De profundis per la sezione filtro della Cassazione civile
Con la legge delega n. 206/2021, e il successivo d.lgs di attuazione n. 1456/2922, è stata abolita la “sezione filtro” della Corte di cassazione, introdotta, con una modifica dell’art. 376 cpc, dalla legge 18 giugno 2009, n. 69. Questione giustizia ripropone la relazione svolta nel 2009 dall’Autore, nella quale è tracciata la storia dell’istituto e le critiche che ne accompagnarono la faticosa gestazione.
«Parafrasando l’orazione di Antonio al funerale di Cesare nel dramma di Shakespeare, vorrei salutare la sesta sezione della Cassazione civile, soppressa dalla riforma del processo civile, non rimpiangerla. Il male che fanno le riforme sbagliate sopravvive loro; il bene è spesso sepolto; e così sia della sesta sezione.
La relazione svolta alla vigilia della sua introduzione, il giorno di San Giorgio del 2009, nell’aula “Zaccagnini” della Corte e mai pubblicata, mi sembra abbia ancora, nei limiti di un intervento di tredici anni addietro, profili di attualità. Contiene riferimenti utili a conservare memoria della gestazione e della nascita della sezione “filtro”, del ruolo della Corte, e spunti per valutare la riforma attuata con il d.lgs 10 ottobre 2022, n. 149, in attuazione della delega di cui alla l. 26 novembre 2021, n. 206.
Sono grato che la richiesta della sua pubblicazione sia stata accettata» – [Id., novembre 2022].
1. Il processo in Cassazione tra conati di riforma e prassi applicative (premessa) / 2. Il dibattito anteriore alla proposta di riforma: l’Assemblea generale della Cassazione del 23 aprile 1999 / 3. Il ricorso per cassazione tra jus litigatoris e jus constitutionis, ai sensi degli artt. 111, comma 7, Cost. e 65 o.g. / 4. La riforma in fieri: il contesto / 5. Le proposte di riforma del giudizio in Cassazione / 6. Le reazioni degli operatori / 7. Il processo in Cassazione nel contesto complessivo della giustizia civile / 8. L’art. 366-bis cpc e i possibili esiti del giudizio in Cassazione / 9. Conclusioni
1. Il processo in Cassazione tra conati di riforma e prassi applicative (premessa)
Il titolo originariamente previsto per questo incontro era: «Il processo di legittimità “riformato” e la funzione nomofilattica della Corte di cassazione». All’inizio di febbraio di quest’anno, quando è stato organizzato, infatti, si prevedeva che l’iter parlamentare del disegno di legge di riforma fosse in via di conclusione e, quindi, l’incontro potesse essere dedicato all’esame delle questioni interpretative e applicative della nuova disciplina.
Non è stato così. Cosicché, oggi, oggetto della discussione sono le prospettive di riforma, il futuribile, non ancora una nuova normativa.
Si tratta, quindi, di confrontarsi su una riforma ancora in fieri.
Nelle pagine che seguono, pertanto, si intende dar conto del dibattito che ha preceduto e che ha seguito l’iter parlamentare della riforma; si vogliono poi mettere in luce le opzioni valutative che presiedono alle diverse soluzioni, verificandone la compatibilità con il vigente sistema costituzionale; si intende anche orientare l’attenzione su alcuni profili organizzativi e ordinamentali.
In questa prospettiva, non sembra inopportuno ribadire che il processo è tecnica, che le questioni processuali sono questioni tecniche. Il che non significa affatto che esse prescindano o siano indifferenti a giudizi di valore. Ma questi ultimi e le scelte ideologiche riguardano soprattutto il risultato o l’obiettivo perseguito: spetta all’interprete individuare quelle del legislatore e, nell’assenza o nell’ambiguità di esse, esplicitare quelle che compie. Nei confronti degli strumenti processuali, invece, la prima e fondamentale questione consiste nel verificare se funzionano, se sono idonei allo scopo per il quale sono stati o vorrebbero essere predisposti. Lo scopo può essere o no condiviso. E qui entrano in gioco le inclinazioni ideologiche o le preferenze di ciascuno. Ma la prima e fondamentale questione consiste nel verificare la congruità del mezzo rispetto al fine. Se il primo è incongruo, appare anche inutile confrontarsi sulle opzioni valutative.
Esattamente dieci anni fa, il 23 aprile 1999, nel discorso di apertura dell’Assemblea della Cassazione, convocata per la prima volta ai sensi dell’art. 93 o.g., il primo presidente, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, rilevava che «finora, nonostante tutto, la Cassazione ha retto (…). Ora si è però giunti ad una soglia critica. Nel settore civile, soprattutto a causa dei nuovi imponenti contenziosi del pubblico impiego e tributario, il carico di lavoro produrrà presto ristagni e gravissimi ritardi nelle decisioni».
