulo di trattazione della causa tendenzialmente unico, ovvero in più moduli di trattazione, alternativi tra di loro. In quest’ultima variante, la scelta tra i due o più moduli è affidata al giudice, che l’adotta ove possibile in collaborazione con le parti. In terzo luogo, il progredire della sequenza procedimentale può essere scandito da: (a) termini predeterminati dalla legge, sia nell’an di assegnazione, che nel quantum di durata; (b) termini predeterminati nell’an di assegnazione dalla legge, nel quantum di durata dal giudice; (c) viceversa, termini predeterminati nell’an di assegnazione dal giudice, nel quantum di durata dalla legge; (d) infine, la sequenza può essere parzialmente scandita da predeterminazioni legislative affidate a concetti temporali indeterminati.
Alla luce di tale schema, è lecito domandarsi se l’ordinario processo di cognizione, cioè il processo di default per la risoluzione delle controversie civili, non sia diventato in Italia, dopo la riforma del 2021/2022, il procedimento semplificato di cognizione ex artt. 281-decies ss. cpc[9]. Già nel 2009, all’apparizione del procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis ss. cpc, si era osservato che «esso è del tutto atipico nelle finalità, e di conseguenza nei presupposti del provvedimento di accoglimento. Quanto a caratteristiche dell’attività istruttoria, il giudice è chiamato a compiere sic et simpliciter gli atti di istruzione rilevanti per l’accertamento del diritto, nel fondamentale rispetto della garanzia costituzionale del contraddittorio. Quanto a campo di applicazione, esso non è residuale rispetto ai procedimenti sommari cautelari e non cautelari, bensì costituisce un modello di trattazione semplificato che l’attore può chiedere di impiegare in via alternativa rispetto al modello di trattazione ordinaria delle cause sottoposte alla decisione del tribunale in composizione monocratica. Quanto a stabilità del provvedimento finale, essa è la cosa giudicata sostanziale»[10]. Si concludeva quindi che «a dispetto del suo nome e della sua collocazione legislativa, ci troviamo dinanzi ad un processo speciale a cognizione piena, ad un modello di trattazione semplificato rispetto al rito ordinario»[11]. Si proponeva quindi di spostare la disciplina nel secondo libro del codice di procedura civile e di introdurre il potere del giudice, adito attraverso rito ordinario di cognizione, di disporre il passaggio della trattazione della causa al procedimento sommario di cognizione[12].
Da allora l’evoluzione legislativa ha oltrepassato le aspettative più rosee, al netto di qualche sgangheratezza espressiva come quella di cui è caduto vittima l’art. 281-decies cpc nel delineare l’ambito di applicazione del procedimento semplificato di cognizione. Convergono, nel promuovere quest’ultimo come l’ordinario (normale) processo di cognizione in Italia, molti indici legislativi, tra i quali i seguenti (contraddistinti dalle lettere iniziali dell’alfabeto):
(A) nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, l’attore ha diritto di instaurare la causa nelle forme del procedimento sommario di cognizione (art. 281-decies, comma 2, cpc), indipendentemente dal carattere non controverso dei fatti di causa, dall’esistenza di prova documentale (o di pronta soluzione) che fonda la domanda o dal carattere non complesso dell’istruzione (presupposti ex art. 281-decies, comma 1, cpc, peraltro non sempre verificabili ex ante);
(B) il procedimento semplificato di cognizione è esteso alle cause decise dal collegio;
(C) è aumentata la predeterminazione legale della disciplina della trattazione e dell’istruzione della causa ex artt. 281-undecies e 281-duodecies cpc; ciò dovrà essere necessariamente affiancato da un’equilibrata interpretazione giudiziale del «giustificato motivo» di cui all’art. 281-duodecies, comma 4, cpc (al fine di concedere termini per integrare il thema decidendum e il thema probandum); la formula del «giustificato motivo» dà corpo a un dispositivo che regola la maturazione delle preclusioni in modo calibrato sui lineamenti concreti della controversia; come si può constatare ripensando allo schema dei modi di scansione temporale di una sequenza procedimentale anticipato all’inizio del paragrafo[13], così concepito, il «giustificato motivo» di cui all’art. 281-duodecies, comma 4, cpc concretizza una variante di tale schema[14]; essa non può essere affatto appiattita sull’uno o l’altro dei due estremi: concessione semiautomatica oppure necessaria ricorrenza di una causa non imputabile;
(D) il provvedimento conclusivo riveste la forma di sentenza e consegue l’autorità di cosa giudicata ex art. 2909 cc;
(E) la previsione della sussistenza di prova documentale come autonomo presupposto di trattazione del procedimento semplificato di cognizione rende impossibile ricalcare la ripartizione tra campo di applicazione di quest’ultimo e quello del procedimento ordinario sulla distinzione (peraltro indeterminata) tra cause semplici e cause complesse; l’imponente fenomeno di digitalizzazione della maggior parte degli ambiti sociali, congiunto all’inevitabile estensione della nozione di prova documentale, rende piuttosto verosimile un tendenziale scambio di coppie di corrispondenza: una domanda sfornita di prova documentale sarà frequentemente di istruzione semplice, piuttosto che complessa; mentre una domanda dotata di siffatta prova documentale sarà frequentemente di istruzione complessa, piuttosto che semplice;
(F) nell’introdurre per il cd. rito ordinario l’art. 171-bis cpc, il legislatore ha tenuto dietro a una nobile ispirazione (anticipare l’intervento dell’ufficio giudiziario, anche per le questioni di merito rilevabili d’ufficio), ma ha licenziato un contenuto normativo che sembra fatto apposta per disincentivare l’impiego di tale rito, specialmente (ma non solo) in caso di processi con pluralità di parti; decorrono o meno i termini per le memorie se il giudice non conferma espressamente la data della prima udienza così come indicata dall’attore nell’atto di citazione? Difficile che la risposta sgorghi spontaneamente dalla combinazione di parole usata nell’art. 171-bis, comma 3, cpc.
In questo contesto, ci si può chiedere se abbia ancora senso parlare di due riti diversi (il rito ordinario, il rito semplificato) o se non sia più logico considerarli come due moduli di trattazione che possono avvicendarsi all’interno di una sequenza procedimentale unitaria. Tale ricostruzione, che si è già prospettata nel 2010, all’indomani del procedimento sommario di cognizione ex 702-bis cpc, come probabile esito evolutivo dell’introduzione di quest’ultimo[15], trova oggi una conferma importante nel fatto che la disciplina ex art. 281-duodecies, comma 1, cpc del passaggio della trattazione dal semplificato all’ordinario esclude espressamente che la causa ricominci dall’inizio (il giudice è tenuto a fissare l’udienza ex art. 183 cpc).
Pertanto, la riforma del 2021/2022 è certamente calata addosso agli operatori con tutti i difetti originati dalla pressione temporale di matrice europea, ma può essere convertita in una nuova occasione per fare di necessità virtù, rimeditando su taluni problemi fondamentali al fine di inserire il punto corrente nella linea di sviluppo storico del nostro modo di fare e di vivere il processo civile.
4. Segue: strutture bifasiche o trifasiche
Conviene, a questo punto, approfondire lo schema dei modelli già delineato[16] cominciando dalla prima alternativa: tra struttura processuale trifasica o bifasica. Essa si articola nel complesso in tre varianti.
La struttura trifasica è coperta da una sola variante. È il modello che si riscontra in Italia e in Francia (e si riscontrava in Spagna prima del codice del 2000). Esso rinviene la propria origine nel processo romano canonico. Le tre fasi consistono in: (a) una fase preparatoria che procede dallo scambio degli atti introduttivi alla precisazione (tendenziale) dell’oggetto della decisione (domande ed eccezioni) e dei fatti da provare; (b) una fase istruttoria diretta all’accertamento dei fatti, che si snoda in una serie più o meno lunga di udienze; (c) una fase finale ove si contempla l’emanazione della decisione. È una struttura in cui si riflette l’idea del tempo come mera successione di attimi di identica qualità, come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (secondo la vulgata della definizione aristotelica di chrónos). Un’idea in cui poi s’innesta la concezione escatologica cristiana, che si rispecchia nell’immagine della sentenza, come evento ultimo in cui la decisione della controversia accade, si condensa e dà compimento alla sequenza del tempo processuale.
L’altra struttura, bifasica, si presenta in due varianti. La prima è tipica del classico processo anglo-americano. Dopo lo scambio degli atti introduttivi, vi è una prima fase che serve alla raccolta dei fatti e dei mezzi di prova necessari per la discussione della causa nella successiva fase del dibattimento. Tale fase non è diretta a informare il giudice attraverso i mezzi di prova, bensì è volta a informare esclusivamente le parti. Nella seconda fase, orale, le parti presentano al giudice i fatti, i mezzi di prova e la qualificazione giuridica della vicenda.
La seconda variante della struttura bifasica è nata recentemente ed è giunta a maturazione in Germania in un breve arco di tempo. Determinante è una conferenza tenuta da Fritz Baur nel 1965 a Berlino, che dette impulso dapprima a un’importante sperimentazione nella prassi (il modello di Stoccarda, messo in pratica nel 1967 da Rolf Bender, presidente di sezione del Tribunale di quella città) e poi alla legislazione (la novella di semplificazione, Vereinfachungsnovelle, del 1976). Tale modello è imperniato sulla “udienza principale”, nella quale la controversia vive un momento determinante nella prospettiva della sua risoluzione. Una struttura che non culmina all’ultimo, ma in un momento anteriore. Una struttura in cui la decisione si fa nel corso, piuttosto che accadere alla fine e dare compimento alla sequenza. Una struttura processuale in cui si dà corpo a una concezione di tempo diversa dal tempo cronologico, come sequenza di attimi di identica qualità, ed ove si riflette l’idea del tempo «debito» come «miscela propizia di elementi diversi»[17].
Questo modello rispecchia una tendenza dei sistemi processuali contemporanei nella direzione di una struttura a due fasi, ma si distingue dalla prima variante, perché la fase preparatoria non serve solo a informare le parti e a consentire loro di prepararsi all’udienza, ma è utile anche a informare il giudice, mettendolo in grado fin dall’inizio non solo di esercitare poteri di “direzione formale” del processo, un calco linguistico dal tedesco “formelle Prozessleitung” (tra i quali rientrano le verifiche preliminari circa la valida instaurazione del processo), ma anche di esercitare poteri di “direzione sostanziale” del processo (“materielle Prozessleitung”), intesi a una prima delimitazione del thema decidendum (domande ed eccezioni) e del thema probandum (fatti da provare), per preparare nel modo migliore possibile l’udienza principale.
5. Segue: articolazioni interne alle strutture
Se si continua a svolgere lo schema riassuntivo delle alternative modellistiche[18], è da accennare alle articolazioni interne alla struttura bi- o trifasica.
La scansione in più moduli di trattazione della causa non si concretizza in una pluralità di procedimenti distinti l’uno dall’altro (cioè di “riti”, secondo il gergo italiano), bensì si svolge piuttosto all’interno di una sequenza procedimentale unitaria. La scelta fra un modulo di trattazione e l’altro è affidata al giudice (possibilmente d’intesa con le parti) e rientra fra i suoi compiti di direzione formale del processo. La selezione del modulo processuale tiene conto del carattere più o meno complesso della controversia, quale risulta in concreto dopo lo scambio della domanda introduttiva dell’attore e della risposta del convenuto.
Come già anticipato, un esempio ne è l’odierna alternativa italiana tra procedimento semplificato di cognizione e procedimento ordinario[19]. È anche ciò che accade nel processo civile inglese, attraverso la scelta tra small claim track, fast track, multi-track; nel processo civile francese, attraverso la scelta tra circuit court, circuit moyen e circuit long. Ciò accade anche nel processo civile tedesco: in particolare, in quest’ultimo, il giudice può calibrare fin dall’inizio lo svolgimento del processo sulla complessità in concreto della singola controversia[20], scegliendo di far precedere l’udienza principale dalla fissazione della «prima udienza immediata»[21], oppure dal procedimento preliminare scritto[22].
6. Segue: modi di scansione temporale
L’ultimo anello della catena di alternative modellistiche[23] concerne la varietà di modi di scansione temporale della sequenza procedimentale. A tale stregua, la scala tra rigidità e flessibilità con cui i moduli di trattazione si adattano alle caratteristiche delle singole controversie può arricchirsi di molti gradini, che non vi è qui opportunità di dettagliare[24]. Mi limito a menzionare esempi della quarta variante, ove la sequenza può essere parzialmente scandita da predeterminazioni legislative affidate a concetti temporali indeterminati[25]. L’art. 781 del codice di procedura civile francese, che cito dalla riforma del 2019 (ma una disposizione di identico contenuto sul punto era già nel codice di procedura civile del 1976: l’art. 764), prevede che il giudice istruttore fissi man mano i termini necessari all’istruzione della causa, riguardo alla natura, all’urgenza e alla complessità della medesima, dopo aver sentito gli avvocati. La stessa modalità è propria di alcune previsioni del codice di procedura civile tedesco, secondo le quali: «l’udienza ha luogo il più presto possibile»[26], la parte fa valere «tempestivamente» i suoi mezzi di attacco e di difesa all’udienza[27] e comunica «tempestivamente» alla controparte, prima dell’udienza, i mezzi di attacco e di difesa sui quali è prevedibile che quest’ultima non possa prendere posizione senza previa informazione[28].