I timori per l’esplosione del contenzioso, allora manifestati, e dei quali è eco nelle relazioni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario negli anni successivi, si sono rivelati fondati: il numero dei ricorsi sopravvenuti è passato da 25.795 nel 2000 a 31.905 nel 2005; è sceso a 28.577 nel 2004; è sceso ancora dai 32.278 del 2007 ai 30.406 del 2008 quando, per la prima volta, il numero di quelli esauriti, 33.928, ha superato quello dei sopravvenuti. Ma quei timori si sono rivelati fondati solo in parte, perché il trasferimento al giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro pubblico e la estensione dei motivi di ricorso alla violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro non ha realizzato gli effetti paventati. Questi si sono, invece, manifestati per il contenzioso tributario: nel 2007, sono sopravvenuti in questa materia 7888 ricorsi, pari al 26% del totale, ai quali possono aggiungersi 596 ricorsi in tema di sanzioni amministrative in materia finanziaria e tributaria, pari al 2% del totale. Se a questo 28% si aggiungono anche i 2410 ricorsi in materia di sanzioni amministrative, pari all’8,1% del totale, i 1433 ricorsi in tema di equa riparazione, pari al 4,8% del totale, i 2305 ricorsi in materia previdenziale, pari al 7,7% del totale e i 150 ricorsi in tema di sanzioni amministrative in materia, pari allo 0,5% del totale, si ottiene la somma di 14.782 ricorsi, pari al 49,1% del totale.
Dieci anni fa, di fronte a 23.898 ricorsi sopravvenuti, 18.875 definiti e a una pendenza di 51.056 ricorsi a fine anno, il primo presidente affermava che «la Cassazione ha retto».
In riferimento al numero dei provvedimenti, un incremento significativo si era verificato nel 1990: la sentenza depositata il 29 dicembre di quell’anno aveva il numero 12.237, mentre quella depositata il 30 dicembre 1989 il numero 5833; nel periodo precedente, dal 1958 (3967) al 1988 (7096), si era passati dal minimo di 2263 del 1970 al massimo di 9660 del 1987; nel periodo successivo, invece, vi è stato un incremento costante, con un’impennata nel 2004, quando si è passati da 19.989 del 2003 a 24.265, per arrivare a 29.000 nel 2005, scendere a 27.619 nel 2006, a 27.209 nel 2007, fino a 30.688 nel 2008.
Nella valutazione di questi numeri, peraltro, occorre tenere presente che, fino a poco tempo fa, i ricorsi incidentali ricevevano un’autonoma numerazione, cosicché il numero dei ricorsi non corrisponde a quello dei fascicoli o delle controversie. Per un breve periodo, le sentenze delle sezioni unite hanno avuto una numerazione autonoma. Dal 2001, in virtù del decreto del primo presidente, la numerazione è unica, indipendentemente dalla forma del provvedimento, sentenza o ordinanza.
In base ai dati riportati nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario e al numero dei provvedimenti depositati, nella consapevolezza della non assoluta precisione dei numeri, nell’affrontare il tema non sembra sia possibile prescindere dalle seguenti considerazioni: si può ritenere che la Cassazione sia in grado di «reggere» un carico a cinque cifre, qual era quello all’epoca della Assemblea generale del 23 aprile 1999; che il passaggio da flussi con quattro cifre a flussi con cinque cifre sia avvenuto nel 1990; che una serie di riforme legislative dei primi anni di questo secolo abbia determinato un’esplosione del contenzioso di legittimità; che, in riferimento alla tipologia delle controversie, quasi la metà riguardi un contenzioso seriale.
Occorre anche tener presente che, in base alla disciplina vigente, novellata nel 1995 e nel 2006, nonché al decreto del primo presidente del 9 maggio 2005, i ricorsi, una volta depositati e assegnati alla sezione tabellarmente compente, passano per una verifica preliminare dalla «Struttura», vengono quindi assegnati al relatore, il quale provvede allo smistamento tra udienza pubblica e camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 cpc.
A integrazione di quanto previsto dagli artt. 376, comma 1, 377, comma 1, cpc e 142 disp. att. cpc, per i quali il primo presidente assegna i ricorsi alle sezioni e il presidente di questa o lo stesso primo presidente nominano il relatore, l’organizzazione che si è data la Corte prevede un passaggio dalla struttura istituita con il decreto del primo presidente del 9 maggio 2005, in funzione dello smistamento tra udienza pubblica e camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 cpc, affidato al relatore. Attualmente, quindi, i ricorsi passano dal primo presidente alla struttura, da questa al relatore e arrivano finalmente all’udienza o in camera di consiglio.