Nell’ambiente italiano, tale variante è meno familiare, ma non assente: nel procedimento semplificato di cognizione, l’art. 281-undecies, comma 2, cpc chiama il giudice a fissare la data della prima udienza, senza assegnargli un termine finale entro il quale l’udienza deve svolgersi: il che non può non significare che l’udienza deve avere luogo il più presto possibile. Più in generale, si considerino le modalità di scansione temporale nella disciplina dei rimedi ripristinatori in caso di accertata lesione del diritto di difesa, in particolare ove questa sia dovuta a decadenza incolpevole dall’esercizio di poteri processuali. Nel corso della sua evoluzione storica, la disciplina dei processi giurisdizionali ha visto introdurre una serie di strumenti per assicurare ex ante in modo progressivamente più effettivo il diritto delle parti di partecipare al processo, come le norme sulla notificazione degli atti processuali, sulla contumacia, sui termini per impugnare le sentenze, sull’interruzione del processo. In tali strumenti, il progredire della sequenza procedimentale è di regola scandito da termini predeterminati dalla legge, sia nell’an di assegnazione che nel quantum di durata[29]. Assicurare solo in via preventiva le condizioni di fatto per esercitare i poteri processuali non è, però, sufficiente a salvaguardare in pieno il diritto delle parti di essere ascoltati in giudizio. L’esperienza dimostra che gli strumenti appena ricordati falliscono il loro obiettivo, se si verifica successivamente un fatto che impedisce alla parte di esercitare il potere processuale. In tali eventi, le garanzie costituzionali (artt. 24 e 111 Cost.) non richiedono solo di assicurare in via preventiva le condizioni materiali che consentano alle parti di esercitare i poteri processuali, ma impongono altresì al legislatore di predisporre un rimedio per eliminare successivamente le conseguenze pregiudizievoli dovute a impedimenti non imputabili alla parte. Laddove queste ultime si risolvono nell’inadempimento dell’onere di osservare un termine perentorio, di partecipare a un’udienza o a una fase processuale, e cagionano la perdita del correlativo potere processuale (decadenza), il rimedio generale e sussidiario consiste nella ricostituzione del potere in capo alla parte, cioè nella rimessione in termini. A tale scopo, su istanza di parte, riscontrata la sussistenza dei presupposti per concedere il rimedio, il giudice assegna un ulteriore termine per svolgere l’attività processuale dalla quale la parte è incolpevolmente decaduta[30].
Dopo la riforma del 2021/2022, un ampliamento e una generalizzazione di questa prospettiva, ove si ravvisa una minore intensità di predeterminazione legislativa della scansione temporale della sequenza procedimentale, sono segnati dal nuovo testo dell’art. 101, comma 2, cpc. Infatti, il rispetto del diritto di essere ascoltati in giudizio è affidato al controllo diretto del giudice e – ove ciò si riveli necessario per eliminare le conseguenze pregiudizievoli della lesione – all’intervento ex post di quest’ultimo. In tali evenienze, l’adozione di opportuni provvedimenti ripristinatori prescinde dalla circostanza che la lesione del diritto di difesa sia avvenuta pur nella formale osservanza della disciplina legislativa[31].
7. «Regole europee modello sul processo civile»
In estrema sintesi, a livello europeo si tende verso una disciplina flessibile dell’ordinario processo di cognizione, in grado di aderire alla complessità concreta della controversia, grazie a un’effettiva trattazione cooperativa della causa tra le parti e il giudice, in vista del fine della giustizia come fairness, nel senso che ho già indicato all’inizio[32].
Per conferire maggiore concretezza al discorso, terrò sott’occhio da questo punto il testo delle «Regole europee modello sul processo civile». Ne riporterò qualche brano nel testo e nelle note a piè di pagina. Nella traduzione in italiano, cercherò di rimanere fedele alla lettera e allo spirito del testo inglese, peraltro valendomi di termini tratti dalla lingua del codice di procedura civile italiano, ove sia convinto che essi raggiungano il massimo grado possibile di equivalenza funzionale con il termine inglese. Da tale approccio mi distaccherò sporadicamente: ad esempio, laddove la tradizione linguistica tecnico-processuale italiana, per indicare l’ufficio giudiziario, si vale del termine “giudice”, preferisco parlare di “corte”. Non tradurrò il sintagma “case management”, che assume un ruolo di primo piano nell’impianto delle Regole. In parte, una traduzione non è necessaria, poiché il termine evoca già nell’ambiente italiano un significato generico, noto agli addetti ai lavori. In parte, essa mi sarebbe difficile, poiché “gestione della controversia” denuncia un piglio aziendalistico che non mi è particolarmente gradito; mentre, d’altra parte, “trattazione della causa” lascerebbe fuori dal campo semantico un aspetto centrale: l’idea di maneggio organizzativo dello svolgimento della causa, calibrato sui tratti specifici della controversia che ne è oggetto[33].
Per cogliere meglio il senso delle Regole europee modello è utile anteporre una breve cronistoria del progetto[34].
Traendo ispirazione dai Principles of Transnational Civil Procedure, approvati da ALI (American Law Institute) e Unidroit nel 2004, lo European Law Institute (ELI) e Unidroit lanciavano nel 2013 un progetto congiunto, animato dal proposito di disegnare regole europee modello sul processo civile, basandosi su precedenti esperienze pionieristiche[35], sulle tradizioni costituzionali e processuali comuni agli Stati membri, così come sviluppate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea, tenendo altresì presente la disciplina processuale emanata dall’Unione europea. Il progetto ha coinvolto più di sessanta fra docenti universitari, giudici, avvocati e altri professionisti attivi nell’amministrazione della giustizia, provenienti da ordinamenti nazionali, istituzioni dell’Unione europea e organizzazioni internazionali. I lavori, protrattisi nell’arco di sette anni con una serie di incontri e di scambi telematici, sono stati seguiti da un nutrito gruppo di osservatori istituzionali e assistiti da un comitato consultivo. Lingua di lavoro è stata l’inglese, ma ogni gruppo di lavoro ha costituito una comunità multilinguistica, in cui si sono rispecchiate una pluralità di forme di vita e di prassi giudiziarie europee. Ciò ha reagito sull’adozione dell’una piuttosto che dell’altra formulazione della regola in lingua inglese, affinché ciascuna identità nazionale potesse sacrificarsi il meno possibile e sentirsi in un certo senso a casa propria, pur dovendo dar voce alle proprie idee in una lingua diversa da quella madre. Ciò ha influenzato anche l’uso da parte di ognuno della propria lingua madre, poiché ha posto ciascuno per un lungo arco di tempo dinanzi alla differenza che sempre sussiste tra i nostri pensieri e quanto di essi possiamo travasare nelle forme linguistiche. Il progetto si è concluso nel 2020 con l’approvazione del testo delle regole da parte degli organi di governo delle due istituzioni promotrici. Il testo è accompagnato da un’ampia introduzione e da ricchissimi commenti a ogni regola, predisposti dai partecipanti al progetto.
L’intento non è stato quello di consolidare standard minimi comuni alle variegate culture processuali europee, bensì di combinare armonicamente principi comuni a queste ultime, elementi salienti della disciplina processuale dell’Unione europea e risultati di indagini comparatistiche paneuropee. Gli sforzi sono stati assistiti da una costante ricerca del più ampio consenso verso la soluzione valutata come migliore. Il progetto si è aperto un varco tra un obiettivo attualmente privo di possibilità realistiche di essere accolto negli ordinamenti nazionali, quale un codice modello europeo di procedura civile, e la situazione corrente, qual è quella originata dall’intreccio tra interventi normativi frammentari dell’Unione europea e diversità tra gli ordinamenti processuali nazionali, che è poco soddisfacente agli occhi di chi ritiene che un’armonizzazione della disciplina processuale sia un obiettivo meritevole di essere perseguito. Si è così promossa l’idea di elaborare blocchi di regole – da comporre nella fase finale dei lavori in un quadro di coerenza – su aspetti centrali della disciplina. Il testo comprende 245 regole ripartite nelle seguenti dodici parti: «Disposizioni generali»; «Parti del processo»; «Case Management»; «Fase introduttiva della causa»; «Fase preparatoria dell’udienza finale»; «Notificazione degli atti»; «Accesso alle informazioni e prove»; «Pronunce giudiziali, cosa giudicata e litispendenza»; «Mezzi di impugnazione»; «Misure provvisorie e cautelari»; «Tutela collettiva»; «Spese processuali».
Non si tratta di un codice modello europeo di procedura civile, ma la vastità del disegno, l’ammontare delle regole e il grado del loro dettaglio e la centralità degli istituti processuali disciplinati collocano l’opera su quella via. Coltivare una concezione comune di un modello processuale europeo si rivela già hic et nunc un’idea regolativa molto utile, sia per la disciplina dell’Unione europea che per quella degli Stati membri, in vista dell’obiettivo di un’armonizzazione flessibile. In secondo luogo, il testo delle Regole europee modello sul processo civile potrà essere una fonte ispiratrice di raccomandazioni della Commissione europea agli Stati membri. In terzo luogo, esso, sorretto come è da una logica d’interazione tra autori e destinatari, potrà essere adattato dai legislatori nazionali alle esigenze e specificità dei singoli ordinamenti, cosicché il testo potrà arricchirsi sulla base delle esperienze degli interscambi con gli ordinamenti nazionali.
Infine, la dialettica che si svolge tra codice modello europeo e ordinamenti nazionali addita una prospettiva di respiro più ampio. Nonostante tutti gli sforzi sulla via della internazionalizzazione giuridica, il diritto presenta dei tratti costitutivi nazionali che non possono essere rimossi (specialmente in Europa), almeno finché sia riconoscibile l’esistenza di uno Stato nazionale come artefice di norme. Nella parte affidata alle cure di quest’ultimo, la formazione e l’attuazione delle regole giuridiche sono influenzate da cultura, mentalità, risorse economiche ed equilibri politici nazionali che trovano espressione in linguaggi diversi gli uni dagli altri. Proprio questi tratti potrebbero costituire dei punti di forza più che di debolezza, almeno in Europa, ove si disponessero in una posizione di effettiva apertura verso una costruzione dialogica dell’identità europea, attraverso un confronto che attraversa le varie culture nazionali. Beninteso: un confronto autenticamente politico, prima che giuridico[36].
8. Segue: struttura del processo
La struttura del processo di cognizione fatta propria dalle Regole europee modello sul processo civile – così si trova scritto in un passo incisivo dei commenti – consiste in tre stadi: la fase scritta degli atti introduttivi; una fase intermedia preparatoria della decisione[37]; la fase decisoria, che assume normalmente la veste di una udienza finale concentrata in cui le parti deducono mezzi di prova sulle questioni ancora aperte e svolgono le loro argomentazioni conclusive dinanzi alla corte[38]. Questa struttura sarebbe sufficientemente flessibile da soddisfare le variabili esigenze delle singole controversie e i loro specifici requisiti. In molti casi il processo potrebbe concludersi con una sentenza finale anticipata senza che ci sia bisogno di una elaborata udienza finale concentrata[39]. In alcuni casi, la sentenza che risolve questioni preliminari (di rito o di merito) potrebbe precedere la sentenza definitiva[40]. In casi urgenti, il giudice può rilasciare misure provvisorie prima di pronunciarsi nella udienza finale concentrata[41]. Nelle cause complesse – sempre secondo il commento – è da attendersi che una udienza anticipata rivolta a determinare i criteri e le modalità del case management non sia sufficiente a esonerare la corte dal suo dovere di case management attivo durante l’intero corso del processo[42].
9. Segue: principi
Per discorrere dei principi che ispirano tale struttura del processo di cognizione, occorre indicare i due pilastri che sorreggono le Regole europee modello sul processo civile. Il primo pilastro è piantato fuori dal processo ed è costituito dal fondamento stesso della civiltà europea, progressivamente affermatosi nell’evo moderno, cioè l’acquisita centralità della libertà e dell’autonomia dell’individuo nei vari ambiti della vita. Nell’età moderna la libertà diventa innanzitutto libertà del cittadino, prima che dell’entità politica. Sul piano della giustizia civile, ciò si traduce nella promozione rigogliosa dell’iniziativa e del ruolo permanentemente attivo delle parti nel comporre consensualmente la controversia o singoli aspetti di essa. Il secondo pilastro è piantato all’interno della giustizia civile ed è costituito dalla combinazione tra il principio di cooperazione e il principio di proporzionalità, che dà forma dall’interno al tessuto delle regole e si riflette appunto nella struttura del processo di cognizione.