La valutazione delle proposte di riforma, come, nonostante i limiti prima indicati, non può prescindere dai dati numerici, così non sembra possa prescindere dal funzionamento della Corte, sinteticamente descritto.
2. Il dibattito anteriore alla proposta di riforma: l’Assemblea generale della Cassazione del 23 aprile 1999
In riferimento al contesto numerico e normativo di allora, già nel discorso di apertura dell’Assemblea del 23 aprile 1999, il primo presidente indicava il cuore del problema:
«la coesistenza di ruoli divergenti della Corte (…) sarebbe secondo alcuni ineliminabile perché scritta nella Costituzione, la quale ammettendo il ricorso in Cassazione per violazione di legge contro tutte le sentenze conferisce nello stesso tempo valore costituzionale sia alla funzione unificatrice del diritto sia al controllo di legalità a tutela dei diritti individuali. (…) la Cassazione che fornisce certezza viene contrapposta alla Cassazione che produce giustizia, la quale smarrirebbe la sua funzione di custode della retta e uniforme interpretazione del diritto quando assicura la cosiddetta giustizia del caso concreto. In realtà questa pretesa contrapposizione non ha ragione d’essere sul piano teorico, poiché le due funzioni coesistono nel corretto esercizio dei poteri del giudice di legittimità».
L’alternativa era stata considerata anche nel dibattito nella Commissione bicamerale, istituita con la legge costituzionale 24 gennaio 1997, n. 1.
Nella relazione relativa alle «Garanzie», infatti, il relatore, On. Marco Boato, aveva osservato:
«è necessario soffermarsi sul testo approvato dell’articolo 131, corrispondente all’articolo 111 della Costituzione vigente. Sulla disposizione, confermata al comma 1 di tale articolo, secondo la quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, non si sono registrate proposte di modifica. Tale norma, come è ben noto, è stata letta come l’affermazione di un principio democratico di controllo generalizzato sull’amministrazione della giustizia (sebbene oggi si tenda a ritenere tale controllo assicurato anche con la pubblicità dei processi) e di applicazione del principio di legalità, ed è stata, inoltre, ritenuta strumentalmente diretta all’esercizio della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, della quale si occupa il medesimo articolo. Il testo del comma 2 dell’articolo 111 della Costituzione vigente (corrispondente all’articolo 131, comma 2 del testo approvato) unifica le distinte ipotesi di impugnabilità in Cassazione di tutte le sentenze dei giudici ordinari e speciali, nonché quella di tutti i provvedimenti restrittivi della libertà personale, costituzionalizzando, quindi, due garanzie differenti. La prima, per usare le parole di Calamandrei (che non a caso era anche contrario al decentramento della Corte di cassazione), si richiama all’unità del diritto nazionale attraverso l’uniformità della interpretazione giurisprudenziale (ed in ciò consiste la funzione nomofilattica della Cassazione). La seconda di tali garanzie, invece, intende realizzare una sorta di habeas corpus continentale, cioè una delle più grandi garanzie conquistate da un regime democratico, come fu detto proprio all’Assemblea costituente. Tuttavia, va dato atto che è stata più volte riproposta, sia nel Comitato che nella Commissione, l’esigenza di una limitazione della ricorribilità in Cassazione contro le sentenze, in maniera tale da deflazionare l’attività di quest’organo in relazione a fattispecie di minor rilievo, ferma restando la ricorribilità contro tutti i provvedimenti sulla libertà personale. Si tratta di una materia di grande complessità e delicatezza, rispetto alla quale il relatore aveva a sua volta presentato un emendamento teso a demandare alla legge la previsione dei casi di ricorribilità in Cassazione contro le sentenze, essendo però necessario garantire comunque almeno un doppio grado di giudizio. È evidente che anche questa materia dovrà essere esaminata dalla Commissione nella fase successiva dei propri lavori».
L’anticipata conclusione dei lavori della Commissione bicamerale ha impedito che quel dibattito fosse proseguito.
La questione si era posta anche all’Assemblea costituente: nella seduta del 27 novembre 1947, dedicata appunto all’art. 102 del ddl (destinato a diventare l’art. 111 della Costituzione vigente), contro la proposta, sostenuta – tra gli altri – da Vittorio Emanuele Orlando e da Palmiro Togliatti, di ritornare alle cassazioni regionali, soppresse nel 1923, e di abolire quindi la Cassazione unica, furono presentati, anche da Piero Calamandrei, emendamenti diretti a costituzionalizzare quanto ancor oggi previsto dall’art. 65 o.g.: «La Corte di cassazione è unica nello Stato ed ha sede in Roma. Essa ha il compito di assicurare la esatta osservanza e la uniforme interpretazione delle leggi da parte degli organi giurisdizionali». Ma gli emendamenti furono ritirati e fu approvato il testo, ancor oggi vigente, per il quale «[c]ontro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge».