La disposizione inaugurale delle Regole europee modello enuncia il principio di cooperazione: «Le parti, i loro avvocati e la corte cooperano al fine di una giusta (fair), efficiente e rapida composizione della controversia»[43]. Si ode immediatamente l’obiezione dei realisti disincantati: è pia illusione, quando non è frutto di malcelata ipocrisia, l’idea che il processo civile possa trovare il proprio cardine nel principio di cooperazione. Esso è piuttosto l’aspro terreno di scontro fra gli interessi contrastanti delle parti e – non di rado almeno in Italia – di conflitto tra le categorie professionali di giudici e avvocati. In replica, non varrebbe calare in campo la classica osservazione, uno poco stantia, che le Regole europee modello, come qualsiasi altra disciplina giuridica, si muovono sul piano del dover essere normativo.
Si tratta invece di ritornare a srotolare pazientemente la «gomena» che tiene insieme le dimensioni del tempo storico, cogliendone le stratificazioni[44]. L’opzione di fondo in favore del principio di cooperazione rinviene i propri antecedenti nelle scelte compiute in alcuni codici di procedura civile europei a cavallo tra XIX e XX secolo. L’aspirazione implicita è di superare (mediandole) due immagini contrapposte dell’essere umano che alimentano ideologicamente la concezione dei rapporti tra processo civile e società nella cultura occidentale moderna. Da un lato, l’essere umano sarebbe il fattore scatenante di un conflitto, di cui è emblema la massima plautina homo homini lupus (che, per la verità, suonerebbe offensiva per i lupi). Il conflitto richiede di essere composto attraverso l’intervento di un ente collettivo: storicamente, nell’epoca moderna, lo Stato. Fondamentalmente, è l’immagine propria del pensiero di Thomas Hobbes. È un’idea ben presente ai cultori del processo civile nell’esperienza europeo-continentale, ove la materia è costruita sul pilastro del divieto di farsi giustizia da sé, a cui è abbinato il monopolio della forza, preteso tradizionalmente dallo Stato entro il proprio territorio[45] ed esercitato per mezzo di procedure che ne autorizzano l’uso legittimo in favore di chi ne necessiti per tutelarsi.
Dall’altro lato, nell’esperienza di common law, specialmente nordamericana, campeggia il pensiero di John Locke: l’individuo e la sua libertà costituiscono il fondamento e il perno dell’ordine sociale. Corrispondentemente, l’idea della contropartita tra divieto di autotutela privata e istituzione del processo civile statale si riscontra meno nel pensiero giuridico di common law, che muove piuttosto dall’idea di una certa linea di sviluppo, senza drammatiche soluzioni di continuità, tra rimedi privati e rimedi giurisdizionali: quella stessa linea di continuità che costruisce l’ordine sociale sulla fiducia nell’individuo e nelle sue energie creatrici[46].
Diversa da queste due visioni contrapposte, ma accomunate dall’assunto che si dia un’essenza o natura umana orientata, è l’immagine della deinotes, cantata già nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (Soph. Ant. 332-375): «Molte sono le cose straordinarie, eppure nulla di più straordinario dell’uomo esiste»; laddove «straordinario» (deinos) indica meraviglioso, ma anche terribile, come ente indeterminato verso il bene o verso il male[47]. Indubbiamente accattivante è l’idea di una antropogenesi concepita non come evento compiutosi una volta per tutte in un certo momento, bensì come processo storico sempre in corso (Giorgio Agamben). Senza cessare di restare animale, l’essere umano sarebbe costantemente in atto di diventare umano attraverso il linguaggio (e di mancare frequentemente l’obiettivo). Ciò che dà forma all’antropogenesi sarebbe il linguaggio, l’articolarsi della voce in suoni che trovano corrispondenza in segni. In altre parole, vi sarebbe un movimento ininterrotto del diventare umani, determinato storicamente dalla rete linguistica intessuta con altri viventi umani.
Non credo di essere vittima di esasperata influenza della specializzazione degli studi – dalle cui esagerazioni bisogna pur sempre rifuggire – se ritengo che la fondazione del processo civile sulla cooperazione, come dispositivo sociale sempre in atto di realizzarsi e continuamente esposto al fallimento, altro non è che la costruzione di un meccanismo in cui i conflitti non tanto si compongono, quanto si dispongono a conservare quanto vi è in loro di capacità innovativa dell’essere sociale; una costruzione orientata all’idea che non vi sia un “essere” umano, ma si dia un costante “divenire” umano del vivente uomo, un distinguersi incessante dagli altri animali e, quindi, un permanente restare ancorati a un fondo di animalità. Mi sembra che nel processo giudiziario il nostro perpetuo diventare umani attraverso il linguaggio, così come i ritorni di fiamma verso la nostra animalità, si possano cogliere con particolare evidenza, come in un laboratorio; così come vi rilucono i riflessi dell’ambiente sociale circostante.
Per le persone coinvolte, il processo è un fenomeno sociale più concreto, penetrante nella psiche e assorbente di energie di altre manifestazioni di applicazione pratica del diritto; è un luogo di incontro tra individui con culture, ruoli e tratti caratteriali diversi e frequentemente contrapposti, che si confrontano in costellazioni diverse, intrecciantesi tra di loro; è un fenomeno di diritto immediatamente vissuto e combattuto in un ambiente in cui dimensioni individuali e collettive, destini personali e prospettive professionali si intrecciano nel profondo. Specialmente nell’ultimo mezzo secolo, la progressiva consapevolezza di questo intreccio ha dischiuso il processo all’osservazione e sperimentazione di altre branche del sapere, in particolare all’economia, alla sociologia, alla psicologia, alla linguistica, le quali hanno ridimensionato l’esclusività delle pretese cognitive e normative della scienza giuridica. Il fenomeno è esploso con la diffusione dei metodi di composizione delle controversie cosiddetti alternativi rispetto alla giustizia statale. Essi hanno tentato di accreditarsi come strumenti migliori rispetto a quest’ultima (riuscendovi in parte), non solo da un punto di vista economico, ma in virtù di una loro maggiore capacità cognitiva del reale conflitto di interessi sottostante alla controversia, al di là della formulazione giuridica delle relative pretese[48]. Non è certo un caso che i metodi negoziali di composizione dei conflitti abbiano lanciato la loro sfida sul campo del linguaggio, dinanzi alla quale mostra la corda (sebbene se ne intravveda l’utilità aziendale) la reazione in termini di disciplina di sinteticità e chiarezza, nonché di moduli e formulari, degli atti processuali[49].
10. Segue: combinazione dinamica tra cooperazione e proporzionalità
Nella formulazione accolta dalle Regole europee modello sul processo civile, il principio di cooperazione riflette bene l’unitarietà essenziale della struttura di quest’ultima. Tuttavia, nello svolgimento della trama dell’apparato normativo, il principio di cooperazione segue il ritmo vitale della controversia. Prima di tutto la cooperazione è tra le parti (e inizia fuori dal processo) e poi tra le parti e il giudice. I due momenti potrebbero essere distintamente seguiti nelle loro irradiazioni in una serie di disposizioni specifiche distribuite in tutto il testo, a partire dalle due regole immediatamente successive[50]. La scansione trova il suo precipitato saliente nella composizione consensuale delle controversie, che costituisce il terzo dei principi che aprono la prima parte delle Regole europee modello.
Combinati e bilanciati tra di loro, i due principi di cooperazione e di proporzionalità offrono base normativa al tentativo di trovare un equilibrio dinamico tra l’ambito dei poteri riconosciuto alle parti come proiezione processuale della loro autonomia privata e del carattere normalmente disponibile dei rapporti giuridici oggetto del processo civile, da un lato, e, dall’altro lato, i poteri del giudice, che è chiamato a trattare la singola disputa senza perdere di vista la buona (proper) amministrazione della giustizia (con ripartizione equilibrata delle sue risorse di tempo tra tutte le controversie che egli ha in carico)[51].
Lo scopo del principio di cooperazione, cioè una risoluzione giusta, efficiente e rapida della controversia[52], non può conseguirsi senza un’equilibrata ripartizione delle risorse devolute alla gestione dell’insieme dei processi. Ormai da decenni si è diffusa in Europa la consapevolezza che, sul fronte della disciplina processuale, che – come si è ripetuto fin dall’inizio – è solo uno fra i molti fattori che incidono sull’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, è necessario delineare principi da concretizzare in canoni di condotta che, come il principio di proporzionalità, mettano in relazione la trattazione della singola controversia e la gestione della massa dei processi e orientino verso un equilibrio tra la protezione degli interessi individuali di chi agisce o si difende nel singolo processo e gli interessi, considerati nel loro complesso, di coloro che sono terzi rispetto alla singola vicenda processuale, cioè gli interessi degli altri utenti potenziali o attuali del servizio giustizia. Questi ultimi interessi si appuntano sulla gestione efficiente della massa dei processi[53].
11. Segue: case management
Nelle sue interne relazioni reciproche, il dittico di principi d’apertura (cooperazione, proporzionalità), che culmina poi in un trittico attraverso il principio della risoluzione negoziale delle controversie, rappresenta una delle novità salienti delle Regole europee modello sul processo civile e costituisce il miglior viatico per comprendere la struttura del processo di cognizione ivi delineata, sulla quale a questo punto si ritorna a riflettere.
L’osservatore italiano, abituato alla tradizione romano-canonica dello snodarsi della fase istruttoria collocato tra lo stadio introduttivo e quello finale, sarà stato colto di sorpresa dalla presenza di una fase intermedia di carattere “preparatorio” e da una fase finale impegnata dall’udienza principale. Egli penserà che le Regole europee modello potranno ambientarsi solo in pianeti differenti dal suo. In realtà, l’impressione è da ridimensionare, come si vedrà più avanti, additando qualche spunto comparatistico ulteriore (rispetto a quelli già indicati indietro)[54] da cui riguardare la riforma del 2021/2022 del processo civile italiano[55].
Il primo aspetto meritevole di essere sottolineato è la parte dedicata alla disciplina generale del case management[56]. Sotto il titolo «Accurata condotta del processo ad opera delle parti», la Regola di esordio (n. 47) rappresenta un notevole esempio di predeterminazione normativa elastica dei modi di scansione temporale del procedimento: «Le parti sono tenute a presentare le loro domande, difese, allegazioni di fatto e deduzioni probatorie nel modo più tempestivo e completo possibile e nel modo più appropriato a un’accurata condotta del processo al fine di garantirne la speditezza». Per rendersi conto dell’importanza strategica di questa parte nell’intera architettura delle Regole europee modello, non vi è cosa migliore che dare una prima lettura al testo delle regole.
Sul versante della disciplina dei poteri del giudice, la combinazione dinamica tra cooperazione e proporzionalità trova espressione in quella che si può definire come la clausola generale di flessibilità, con cui si apre la regola dedicata agli strumenti di case management. A rischio di spazientirvi, o lettori, riporto integralmente il testo della Regola 49: «Ove necessario per il buon management del processo, la corte, in particolare: (1) incoraggia le parti ad attivarsi per risolvere la controversia o aspetti della controversia e, ove appropriato, a valersi di metodi alternativi di risoluzione delle controversie; (2) fissa le conferenze di case management; (3) determina il tipo e la forma del processo; (4) stabilisce un programma o un calendario del processo con termini per gli atti processuali che le parti e/o i loro avvocati sono tenuti a compiere; (5) limita il numero e la lunghezza delle future memorie; (6) determina l’ordine in cui le questioni sono da trattare e se le cause sono da riunire o da separare; (7) stabilisce la separazione delle questioni relative alla giurisdizione, alle misure cautelari e alla prescrizione al fine di deciderle anticipatamente in apposite udienze; (8) prende in considerazione le modifiche da apportare al fine di una corretta rappresentanza delle parti, le conseguenze di mutamenti relativi alle parti e alla partecipazione di terzi, intervenienti o altre persone; (9) dà istruzioni concernenti le memorie o le deduzioni probatorie alla luce degli argomenti delle parti; (10) richiede la comparizione personale delle parti o di un rappresentante, che è tenuto ad essere pienamente informato su tutte le questioni rilevanti; (11) tratta le questioni relative alla disponibilità, ammissibilità, forma, comunicazione (disclosure) e scambio delle prove e, ove appropriato allo stato del processo, (a) decide sull’ammissibilità delle prove, (b) ne ordina l’assunzione»[57]. Riporto in nota le disposizioni successive[58].
Al fine del «buon management del processo», il giudice non è gravato di obblighi, ma di poteri-doveri da esercitarsi «ove necessario». Questo ho inteso indicare con l’espressione “clausola generale di flessibilità”. Così configurato, l’impressionante catalogo di poteri giudiziali necessita di una cornice di contenimento, in modo da evitare che esso si trasformi in uno strumento di arbitrio giudiziale. Due sono i fattori che sono chiamati logicamente a neutralizzare i rischi.
Il primo rischio di arbitrio scaturisce dall’esterno, cioè da un intollerabile sovraccarico di lavoro che spinga il giudice ad abusare di tali poteri per ridurre il proprio carico di lavoro in modo indebito, in particolare facendo operare le norme processuali come “tagliole” attraverso un’interpretazione formalistica. Mitiga il rischio la predisposizione di risorse umane e materiali in misura sufficiente ad agevolare la migliore applicazione della disciplina normativa.
Il secondo fattore di rischio scaturisce dalla personalità del singolo giudice e può essere mitigato dalla cultura (non solo giuridica) che incida sulla già ricordata indeterminatezza delle propensioni umane, nel senso di innalzare il grado di lealtà, correttezza e buona fede delle relazioni professionali con le parti, gli avvocati e le altre figure coinvolte nell’amministrazione della giustizia.
Ove questi rischi si mantengano sotto controllo, la clausola generale di flessibilità perde il suo carattere dirompente e si profila come il primo elemento del test di proporzionalità tripartito cui è sottoposto l’esercizio dei pubblici poteri, nel senso della verifica della: (a) necessità di esercitare il potere, (b) idoneità allo scopo (che in questo caso è la giusta composizione della controversia) e (c) adeguatezza (cioè l’esercizio calibrato, che eviti l’eccesso e il difetto rispetto allo scopo).
12. Segue: fase introduttiva della causa
Passando alla disciplina della fase introduttiva della causa[59], il primo gruppo di regole è rivolto ai Doveri processuali anteriori all’inizio della causa e reca traccia dell’esperienza inglese dei Pre-Actions Protocols. La regola di esordio (n. 51) prevede che: «Prima dell’avvio del processo, le parti cooperano tra loro al fine di evitare dispute e spese inutili, di facilitare la tempestiva composizione consensuale della controversia e, qualora ciò non sia possibile, al fine di favorire il management proporzionato del futuro processo[60]. La disposizione attesta la scansione in due fasi della cooperazione (prima tra le parti; poi tra le parti e la corte) e si presenta altresì come un incisivo esempio di combinazione dinamica tra cooperazione e proporzionalità, focalizzantesi sulla composizione consensuale delle controversie. Riletta da questo punto di vista, la Regola 51 si commenta da sola. In particolare, essa ha lo scopo di trovare un giusto equilibrio tra gli estremi – perseguiti nell’uno o nell’altro degli ordinamenti nazionali europei – dell’obbligatorietà del tentativo stragiudiziale, da un lato, e, dall’altro lato, l’inesistenza di qualsiasi incentivo alla composizione consensuale. La Regola 51 richiede alle parti di intraprendere passi diretti a chiarire tempestivamente gli elementi essenziali della potenziale controversia; ciò che corrisponde già alle migliori prassi a livello europeo[61].
Suggerimenti derivano inoltre dalla cura con la quale le Regole europee modello dettano la disciplina dell’atto introduttivo del giudizio, ove si richiede tra l’altro di allegare «i fatti costitutivi della domanda in modo ragionevolmente dettagliato con riferimento al tempo, al luogo, alle persone e agli eventi», nonché di «descrivere con sufficiente precisione i mezzi di prova disponibili a supporto delle allegazioni»[62]. Altri notevoli spunti di riflessione, nonché di impiego immediatamente pratico nella impostazione di testi normativi relativi alla fase introduttiva del processo, derivano dalla lettura delle disposizioni successive, rivolte a: «Difesa e domande riconvenzionali»[63], «Modifiche degli atti introduttivi»[64], «Rinuncia e riconoscimento della pretesa»[65].
13. Segue: domanda congiunta di processo concordato tra le parti
Un cenno merita la disciplina della domanda congiunta di processo concordato tra le parti[66], che rientra a buon titolo in un discorso generale sulla struttura del processo, costituendo una struttura di cognizione delle controversie interna alla giustizia civile statale, ma parallela e alternativa rispetto alla disciplina legislativa (o comunque normativa, di carattere pubblicistico).
In via preliminare, è opportuno richiamare l’attenzione su un fenomeno che può aver sollecitato l’introduzione di siffatta disciplina. Si tratta di un fenomeno sviluppatosi in anni recenti, che in Europa è stato incentivato dalla Brexit: è il tentativo di entrare in concorrenza con la piazza giudiziaria di Londra in relazione alle controversie commerciali internazionali. Mi riferisco alle “corti commerciali internazionali”, ovvero a “corti internazionali d’impresa” (nella lingua inglese, la terminologia oscilla tra Commercial Courts oppure Business Courts)[67]. Le corti commerciali internazionali si assidono su un terreno intermedio tra giustizia civile statale e arbitrato commerciale internazionale. Infatti, di regola si fondano sull’accordo delle parti per la scelta del foro, danno uno spazio, variabile a seconda degli ordinamenti, all’uso dell’inglese come lingua processuale, adottano frequentemente un sintetico regolamento processuale ad hoc e gravano le parti di spese processuali maggiori rispetto al normale contenzioso, ma minori rispetto all’arbitrato[68]. L’idea di creare corti commerciali internazionali presso le giurisdizioni statali tiene dietro a sollecitazioni scaturenti da una comune realtà sociale ed economica, quella della globalizzazione (che negli ultimi anni ha sperimentato pesanti battute di arresto a cagione della pandemia e del conflitto bellico tra Russia e Ucraina, ma non è certamente cancellabile). In particolare, le International Business Courts costituiscono uno degli aspetti del fenomeno fascinosamente delineato tre lustri or sono da Saskia Sassen: «La trasformazione dell’epoca che si chiama globalizzazione si sta producendo all’interno della dimensione nazionale più di quanto comunemente si pensi. È qui che i significati più complessi della dimensione globale vengono a costituirsi (...). Una buona parte della globalizzazione consiste in una enorme varietà di microprocessi che iniziano a denazionalizzare ciò che era stato costruito come nazionale: politiche, capitali, soggettività politiche, spazi urbani, cornici temporali e una varietà di altri elementi»[69]. Il discorso si attaglia perfettamente alle corti internazionali d’impresa. In questa cornice si spiega anche la mobile collocazione dell’aggettivo “internazionale”, poiché segnala che il carattere transnazionale delle controversie trasmuta anche i tratti delle corti che le conoscono, dispiega una notevole forza immaginifica, evocatrice di uno di questi processi di denazionalizzazione.
Con la disciplina della domanda congiunta di processo concordato tra le parti, le Regole europee modello profilano una notevole proposta di una comune cornice normativa, cui potrebbero ispirarsi gli ordinamenti desiderosi di condividere questa esperienza, così come di coltivare una “terza via” tra arbitrato e giustizia civile statale[70]. Sotto il titolo «Contenuto della domanda congiunta», si dispone: «(1) La domanda congiunta è una dichiarazione in cui le parti presentano congiuntamente alla corte un accordo ai sensi della Regola 26, le rispettive domande e difese, le questioni controverse che affidano all’accertamento della corte e le rispettive deduzioni su tali questioni. (2) Sono requisiti di ammissibilità della domanda congiunta: (a) l’indicazione delle parti; (b) l’indicazione del giudice adito; (c) il rimedio richiesto, compresa la somma di denaro o i termini specifici di qualsiasi altro rimedio richiesto; (d) i fatti rilevanti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda. (3) La domanda congiunta indica i mezzi di prova disponibili a supporto delle allegazioni di fatti. Ove possibile, tali mezzi di prova devono essere depositati insieme alla domanda. (4) La domanda congiunta è firmata e datata dalle parti»[71].
In un certo senso, la disciplina della domanda congiunta, accanto alla clausola generale di flessibilità di esercizio dei poteri giudiziali di case management[72] e agli ordini di case management concordati tra le parti[73], è il vertice del già menzionato trittico di principi (la combinazione tra cooperazione e proporzionalità, cui si aggiunge il principio di consensualità nella risoluzione delle controversie) che innerva tutta la struttura delle Regole europee modello sul processo civile.
14. Tra Regole europee e riforma italiana della fase introduttiva: sintesi comparatistica
Netta è la differenza dei punti di partenza tra il modello di processo di cognizione adottato dalle Regole europee modello sul processo civile e il processo civile di cognizione italiano. Netta rimarrà tale differenza pur dopo la riforma del 2021/2022. Nonostante il commento alle Regole europee modello parli – come si è avuto occasione di scrivere indietro – di scansione in tre fasi, la struttura della cognizione approntata dalle Regole europee si colloca piuttosto sul solco della seconda variante della struttura bifasica, imperniata su un’udienza principale[74], in cui la controversia, di regola, trova la sua definizione. Si rigetta la struttura sequenziale di udienze di origine romano-canonica[75], ma si rigetta anche la distinzione, indipendente dall’alternativa tra struttura bi- o trifasica, tra più moduli di trattazione[76], per muoversi in direzione di una disciplina flessibile, adattabile al grado di complessità della controversia grazie a un case management cooperativo prima solo tra le parti (sul piano stragiudiziale), e poi, successivamente all’inizio del processo, tra le parti e il giudice, su impulso e controllo di quest’ultimo.
Tuttavia, si possono scorgere alcune corrispondenze di orientamento tra ciò che si è scritto nelle Regole europee modello del 2020 e ciò che si è scritto in Italia nella riforma del 2021/2022. Se infatti tra il modello europeo e l’orientamento della riforma italiana vi fosse davvero quella abissale differenza, quella alterità radicale che pur ci è parso di intravedere in controluce dall’analisi precedente, i due testi normativi non potrebbero nemmeno essere comparati tra di loro. O almeno: non potrebbero essere comparati nelle loro rispettive direzioni di marcia. La comparabilità tra due fenomeni presuppone che essi non siano integralmente differenti tra di loro, ma che essi abbiano al contrario elementi comuni. Se due fenomeni non fossero comparabili, non se ne potrebbe nemmeno predicare la differenza.
Del procedimento semplificato di cognizione si è già detto[77]. Si può solo sintetizzare che la sequenza in cui una prima fase di negoziazione assistita, arricchita di possibilità istruttorie, è seguita eventualmente da una seconda fase assoggettata al procedimento semplificato di cognizione è la meno distante dal modello europeo prevalente, caratterizzato – come si è tentato di schematizzare con il soccorso delle Regole europee modello e si è appena ripetuto – da una struttura bifasica, imperniata su un’udienza principale e su un case management cooperativo prima solo tra le parti (sul piano stragiudiziale), e poi, successivamente all’inizio del processo, tra le parti e il giudice, su impulso e controllo di quest’ultimo (è appena il caso di aggiungere: senza vincoli dettati dall’obbligatorietà dei tentativi di mediazione, né prima del processo, né dopo). Se la prassi evolvesse massicciamente in questa direzione, lo sviluppo non sarebbe negativo e ci avvicinerebbe un poco di più all’Europa.
Quanto al procedimento ordinario, il potenziamento della prima udienza cui aspira (rectius: ritorna ad aspirare) la riforma italiana, attraverso l’allungamento dei termini di comparizione interpolato dallo scambio tra le parti di memorie integrative anteriori all’udienza, troverebbe anch’esso una sponda europea nella struttura imperniata sull’udienza principale. Inutile ripetere gli aspetti critici degli artt. 171-bis e -ter cpc, che ormai sono sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori. Più interessante è l’ipotesi controfattuale: che il meccanismo possa funzionare esattamente come lo ha immaginato il legislatore, secondo l’interpretazione che sembra emergere dalla lettera delle parole scritte in Gazzetta Ufficiale. Ipotizziamo cioè che il processo rimanga completamente fermo ai blocchi di partenza finché il giudice non conferma espressamente la data della prima udienza fissata dall’attore in citazione ovvero non la posticipa. In modo paradossale, in questa ipotesi (e solo in questa) in un certo senso non saremmo distanti dal modello europeo: nel senso che l’udienza principale non si terrebbe se non quando è in condizione di essere stata ben preparata prima. Senza necessità che l’udienza si tenga entro limiti temporali predeterminati nel quantum di durata, essa si dovrebbe comunque tenere «il più presto possibile», come prescrive per esempio il codice di procedura civile tedesco, adottando un modulo di scansione temporale elastico[78].
Senonché, sullo sfondo di questa corrispondenza, si stagliano decisive differenze. A parte l’interessante anticipazione dell’ampio potere giudiziale di rilevare le questioni rilevabili d’ufficio, rifulge il carattere monco dell’art. 171-bis cpc sia alla luce del codice di procedura civile tedesco, che delle Regole europee modello. In entrambe le discipline, la fase preparatoria è delineata in modo tale da affidare al giudice l’esercizio non solo di poteri di direzione formale del processo (tra i quali rientrano le verifiche preliminari), ma anche – come si è visto – incisivi poteri di case management per preparare nel modo migliore possibile l’udienza principale. Finché la giustizia civile italiana non si doterà delle risorse materiali e culturali per ambientare questo radicale spostamento di accento, ogni riforma della fase preparatoria sarà destinata a lasciare intatte le cose (nella migliore delle ipotesi).
Quanto ai metodi consensuali di composizione delle controversie, sullo sfondo di una propulsione verso questi ultimi che è, sia nelle Regole europee modello che nella riforma italiana, identicamente potente, si può osservare nitidamente che la propulsione sia alimentata da propellenti molto diversi tra di loro. Mentre nelle prime è sostenuta dalla “energia rinnovabile” della volontarietà, nella seconda è sostenuta dalla “benzina” (ricca di piombo) della mediazione obbligatoria in via stragiudiziale, che allarga ancora di più il suo ventaglio.
Infine, con l’attribuzione al procedimento sommario di cognizione del nome e della collocazione che gli sarebbero stati propri fin dall’inizio, la struttura del processo di cognizione italiano approda anche sotto questo profilo in Europa, almeno sotto il profilo della introduzione di più moduli di trattazione all’interno di una sequenza procedimentale fondamentalmente unitaria[79]. Senonché, in relazione a ciò, si registra uno sfalsamento nel gioco di corrispondenze tra sviluppi europei e riforma italiana. Nel frattempo, le Regole europee si sono spostate in avanti, verso un modello di trattazione unico, diretto e controllato dal giudice (preceduta dalla fase ante causam di case management solo tra le parti). Dopo l’inizio del processo, al fine di ben preparare l’udienza principale, alla corte si affidano incisivi poteri di case management, il cui esercizio dipende dalla più volte menzionata clausola di flessibilità, cui è assoggettata evidentemente la stessa comparizione personale delle parti, mentre in Italia se ne prevede la reintroduzione in forma obbligatoria.
15. Ciò che non è scritto nelle leggi: cultura comune della giurisdizione e crisi dell’unità della figura del giurista
È difficile prevedere se, con la riforma del 2021/2022 – colta nell’effettività della sua attuazione con riferimento a ciò in cui un’amministrazione della giustizia civile deve essere in primo luogo e costantemente efficiente: il normale processo di cognizione –, la giustizia civile italiana riuscirà ad avvicinarsi effettivamente agli ordinamenti europei che versano in migliori condizioni. A tale proposito non si può che rinviare a ciò che si è già detto in esordio sul giusto rapporto tra il numero di giudici (e di personale giudiziario) effettivamente addetti al lavoro giudiziario e il numero delle cause da trattare, nonché sull’ufficio per il processo[80].
Vi sono differenze tra modelli europei e giustizia civile italiana sulle quali poco o nulla possono le riforme legislative, poiché si tratta di diversità che non sono scritte nelle parole della legge, ma nei fattori materiali e culturali che consentono una giusta composizione della controversia. Sono presupposti dei quali le Regole europee modello scontano l’esistenza e la giustizia civile italiana sconta l’inesistenza.
Oltre ai fattori menzionati in apertura e appena ricordati, non bisogna mai stancarsi di sottolineare il ruolo decisivo del fattore culturale. Mi riferisco al permanente irraggiamento prodotto da una cultura che sia in grado di vedere i problemi, metterli in prospettiva, collocarli in contesto, pur in una realtà che si fa sempre più opaca; una cultura che sia in condizione di elaborare conoscenze, adottare giudizi e – ove possibile – formulare previsioni sulla base dell’esperienza del passato; una cultura che sia idonea ad arginare il magma della vita, senza deprimere il potenziale costruttivo, «istituente» direbbe forse Roberto Esposito[81], del conflitto tra interessi e ideologie; una cultura che possa cogliere in tale contrasto il terreno fecondo in cui si articola una mediazione essenziale alla conservazione della capacità di innovazione di ogni comunità; una cultura che inibisca al conflitto di trasformarsi in uno scontro irrimediabile tra entità corporative chiuse in se stesse, come cinte da muraglie; una cultura che, infine – per venire al settore dell’amministrazione della giustizia –, frapponga ostacoli al tracollo del grado di lealtà e correttezza delle relazioni tra le parti, gli avvocati, i giudici e le altre figure professionali. Diversamente, l’amministrazione della giustizia rimarrà frequentemente terreno di scontro tra le diverse categorie professionali, che stenteranno sempre di più a riconoscersi in una qualche immagine comune di giurista e di cultura giuridica.
Camminiamo sul filo di un difficile crinale. Assumono certo un carattere retorico i richiami che ancora, talvolta, si compiono a una unità del sapere giuridico, a una impersonale identità della figura del giurista. Sorrideranno i lettori affezionati alle pagine di Questione giustizia, specialmente quelli un poco più anziani che già leggevano Quale giustizia: il problema lo hanno vissuto sulla loro pelle quando erano un poco più giovani[82]. E tuttavia, certe cose urge ripeterle, per tenerle costantemente presenti alla nostra prassi di tutti i giorni. Quella retorica cela le pluralità identitarie delle giuriste e dei giuristi. Una serie di imponenti fenomeni, oltre ad aver determinato alcuni tratti basilari del mondo contemporaneo, ha moltiplicato e frammentato l’identità del ceto dei giuristi: le trasformazioni sociali prodottesi a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, l’ascesa dello «Stato pluriclasse»[83] attraverso il progressivo allargamento del suffragio elettorale, l’avvento delle democrazie pluralistiche che, dopo il Secondo conflitto mondiale e sulla base delle successive costituzioni, hanno rovesciato le terrificanti esperienze dei totalitarismi (in Italia e in Germania), l’apogeo dello Stato sociale e l’accesso agli studi superiori di giovani provenienti dalle classi sociali subalterne. La conseguente permanente instabilità dei quadri sociali e politici e il venire meno di fondamenti culturali e valoriali omogenei non ha investito solo il metodo e le categorie giuridiche, ma ha attaccato anche, non da oggi, l’identità dei giuristi.
I giuristi non possono uniformarsi sulla base della comune visione del mondo e delle convinzioni politiche. Non possono nemmeno assimilarsi sulla base di abiti di comportamento comuni, tramandati su base familiare e sociale e avvertiti in quanto tali come normativamente vincolanti. In una parola: non possono assimilarsi in forza di un ethos e di preferenze ideali comuni. Da tempo, sono diversi i luoghi da cui vengono e gli ambienti in cui vivono i giuristi e le giuriste. Le diversità di luoghi e di ambienti influenzano il patrimonio di idealità. Non esiste un’unica figura, ma esistono diverse figure di giuristi e di giuriste, con individualità che si rifrangono in un caleidoscopio di esistenze e coscienze individuali, segnate da diversità sociali, culturali, di genere, e via dicendo. Il mondo del diritto non solo si offre in modi differenti agli occhi di chi è giurista e di chi non lo è, ma appare in un modo se è visto da giuristi e giuriste che provengono dagli ambienti che tradizionalmente hanno espresso i giuristi, mentre appare in un altro modo se è visto da giuristi e giuriste che provengono da ambienti familiari e sociali estranei a quel mondo. Cosicché nell’ambiente dei giuristi non si può più dare quell’idem sentire che ha costituito per secoli il cemento della sua omogeneità[84].
Può trovare, così, una spiegazione il fatto che la fisiologica contrapposizione di ruoli processuali tra difensori e giudici tende ad acuirsi, trasformandosi in un generalizzato conflitto tra le categorie professionali degli avvocati e dei magistrati. Nell’ambiente italiano, ciò si verifica molto più che altrove.
In queste condizioni, qualsiasi riforma è destinata nel breve o nel lungo termine a fallire, se non si cercano altre strade.
16. Sulla rilevanza dei modi di insegnamento universitario del diritto
Non ci sono vie semplici o brevi per progredire. Tuttavia, ogni riflessione, per quanto critica, ha bisogno di concludersi con l’indicazione di direzioni di marcia e la formulazione di speranze. Se le considerazioni svolte nel paragrafo precedente hanno un minimo di plausibilità, dalla logica scritta nelle cose discende che una delle principali concause della china discendente imboccata dall’amministrazione della giustizia negli ultimi decenni è l’orientamento precocemente professionalizzante dell’insegnamento universitario del diritto: un fenomeno che non a caso si è prodotto nello stesso arco di tempo, frutto dell’orientamento aziendalistico che ha investito più o meno tutti i settori della società. Non se ne parla volentieri: le cause del malessere sarebbero sempre da ricercare da altre parti. Sembra anzi che si tratti della migliore tra le evoluzioni.
Personalmente, sono sempre stato convinto del contrario. Collocare fuori dall’insegnamento universitario del diritto l’analisi delle componenti pratico-professionali servirebbe ad incentrare la didattica sull’individuazione e la discussione dei nodi teorici principali della materia (mi riferisco al diritto processuale civile, che ho insegnato per circa trent’anni, ma il discorso ha carattere generale). Ciò servirebbe a meglio indicare agli studenti cornici teoriche e prospettive che dovrebbero sorreggerli nel corso della loro vita professionale futura. L’insegnamento universitario del diritto, o almeno quello che si pratica nei corsi di laurea, dovrebbe indirizzarsi verso tali nodi teorici, sulla cui base sarà più semplice l’apprendimento, in un secondo momento, delle abilità professionali. In un tempo di rapidissimi mutamenti della realtà sociale ed economica, nonché di incrementata circolazione (anche transnazionale), si richiede una notevole flessibilità e capacità di adattamento a nuove circostanze. Tali qualità possono svilupparsi nel modo migliore attraverso un insegnamento di contenuto teorico, sganciato da elementi pratico-professionali che sono inevitabilmente ancorati a un certo ambiente e momento del tempo, e sono pertanto contingenti e oggi sottoposti a rapida obsolescenza, mentre la ricerca e l’insegnamento dei fondamenti consentono di riconoscere e studiare tempestivamente le rapide modificazioni strutturali del diritto (e non solo di quest’ultimo).
Ove riacquisisse pienezza di vita una prassi di insegnamento del diritto orientata ai nodi teorici delle varie branche del diritto, si potrebbero articolare poi degli interscambi di esperienze nelle varie professioni – in modo tale che i giovani, adiuvati da quella comune piattaforma teoretica, evitino di cadere facili prede di una socializzazione corporativa prodotta dalla polarizzazione sugli stilemi della specifica professione legale poi durevolmente praticata. Non era questa l’idea da cui trasse spunto l’introduzione delle scuole di specializzazione delle professioni legali? Sui vizi originari dell’attuazione del modello in Italia e sulle cause del fallimento non si è riflettuto ancora abbastanza. Ove si innescasse un movimento di questo tipo (e forse si potrebbe essere innescato comunque - almeno a livello embrionale - attraverso l’ufficio per il processo), se non altro si leggerebbero meno frequentemente certe filippiche demagogiche che talvolta si lanciano dall’un fronte professionale all’indirizzo dell’altro: sono sermoni retorici, quando non sono sgangherati. Recare in sé il punto di vista altrui è il modo migliore per approssimarsi alla propria identità, personale e professionale. Come si fa a definire se stessi se non si costruiscono soglie di attraversamento verso altre identità e non ci si arricchisce del riconoscimento empatico entro di sé di tratti di altre culture umane e professionali[85]?
17. Politico e Politica
Vi è infine da indicare un ultimo punto, che racchiude tutti gli altri. Che la giustizia civile italiana (o meglio: alcuni suoi settori nevralgici) rimanga o meno nelle condizioni in cui attualmente si trova – al netto dei miglioramenti di default indotti dalla digitalizzazione e dal progressivo diffondersi di strumenti culturali di buona organizzazione – non è il frutto di una maledizione divina che perseguita le persone di buona volontà fra gli avvocati, i magistrati, i professori universitari, i dirigenti e funzionari amministrativi, i cancellieri, gli ufficiali e operatori giudiziari, etc., ma dipende da un’alacre operosità da parte di gruppi di interesse, piccoli o grandi, ma sempre corposi, che si annidano in ogni professione legale e cospirano a mantenere la giustizia civile in quelle condizioni.
Talvolta i grumi di interessi particolaristici si dispongono trasversalmente rispetto alle varie categorie professionali, stringendo alleanze tattiche in zone opache del sistema per mantenere uno status quo dal quale essi traggono benefici a scapito del bene comune. Ciò accade – nonostante le polemiche più o meno virulente tra l’esponente dell’una o dell’altra categoria, ospitate generosamente dalle pagine di giornali e siti internet – al riparo da una “opinione pubblica” che meriterebbe in realtà tale appellativo, solo se fosse dotata dal sistema scolastico e universitario di strumenti critici per effettuare un controllo effettivo sulla gestione delle cose pubbliche. Attualmente ciò accade poco: il problema affrontato nel paragrafo precedente non concerne solo le scuole di giurisprudenza.
Tale è oggi il quadro critico che circonda e alimenta i problemi di funzionamento della giustizia, nonché degli altri servizi pubblici davvero essenziali in Italia, come la sanità e la scuola. Siffatte concrezioni di interessi, sorrette dall’influenza delle reti e consorterie di potere che caratterizzano ogni ambiente sociale e professionale nel Bel Paese, più che in molti altri Paesi europei, non possono essere contrastate dai frequenti richiami al rispetto di «valori» arricchiti da un florilegio di complementi di specificazione (persona, diritti umani o fondamentali, diritto sostanziale e processo, etc.): si tratta frequentemente di colpi di teatro che lasciano il tempo che trovano.
Nella frammentazione politica e culturale della società pluralistica, il problema non è quello della fondazione etica della legittimità, magari attraverso la retorica dei giusnaturalismi di ritorno, bensì piuttosto quello della sua fondazione politica. Ricordo le parole di Giacomo Leopardi: «La morale è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione»[86] e le interpreto come segno che un genio vissuto nei primi decenni dell’Ottocento, pur estraneo al mondo della politica e del diritto, era perfettamente consapevole dell’avvento del primato della politica nella strutturazione della società e nella individuazione degli obiettivi attinenti al bene comune.
Detto in altre parole, rivolte all’oggetto specifico di questo saggio: non è ragionevole attendersi che disegni globali di miglioramento dell’amministrazione della giustizia vengano promossi dalle professioni legali interessate, che curano legittimamente interessi particolari. Le declamazioni contrarie sono sempre intessute da un leggero filo di ipocrisia. Beninteso: non intendo pretermettere gli sforzi virtuosi, talvolta eroici, di molti singoli magistrati, avvocati e circoli di élite che lottano ogni giorno contro le inefficienze dell’apparato giudiziario. Dubito solo che un’inversione sistemica di tendenza possa provenire dalle sole forze di costoro. Occorre che si manifesti una potenza in grado di dare forma a una concezione del bene comune convincente e autenticamente vissuta, nonché di mobilitare forze attive sul piano storico che ne assicurino la prevalenza sugli interessi di categoria.
Questa potenza (attualmente) assente è quella che promana dal politico e da una (grande e autorevole) politica[87]. L’ambito del politico è distinto, sebbene congiunto da un rapporto di interdipendenza con l’esercizio della politica, come lotta di parti per la conquista del potere, azione di governo e vita delle istituzioni. Accolgo così la diade concettuale proposta in termini generali in sede storica e sociologica[88]: «Il politico (…) corrisponde contemporaneamente ad un ambito e ad un processo. In quanto ambito designa il luogo all’interno del quale si intrecciano i molteplici fili della vita degli uomini e delle donne, fornendo la cornice ai loro discorsi e al loro agire. Quest’idea rimanda all’esistenza di una “società” che appare agli occhi dei propri membri come un “tutto” dotato di senso. In quanto processo il politico (…) si costituisce attraverso l’elaborazione sempre conflittuale di regole esplicite o implicite riguardanti il partecipare e il condividere, dando così forma alla vita della polis». Parlando in termini sostantivati del politico, ci si riferisce: «tanto ad un modo di essere della vita comune quanto ad una forma dell’azione collettiva che si distingue implicitamente dall’esercizio della politica. Fare riferimento al politico e non alla politica significa parlare del potere e della legge, dello Stato e della nazione, dell’uguaglianza e della giustizia, dell’identità e delle differenze, della cittadinanza e dell’essere civile, insomma, di tutto ciò che costituisce una polis»[89].
Vi sono (vi devono essere), evidentemente, delle interfacce e delle soglie di scorrimento tra il politico, così inteso, e la politica come lotta partigiana per la conquista di dimensioni di potere entro il sistema della società che nell’età moderna, in conseguenza del radicale processo di secolarizzazione, si è differenziato dagli altri assumendosi il compito di essere permanentemente attivo nella quotidianità della vita del governo e delle istituzioni per l’elaborazione e l’adozione di decisioni collettivamente vincolanti[90]. È forgiata da un umano desiderio del ceto dei giuristi di autocelebrarsi, ma risulta debole, se non è inserita in questa dimensione, la prospettiva che s’impernia sulla incorporazione di una tavola di valori morali nelle costituzioni democratiche del Secondo dopoguerra[91], sulla conversione della fondazione etica della legittimità in un problema giuridico e sul collegamento biunivoco tra tale fondazione e il giudizio della Corte costituzionale[92]. Il concetto espresso dal latino bonum, che allude a un qualcosa di oggettivo, si traduce in termini moderni come «valore», che significa il risultato di un’attività di valutazione, di un giudizio, cioè di un atto di pensiero, che in quanto tale è esercizio di intelletto e di ragione, ma è soprattutto affetto da passioni ed è sostenuto da volontà di potenza, di assicurare la prevalenza della propria valutazione rispetto a quella altrui in un determinato ambito della vita, in una situazione di conflitto in cui non è data cognizione dei valori.
L’ingresso nel sistema delle fonti del diritto delle costituzioni democratiche della stagione successiva alla Seconda guerra mondiale tradusse sì in questione di diritto costituzionale, attraverso il potere costituente, il problema della fondazione politica di una comunità di esseri umani, ma nello stesso tempo – soprattutto – convertì in questione politica il problema della fondazione della legittimità costituzionale[93]. Le costituzioni democratiche, e particolarmente la Costituzione italiana – grazie all’indeterminatezza di sviluppi dei quali l’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale arricchisce le società democratiche – convertono il tema del fondamento della tenuta di un gruppo sociale in un costante processo di fondazione, attraverso il quale una popolazione di individui prova a diventare una comunità. Il processo è carico di rischi e di opportunità, giacché le disposizioni costituzionali indicano frequentemente diverse, talvolta contrapposte direzioni di marcia della società e rimangono affidate a concretizzazioni successive, attraverso le scelte delle forze sociali e politiche dominanti nel paese[94], nonché il riconoscimento e la mobilitazione popolare. Nel quadro segnato dalla Costituzione, offrire nella sfera pubblica contenuti, concretizzati nell’arco del tempo, all’obiettivo di migliorare la vita (o, quantomeno, di arginarne il disordine dal punto di vista di noi esseri umani) è prerogativa della politica, intesa nell’accezione weberiana, già riproposta indietro, come sistema che si è assunto il compito di adottare decisioni vincolanti nella vita quotidiana della collettività. Sostenere che dare contenuti concreti al miglioramento della vita è prerogativa della politica significa escludere in via di principio che ciò spetti alla religione, se non per quel tanto di sacralità che la religione dovrebbe restituire alla politica pur secolarizzata, ovvero spetti alla filosofia, all’etica e tanto meno al diritto. Nel costruire e perseguire nell’arco del tempo l’obiettivo del miglioramento della vita consiste la nobiltà della politica, come la nobiltà della giurisprudenza (al pari di altri saperi) è di apprestarne i mezzi. Il primato della politica va riaffermato al cospetto della debolezza della politica attuale[95].
In altri termini e in conclusione, a parte le inevitabili manifestazioni di sovranità della decisione politica rispetto alle ragioni tecniche, salva cioè la potestà degli organi politici di determinarsi in modo non conforme ai risultati delle analisi tecniche nelle diverse branche del sapere (anche ove i pareri tecnici non contrastino gli uni con gli altri: ciò che in verità accade molto frequentemente), l’argomentazione politica ha una struttura che deve avvicinarsi all’argomentazione giuridica. Weber insegnò che la politica come «vocazione» è partecipe del movimento di razionalizzazione del mondo, che è uno dei tratti cardinali dell’epoca moderna. L’agire politico, colto nel suo dover essere, in ciascuna delle sue varianti, si svolge pur sempre secondo una forma di razionalità e si articola in tentativi di combinare possibilmente «etica della convinzione» ed «etica della responsabilità»[96]. Anche la forma dell’agire politico è gravata di regola dell’onere «di persuadere non con tecniche manipolative del consenso, incuranti della verità, bensì comunicando argomenti criticamente vagliati e non soltanto efficaci per accattivarsi l’uditorio»[97].
In questa configurazione, lavoro giuridico e lavoro politico si inseriscono nel continuum di un lavoro intellettuale caratterizzato da una comune tensione verso la razionalizzazione del mondo e da nessi di condizionamento reciproco. Interest rei publicae che la politica recuperi la cultura, l’autorevolezza e la forza che le consentano di svolgere pienamente il suo compito nobile: guidare gli altri sottosistemi all’interno della società. In particolare, il problema è quello di restituire alla politica la capacità di «donare vincoli»[98] sia alla tecnica, cioè di evitare che essa abbia come unico scopo quello di incrementare la sua capacità di realizzare tutti gli scopi possibili[99], sia all’economia, cioè di evitare che essa si esaurisca nella ricerca della massimizzazione del profitto fine a se stessa.
1. La riforma è stata adottata dal d.lgs n. 149/2022, in attuazione della l. n. 206/2021. L’altro pilastro è il d.lgs n. 151/2022, relativo alla costituzione del nuovo ufficio del processo (sul quale sia consentito il rinvio a R. Caponi, Un orizzonte aperto su una nuova forma di vita giudiziaria: l’ufficio per il processo, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2021, pp. 171-172, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/972/3-2021_qg_caponi.pdf). La legge di bilancio 2023 (l. n. 197/2022) ne ha disposto l’applicazione in via generale ai processi instaurati dopo il 28 febbraio 2023, cioè dal 1° marzo 2023 (compreso) in poi (cfr. art. 35 d.lgs n. 149/2022), ma la disciplina delle udienze mediante collegamenti audiovisivi (art. 127-bis cpc) e del deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza (art. 127-ter cpc) ha trovato applicazione già dal 1° gennaio 2023, al fine di assicurare continuità di copertura normativa di queste modalità rispetto alla cessazione di efficacia della disciplina emergenziale occasionata dalla pandemia.
2. I paragrafi 3-5 del testo hanno costituito al base di partenza della relazione Strutture del processo di cognizione: modelli europei e riforma italiana, all’incontro di studio su «La riforma del processo civile», organizzato dalla Struttura territoriale di formazione decentrata del Distretto di Milano, nella persona del magistrato referente Nicola Fascilla (Milano, Palazzo di Giustizia, 27 marzo 2023). Gli altri relatori all’incontro di studio sono stati Luigi D’Alessandro e Pier Paolo Lanni.
3. Sia consentita la citazione testuale da R. Caponi, Modelli e riforme del processo di cognizione in Europa [2005], ora in Dogmatica giuridica e vita. Studi di giustizia civile, tomo I, Giuffrè, Milano, 2022, p. 325.
4. Sul punto specifico si rinvia ad A.M. Tedoldi, Le ADR nella riforma della giustizia civile, anticipato su Questione giustizia online, 27 marzo 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/adr-riforma), ora in questo fascicolo.
5. In tema, sia consentito il rinvio a R. Caponi, Conciliazione e mediazione, serie di saggi raccolti ora in Dogmatica giuridica e vita, tomo II, op. cit., pp. 1059-1130.
6. Nella letteratura italiana sull’attuale riforma del processo civile, un interessante spunto d’impiego di questa dimensione come cornice teorica di diretto esame di istituti tecnico-giuridici proviene da E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2021, pp. 105-111 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/962/3-2021_qg_scoditti.pdf), sebbene (anche) su questo terreno il confronto fra le diverse matrici della cultura occidentale, segnatamente tra quella anglo-americana ed europeo-continentale impegni alla massima cautela. Volendo chiudere con una battuta un discorso che altrimenti richiederebbe una vita di ricerche: l’istituzionalismo europeo-continentale è elaborato all’ombra dello Stato. Tale ombra è molto tenue nel pensiero degli studiosi statunitensi. Soccorre qui, oltre alla lettura dei classici (di Maurice Hauriou in particolare, per quanto riguarda il pensiero giuridico), la recente imponente linea di ricerca di Roberto Esposito, specialmente a partire da Pensiero istituente, Einaudi, Torino, 2020, con scritti successivi che stanno componendo una trilogia (per menzionare solo i libri).
7. Cfr. supra, alla fine del par. 1.
8. Parole chiarificatrici sull’aspetto che ha attirato la maggiore attenzione nel 2022 sono venute da Cass., sez. unite, n. 9479/2023.
9. Cfr. il nuovo capo III-quater, intitolato al «Procedimento semplificato di cognizione».
10. Sia consentita la citazione testuale da R. Caponi, Procedimento sommario di cognizione [2010], ora in Dogmatica giuridica e vita, tomo I, op. cit., pp. 333 ss.
11. Ivi, p. 338.
12. Ivi, pp. 341 ss.
13. Tale schema sarà più avanti arricchito di dettagli, a partire dal prossimo paragrafo.
14. Si tratta della variante sub (c): cfr. il secondo capoverso di questo paragrafo.
15. Cfr. R. Caponi, Principio di proporzionalità nella giustizia civile [2010], ora in Dogmatica giuridica e vita, tomo II, op. cit., pp. 1273 ss., part. p. 1287, nota 18.
16. Cfr. supra, all’inizio del par. 3.
17. È la lettura proposta da G. Marramao, Kairos. Apologia del tempo debito [1992], nuova edizione ampliata, Bollati Boringhieri, Torino, 2020. Sulle tracce dell’etimologia del latino “tempus” affacciata da É. Benveniste nel 1940, Marramao suggerisce che la parola greca corrispondente di tempus non sia “chrónos”, bensì “kairós”: «Lungi dal risolversi nel significato di “momento istantaneo” o “occasione” (…) viene così a designare, al pari di tempus, una figura stratificata e oltremodo complessa della temporalità: figura che rinvia alla “qualità dell’accordo” e della mescolanza opportuna di elementi diversi – esattamente come il tempo atmosferico. Nella sua versione spaziale, del resto, lo stesso lemma sta ad indicare – sin da Omero – i “luoghi propri”, le parti vitali di un organismo “in forma”, ossia equilibrato, temperato e ritmato nelle sue componenti» (dalla Prefazione alla nuova edizione).
18. Cfr. il secondo cpv. del par. 3.
19. Cfr. supra, par. 3, penultimo cpv.
20. Cfr. § 272 ZPO.
21. Cfr. § 275 ZPO.
22. Cfr. § 276 ZPO. Peraltro, nella prassi i giudici preferiscono frequentemente la seconda strada, poiché presenta un vantaggio spesso decisivo: al convenuto viene assegnato un primo termine di due settimane, semplicemente per manifestare la sua volontà di difendersi, e un ulteriore termine (minimo di due settimane), per depositare la sua comparsa di risposta. Se il convenuto non manifesta la volontà di difendersi entro il primo termine, subisce immediatamente, su istanza dell’attore (cfr. § 331, comma 3, ZPO), una sentenza di accoglimento della domanda, attraverso la sola verifica della congruenza tra i fatti allegati e le norme di diritto che l’attore invoca a fondamento della sua richiesta di tutela.
23. Cfr. par. 3, secondo cpv.
24. Ivi, in particolare le varianti da (a) a (d).
25. Ivi, in particolare la variante (d).
26. Cfr. § 272, comma 3, ZPO.
27. Cfr. § 282, comma 1, ZPO.
28. Cfr. § 282, comma 2 ZPO.
29. Cfr. par. 3 secondo cpv., in particolare la variante (a).
30. Cfr. art. 294, commi 2 e 3 cpc.
31. D’altra parte, l’art. 24, comma 2, Cost., nel prevedere che il diritto di difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio, prescinde dalla intermediazione legislativa.
32. Cfr. supra, par. 2.
33. Per taluni presupposti metodologici di tali scelte, mi permetto di rinviare a R. Caponi, Interpretazione, traduzione e comparazione, ora in Dogmatica giuridica e vita, op. cit., tomo II, pp. 1133 ss.
34. Cfr. Aa. Vv., ELI/UNIDROIT Model European Rules of Civil Procedure. From Transnational Principles to European Rules of Civil Procedure, Oxford University Press, Oxford, 2021, pp. XXIV-338. Il testo in inglese delle regole è disponibile sui siti istituzionali di ELI e UNIDROIT (per uno di questi, cfr. https://tinyurl.com/Eli-Unidroit-Rules). Stanno uscendo traduzioni nelle principali lingue, tra le quali l’italiano. Per un inquadramento generale, cfr. R. Stürner, The ELI/UNIDROIT Model European Rules of Civil Procedure. An Introduction to Their Basic Conceptions, in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht (RabelsZ), vol. 86, n. 2/2022, pp. 421-472. Nella letteratura italiana, cfr. R. Caponi, Le regole modello europee Eli-Unidroit sullo sfondo della riforma italiana del processo civile, in Riv. trim dir. proc. civ., n. 3/2022, pp. 717 ss.
35. Cfr. M. Storme (a cura di), Rapprochement du droit judiciaire de l’Union Européenne, Springer/Nijhoff, Dordrecht/Leida, 1994.
36. Varrebbe la pena di sviluppare, a questo punto, un discorso omologo a quello che si accennerà nella parte finale con specifico riferimento all’ambiente italiano.
37. Cfr. Regole 61-63. In particolare, sotto il titolo «Udienze di case management di preparazione dell’udienza e all’accertamento finali», la Regola 61 dispone: «(1) Al fine di preparare l’udienza finale, la corte può tenere un’udienza preliminare di case management, se necessario, altre udienze di case management durante il corso del processo. (2) Le udienze di case management possono essere tenute in presenza. Se opportuno, la corte può procedere in forma scritta o utilizzare qualsiasi mezzo di comunicazione elettronica disponibile. (3) Durante o immediatamente dopo un’udienza di case management, dopo aver sentito le parti, la corte fissa un programma o calendario processuale con i termini entro i quali le parti devono adempiere ai loro obblighi processuali e fissa altresì il termine per l’udienza finale e la data entro la quale possibilmente sarà emessa la sentenza. (4) Se del caso, la corte può impartire alle parti istruzioni rilevanti per la preparazione dell’udienza finale e la pronuncia. Per quanto possibile, tali istruzioni devono essere impartite all’udienza preliminare di case management. Ordini di case management devono essere adottati durante o immediatamente dopo l’udienza preliminare a ciò destinata».
38. Sotto il titolo «Udienza finale», la Regola 64 dispone: «(1) Per quanto possibile, l’udienza finale è concentrata. Un’udienza finale concentrata può essere adattata all’impiego di tecniche di comunicazione elettronica. (2) L’udienza finale deve svolgersi dinanzi al giudice o ai giudici che emaneranno la sentenza definitiva. (3) Di norma, il giudice assume prove orali e prove su quelle questioni che sono ancora seriamente controverse tra le parti. (4) Tutte le prove rilevanti non raccolte dalla corte nella fase preparatoria possono essere assunte nell’udienza finale. Nuove prove non prodotte negli atti introduttivi o su emendamento nella fase preparatoria possono essere ammesse solo se una parte dimostra di non averle potute produrre prima per ragioni serie e stringenti. (5) Il giudice deve gestire adeguatamente l’udienza finale secondo le regole 48-49 [riportate avanti, ndr]. In particolare, deve (a) fissare l’ordine di trattazione delle questioni; (b) disporre la comparizione personale delle parti o prescrivere la presenza all’udienza di un loro rappresentante, che deve essere a piena conoscenza di tutte le questioni rilevanti per la controversia; (c) disporre l’assunzione delle prove. (6) Le prove documentali o altre prove precostituite sono da comunicare a tutte le altre parti prima dell’udienza finale. Le prove orali possono essere assunte solo se è stata data comunicazione a tutte le parti dell’identità della persona da ascoltare e dell’oggetto della prova. (7) Le parti devono avere la possibilità di esporre le loro conclusioni finali, comprese le considerazioni sui risultati dell’istruzione probatoria».
39. Cfr. Regola 65.
40. Cfr. Regola 66.
41. Cfr. Regola 67.
42. Cfr. Regole 4 e 61 (1).
43. È la Regola 2, la prima di contenuto sostanziale (la Regola 1 determina il campo di applicazione delle Regole europee modello).
44. L’immagine dello srotolare la gomena, per indicare il gioco delle tre dimensioni del tempo nella nostra identità personale (e collettiva), è frequentemente richiamata da R. Bodei, da ultimo (purtroppo da intendere nel suo significato letterale e non nel senso di “più recente”), in Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, Il Mulino, Bologna, 2019, in particolare nella parte quinta.
45. Cfr. M. Weber, La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione (trad. it. di F. Tuccari e P. Rossi, con Introduzione di M. Cacciari), Mondadori, Milano, 2018.
46. Il continuum tra autotutela e processo civile ben si rispecchia nelle prime pagine del classico studio di F.H. Lawson sui rimedi nel diritto inglese: «Gli avvocati sono talmente abituati ad associare i rimedi alle corti che sono in grado di dimenticarsi dell’autotutela. E tuttavia l’autotutela è il tipo più antico di rimedio. Solo gradualmente essa fa strada alla tutela giurisdizionale, che in origine si svolgeva molto per mezzo dell’iniziativa privata, come citare il convenuto, portarlo davanti alla corte ed eseguire la sentenza nei suoi confronti. Uno degli aspetti più interessanti nella storia è stato il tentativo persistente e continuo delle società politiche di sopprimere l’autotutela e di sostituirla con il processo giurisdizionale. (…) Alla fine, l’autotutela è venuta a giocare un ruolo subordinato nella riparazione dei torti; tuttavia, ometterla da un libro sui rimedi darebbe un’impressione del tutto falsa». Cfr. F.H. Lawson e H. Teff, Remedies of English Law, Butterworths, Londra, 1980 (II ed.), p. 25, ove si prosegue con i primi due capitoli dedicati ai rimedi di autotutela.
47. Plurime sono le attestazioni di scetticismo nei confronti della nozione di una universale natura umana, pur da differenti prospettive: cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio (con le aggiunte di E. Gans), a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari, 2012 (VII ed.), p. 107 (par. n. 107): «quel che il soggetto è, è la serie delle sue azioni»; A.N. Whitehead, Processo e realtà. Saggio di cosmologia, a cura di M.R. Brioschi (introduzione di L. Vanzago), Bompiani, Milano, 2019, passim: secondo cui il soggetto non è un’entità dura e ferma, ma è esso stesso un processo, un movimento, un fare esperienza, passando dal momento della confusione del sentimento alla chiarificazione progressiva; A. Ghelen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (introduzione di K.S. Rehberg, traduzione di C. Mainoldi), Feltrinelli, Milano, 1983, pp. 35 ss., che pone a fondamento del suo studio sulla natura e il posto nel mondo dell’essere umano la considerazione che esso ha tra le proprie caratteristiche più rilevanti quella di dover prendere posizione circa se stesso, «cioè circa le proprie pulsioni e qualità percepite, ma anche circa i propri simili, gli altri uomini; infatti, anche il modo di trattare gli uomini dipende da come li si considera e da come si considera se stessi» (alla pagina successiva è citato il pensiero di Nietzsche: «l’uomo è un animale non ancora definito»); H. Arendt, Vita activa. La condizione umana [1958] (introduzione di A. Dal Lago, traduzione di S. Finzi), Bompiani, Milano, 2017, ove il titolo inglese, The Human Condition, allude a una presa di distanza nei confronti del concetto di natura umana; cfr., infine, le inquietudini dell’Umanesimo (qui es tu homo?) messe a fuoco da M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino, 2019, passim e specialmente il capitolo quinto.
48. Vds. supra, par. 2.
49. Il discorso svolto in questo capoverso è estratto da una riflessione più ampia, che sto conducendo da alcuni anni, sull’autonomia del processo civile. Tale concetto è stato relegato un poco ai margini dalla valorizzazione dell’idea di strumentalità. L’esperienza degli ultimi decenni indica ai miei occhi l’opportunità di individuare un nuovo equilibrio tra autonomia e strumentalità del processo civile. Per qualche ulteriore riflessione, rinvio a R. Caponi, Autonomia del processo civile (note a margine di un tema immenso), in R. Tiscini e F.P. Luiso (a cura di), Scritti in onore di Bruno Sassani, tomo 1, Pacini, Pisa, 2022, p. 13, nonché in Riv. dir. proc., n. 1/2022, pp. 136 ss.
50. Sotto il titolo «Ruolo delle parti e dei loro avvocati», la Regola 3 prevede che: «Le parti e i loro avvocati: (a) adottano misure ragionevoli e appropriate al fine di risolvere le controversie in via amichevole; (b) contribuiscono al corretto management della controversia; (c) allegano fatti e deducono prove; (d) assistono il giudice nell’accertamento dei fatti e nell’individuazione della legge applicabile; (e) agiscono in buona fede ed evitano abusi processuali nei rapporti con il giudice e le altre parti». Sotto il titolo «Ruolo della corte – Dovere generale di case management», la Regola 4 prevede che: «Il giudice è responsabile del management attivo ed efficace della controversia. Egli garantisce che le parti godano di parità di trattamento. Nel corso del processo egli controlla che le parti e i loro avvocati osservino i doveri che su di essi gravano ai sensi delle presenti regole».
51. Cfr. Regola 5 (2).
52. La parola «rapida» traduce «speedy». Per ragioni di speditezza di formulazione, si è mancato di impiegare «entro un termine ragionevole», commisurato al grado di complessità in concreto della controversia, ma il significato è quello: tra composizione rapida e composizione entro un termine ragionevole il rapporto è analogo a quello tra atto processuale breve e atto processuale sintetico, tanto per menzionare un’altra novità della riforma italiana (cfr. art. 121 cpc e le altre disposizioni specifiche).
53. In senso generalmente critico nei confronti di questa prospettiva, con pagine all’altezza della sfida, cfr. la raccolta di saggi di A. Panzarola, Principi e regole in epoca di utilitarismo processuale, Cacucci, Bari, 2022.
54. Spunti che si trovano già sparsi nei parr. da 2 a 6.
55. Cfr. infra, par. 14.
56. Cfr. Regole 47-50.
57. Antenato di questa regola è tra gli altri, almeno in parte, il § 273 ZPO tedesca, sul quale rinvio a R. Caponi, Poteri probatori delle parti e del giudice nel processo civile tedesco, ora in Dogmatica giuridica e vita, tomo I, op. cit., pp. 291 ss., pp. 294 ss.
58. Sotto il titolo «Controllo del processo ad opera della corte», la Regola 48 dispone che: «In tutte le fasi del processo, la corte è tenuta a controllare che le parti e i loro avvocati rispettino la regola 47 e qualsiasi ordine emesso ai sensi della regola 49». Sotto il titolo «Ordini di case management», la Regola 50 prevede che: «(1) La corte può emanare ogni ordine di case management d’ufficio o su istanza di parte. Ove gli ordini o le decisioni siano adottati senza sentire le parti o senza preavviso (ex parte), le parti non sentite in precedenza possono chiedere che l’ordine o la decisione siano riesaminati in un’udienza o sulla base di memorie scritte. (2) Se le parti si accordano su un provvedimento di case management, la corte non può determinarsi diversamente senza giustificati motivi. (3) La corte può modificare o revocare qualsiasi provvedimento di case management su istanza di parte o d’ufficio».
59. Cfr. Regole 51-60.
60. La Regola 51, comma 1, si chiude con il rinvio alle regole 2-11 e 47-50. I commi successivi concretizzano la Regola 51: «(2) Al fine di promuovere il dovere generale di cui alla regola 51(1), le parti possono: (a) comunicarsi reciprocamente informazioni sintetiche sulle loro potenziali domande o difese; (b) chiarire e, ove possibile, ridurre le questioni giuridiche e di fatto oggetto della controversia; (c) identificare gli elementi di prova rilevanti in modo da facilitare una valutazione efficace e tempestiva della fondatezza delle loro posizioni. (3) Le parti possono anche: (a) prendere in considerazione un possibile programma per il processo; (b) stimarne il costo potenziale; (c) prendere in considerazione questioni di prescrizione, giurisdizione, misure cautelari, e qualsiasi altra questione processuale».
61. Cfr. il commento n. 3 alla Regola 51, in ELI-UNIDROIT Model European Rules of Civil Procedure, op. cit., p. 97.
62. Sotto il titolo «Contenuto dell’atto introduttivo», la Regola 53 dispone, nel suo tenore letterale, che: «(1) L’atto introduttivo (statement of claim) contiene, come minimo, l’indicazione specifica della corte e delle parti, il rimedio richiesto e le relative ragioni. (2) L’atto introduttivo deve: (a) allegare i fatti costitutivi della domanda in modo ragionevolmente dettagliato con riferimento al tempo, al luogo, alle persone e agli eventi; (b) descrivere con sufficiente precisione i mezzi di prova disponibili a supporto delle allegazioni; (c) indicare le ragioni giuridiche a supporto della domanda, compreso il diritto straniero, in modo sufficiente a consentire alla corte di accertarne la fondatezza giuridica; (d) indicare in modo dettagliato il rimedio richiesto, compresa la somma di denaro o i termini precisi di qualsiasi altro rimedio richiesto; (e) indicare l’osservanza di qualsiasi condizione necessaria, secondo il diritto nazionale applicabile, alla deduzione della domanda in giudizio, come un tentativo stragiudiziale obbligatorio di conciliazione o mediazione, o una intimazione formale concernente l’oggetto della controversia». La Regola 53 prosegue con alcune disposizioni dirette, tra l’altro, a: «a) emendare su invito della corte inosservanze di requisiti dell’atto introduttivo, salva la possibilità che i dettagli relativi ai fatti rilevanti o ai mezzi di prova si chiariscano nel proseguimento, se la pretesa dedotta in giudizio si rivela plausibile e giustificati motivi escludono la possibilità attuale; b) richiedere, ove possibile, la produzione dei mezzi di prova insieme all’atto introduttivo; c) consentire all’attore di fare istanza per l’accesso a mezzi di prova nella disponibilità del convenuto o di un terzo».
63. Regola 54.
64. Regola 55.
65. Regola 56.
66. Regole 57-60.
67. Fra le esperienze più interessanti, la Netherlands Commercial Court, in attività dal 1° gennaio 2019, con sede ad Amsterdam.
68. In Europa, tali iniziative si giovano dello spazio giudiziario europeo, specialmente della disciplina delle clausole di scelta del foro prevista dall’art. 25 reg. UE n. 1215/2012 (Bruxelles I-bis), che non richiede un collegamento della controversia con l’ordinamento cui appartiene la corte scelta dalle parti. Per un più ampio discorso sul punto, sia consentito il rinvio a R. Caponi, Corti commerciali internazionali ovvero corti internazionali d’impresa, ora in Dogmatica giuridica e vita, tomo II, op. cit., pp. 1323 ss.
69. Cfr. S. Sassen, Territory, Authority, Rights: From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, Princeton, 2008 [2006], p. 1 (ed. italiana: Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, trad. di N. Malinverni e G. Barile, Mondadori, Milano, 2008).
70. Sull’opportunità di battere una tale “terza via”, avevo richiamato l’attenzione in uno studio di oltre dieci anni fa: cfr. Accordi processuali, ora in Dogmatica giuridica e vita, op. cit., pp. 180 ss.
71. Cfr. Regola 57.
72. Cfr. supra, Regola 49(1).
73. Sui quali non ci si è potuti intrattenere in questa sede – cfr. supra, Regola 50(2).
74. Nelle Regole europee modello è l’udienza «finale» (cfr. Regola 61).
75. Cfr. il commento n. 3 alla Regola 61, in ELI-UNIDROIT Model European Rules of Civil Procedure, op. cit., p. 110.
76. Cfr. ivi, Preambolo, p. 9.
77. Cfr. supra, par. 3.
78. Cfr. supra, par. 6.
79. Cfr. supra, par. 3.
80. Cfr. supra, par. 1.
81. R. Esposito, Pensiero istituente, op. cit. – cfr. supra, par. 2.
82. Cfr., per tutti, N. Rossi, Dalla «giurisprudenza alternativa» alle problematiche dell’oggi, in Questione giustizia online, 11 aprile 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/dalla-giurisprudenza-alternativa-alle-problematiche-dell-oggi). Si tratta della relazione presentata al convegno «L’uso alternativo del diritto. Il convegno catanese cinquant’anni dopo» tenutosi il 24 marzo 2023 all’Università La Sapienza di Roma. Riflessioni consonanti si trovano in R. Caponi, Intervento al XXXIII Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, «I conflitti economici e la giurisdizione», Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 17-18 giugno 2022, in corso di pubblicazione negli atti del convegno.
83. Cfr. M.S. Giannini, I pubblici poteri negli Stati pluriclasse [1979], in Scritti, vol. VII (1977-1983), Giuffrè, Milano, 2005, pp. 312 ss., part. p. 314.
84. Per un più ampio discorso sul punto, rinvio a R. Caponi, Specialismo e politica nella scienza giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 2/2022, pp. 351 ss.
85. Sul tema «Metodi di insegnamento del diritto processuale civile nel tempo dell’incertezza legislativa» si è tenuto un interessante seminario di studi organizzato dall’Associazione fra gli studiosi del processo civile, Università degli Studi di Roma Tre, 14 aprile 2023.
86. Cfr. G. Leopardi, Zibaldone, Le Monnier, Firenze, 1898, n. 311. Ecco il brano più ampio: «La morale è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, l’azione, la pratica della morale dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto e la politica un fatto: la vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo».
87. Scrivendo questo, non pretendo di inventare di nuovo la ruota. Per replicare anticipatamente a questa obiezione, potrei forse limitarmi a rinviare alla precedente nota a piè di pagina. Sono convinto però che, specialmente al cospetto delle giovani generazioni – come ho già accennato indietro nel testo – certe coordinate (sistemiche, come a me paiono) debbano essere costantemente enunciate di nuovo, ripercorse e – per così dire – rivissute nella nostra vita quotidiana, per neutralizzare per quanto è possibile il rischio che la prassi si appiattisca su una sorta di eterno presente, che tali coordinate tende (consapevolmente o meno) a misconoscere. Quest’ultimo fenomeno è sotto gli occhi di tutti, ma probabilmente può essere avvertito in modo particolare da chi, diventando adulto nelle propaggini della epoca passata, di apertura politica e sociale, ha avuto l’opportunità di entrare nel mondo del diritto passando da ambienti diversi da quelli da cui tradizionalmente provenivano i giuristi. Per un più ampio discorso, rinvio a R. Caponi, Specialismo e politica, op. cit., pp. 351 ss.; Id., Forme del diritto e ambiti della vita (Presentazione), in Dogmatica giuridica e vita, op. cit., pp. XLIII ss.
88. Cfr. P. Rosanvallon, Il politico. Storia di un concetto, (trad. it. di R. Brizzi e M. Marchi), Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2005. Si tratta della lezione inaugurale dei corsi tenuti al Collège de France nel 2002.
89. Ivi, pp. 8-10.
90. Per questa definizione del sistema politico, cfr. D. Grimm, Die Verfassung und die Politik. Einsprüche in Störfallen, C.H. Beck, Monaco di Baviera, 2001, p. 14. A far data dal saggio di Carl Schmitt Begriff des Politischen, originariamente apparso nel 1927 e poi ristampato l’anno successivo, l’uso del termine al maschile “il politico” (das Politische) si è diffuso per indicare questa dimensione. Per ampi ragguagli bibliografici relativi al saggio di Schmitt, cfr. Id., Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 15 ss. Il saggio, con il titolo Il concetto di ‘politico’, è pubblicato alle pp. 86 ss. Non vi è spazio in questa sede per discutere dei rapporti tra il pensiero di Schmitt e la nozione proposta da Rosanvallon e accolta nel testo.
91. Cfr. L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano, 1996, pp. VIII e passim.
92. Ivi, passim.
93. Cfr. P. Rosanvallon, Il politico, op. cit., pp. 11 ss.: «Lontano dal corrispondere ad una semplice incertezza pratica riguardante le vie per la sua realizzazione, la concezione elastica della democrazia partecipa in modo fondamentale alla sua essenza. Evoca un tipo di regime che non ha smesso di rifiutare una classificazione rigida. È proprio da qui che nasce la particolare inquietudine che ha accompagnato tutta la sua storia. La serie di delusioni e di tradimenti che l’hanno sempre accompagnata è stata ancora più intensa per il fatto che la sua definizione non è mai stata fissata».
94. Questo mi sembra l’insegnamento vitale della dottrina della «costituzione materiale» di Costantino Mortati: «Si può perciò affermare che le forze politiche dominanti ordinate intorno ad uno scopo, cioè a valori politici ritenuti fondamentali, formano esse stesse un’entità giuridica, danno vita a quella che si è chiamata “la costituzione materiale”, che fonda e sostiene la costituzione formale, ne provoca i mutamenti, ma nello stesso tempo determina il limite entro cui questi possono attuarsi senza che ne riesca alterata l’identità dell’ordinamento positivo». Cfr. Id., Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1962 (VI ed.), p. 77; Id., La Costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano 1940 (ristampa, con premessa di G. Zagrebelsky, nel 1998). La dottrina dovrebbe essere messa a punto con riferimento allo studio delle manifestazioni della crisi degli strumenti di democrazia rappresentativa nei sistemi politici occidentali. Se non promossa, tale crisi è stata certamente facilitata dal condizionamento permanente esercitato sugli assetti sociali e gli orientamenti politici, nel senso di una loro rapida modificabilità, dalle nuove forme di organizzazione e di comunicazione sociale e politica che si giovano delle reti telematiche.
95. Ci si riferisce genericamente ai sistemi politici occidentali, ove il grado di debolezza varia notevolmente da un Paese all’altro. L’odierna crisi della politica è crisi dell’autorità che discende dall’autorevolezza, non è una crisi di rappresentanza, anzi, se mai, è crisi da eccesso di rappresentazione degli umori e degli istinti più bassi della società civile. Sull’endiadi “rappresentanza-rappresentazione”, cfr. H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento (con introduzione di G. Duso; trad. it. di C. Tommasi), Giuffrè, Milano, 2007.
96. Cfr. M. Weber, La politica come professione, op. cit.
97. Cfr. L. Mengoni, Ermeneutica, op. cit., p. VII, che si riferisce con queste parole alla rifondazione della retorica da parte di C. Perelman. Beninteso: non ipotizzo un mondo in cui la politica sia liberata dalla demagogia. Quest’ultima c’è sempre stata e sempre ci sarà. Dico di nuovo cose già dette più volte. È inevitabile che la dimensione propagandistica faccia parte del discorso politico. Nel presente tornante storico, si fronteggia un problema che fa rimpiangere perfino la demagogia. L’odierno discorso politico non si può definire propriamente propagandistico. Tradizionalmente, la demagogia aveva un forte connotato ideologico. Il demagogo s’ispirava a un’idea regolativa che dava ordine e gerarchia al suo discorso e che si confrontava con la realtà. Vi era quindi un nucleo di sostanza analitico, sebbene su di esso faceva aggio la prospettiva di un dover essere ideologico. Al giorno d’oggi, a partire dalla fine degli anni settanta, nel mondo occidentale gli orientamenti complessivi che duellavano nell’agone e che davano forma al confronto politico e allo stesso discorso demagogico sono crollati. Oggi il confronto tra le diverse parti diventa sempre più confuso. Vi è una confusione totale di termini da una parte e dall’altra, all’interno di una nebulosa ideologica alimentata da una chiacchiera universale ispirata da idee vaghissime, a partire dalla stessa idea di democrazia, che è sulla bocca di tutti i politici, per lo più svuotata di qualsiasi contenuto.
98. Riprendo la bella espressione coniata in altro contesto da R. De Monticelli, Il dono dei vincoli. Per leggere Husserl, Garzanti, Milano, 2018.
99. Cfr. E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 1998.