Potrebbe anche condividersi il rilievo per il quale «il fatto che queste disposizioni del progetto Calamandrei non furono recepite dalla Costituzione non fa venire meno la considerazione essenziale che le funzioni di nomofilachia e di regolazione delle diverse giurisdizioni, già attribuite alla Cassazione dal preesistente ordinamento giudiziario, sono il presupposto implicito degli attuali commi settimo ed ottavo dell’ art. 111 Cost., sia nel significato oggettivo del disposto normativo, sia nelle intenzioni del Costituente, quale è possibile desumere dai lavori preparatori della Costituzione»[1]. Ma non può essere contestato che la lettera esplicita dell’art. 111, comma 7 (già 2), Cost. qualifichi il ricorso per cassazione come una garanzia per le parti, e quindi che, tra lo jus litigatoris e lo jus constitutionis, il vigente sistema costituzionale abbia optato per il primo.
In riferimento a questa alternativa, infatti, sono stati ricorrenti i riferimenti all’eventualità di una riforma costituzionale.
Nell’Assemblea generale di dieci anni fa, Giovanni Verde, allora vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, rilevava: «Non è da ora che segnalo la necessità che l’art. 111 sia modificato con la previsione di una valvola di sicurezza, consentendo al legislatore ordinario ragionevoli eccezioni per le controversie e per i processi di scarso rilievo». E aggiungeva: «Non avrei, invece, particolare fiducia su meccanismi di filtro interno – con un ampliamento delle possibilità di dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi in camera di consiglio e da parte di collegi dimezzati nel numero –, che, fin quando l’art. 111 resta come è, sarebbero oltretutto di dubbia costituzionalità».
Nella sua relazione, Aniello Nappi riconosceva che «rimane tuttavia d’ostacolo l’art. 111 comma 2 Cost., che prevede la ricorribilità per cassazione di tutte le sentenze». Auspicava una riforma costituzionale e proponeva che una funziona di filtro fosse attribuita al giudizio di appello: «una delle cause dell’attuale eccesso di ricorsi civili per cassazione è proprio nell’inappellabilità di alcune sentenze di primo grado, che priva la Corte dell’importantissima funzione di filtro cui l’appello può essere destinato; una funzione di filtro che potrebbe essere ulteriormente esaltata ove si accogliesse la ragionevole proposta di ridurne ulteriormente la devolutività, trasformandolo da gravame in “azione di impugnativa a motivi illimitati in diritto e limitati, in fatto, al controllo della congruità logica della motivazione relativa all’accertamento del fatto”».
Ernesto Lupo, nella relazione redatta con la collaborazione di Gianfranco Manzo, dubitava che quella fosse «la sede per una analisi delle possibili riforme radicali della Corte di cassazione, che passino cioè attraverso una modifica della Costituzione. Di modelli alternativi ne sono stati proposti diversi, e tra questi è indubbiamente interessante quello che, contemporaneamente ad una generalizzazione del secondo grado di merito, riduce i compiti della Corte alla funzione di nomofilachia, attribuendole il potere di selezionare i ricorsi in cui questa funzione può essere esercitata, peraltro secondo procedure e con criteri legislativamente precisati».
Soggiungeva, però, che «corollario essenziale di questo ruolo della Cassazione è l’esiguo numero dei suoi componenti, che possono anche essere temporanei (ma non di breve durata), purché il loro livello professionale sia sempre elevato ed il rinnovo dell’organo giudiziario sia sempre parziale». Auspicava, quindi, una «modifica dell’art. 375 c.p.c., in modo da prevedere la pronuncia in camera di consiglio nei casi di manifesta infondatezza del ricorso (da dichiarare con ordinanza) ed in quelli di manifesta fondatezza dello stesso (con sentenza)».
A sostegno della proposta, realizzata nel 2006, indicava «l’effetto positivo (…) di semplificare le forme di decisione dei ricorsi facili attraverso una procedura più celere e di minore impegno per la Corte, ma soprattutto quello (indiretto) di imporre e “procedimentalizzare” la distinzione tra ricorsi facili e ricorsi difficili. Tale distinzione non può che dipendere – per i ricorsi che propongono questioni di diritto – dall’esistenza o meno di precedenti, onde si avrebbe, come si è ben detto, una valorizzazione del precedente ed una maggiore attenzione al compito di nomofilachia. La stessa distinzione sarebbe idonea, inoltre, a separare, nell’ambito dei ricorsi che deducono vizi di motivazione, quelli che, in modo manifesto, chiedono alla Corte un riesame del fatto».
Sul piano organizzativo, rilevava che: «se la legge non consente alla Corte di selezionare i ricorsi da decidere, nulla impedisce alla Corte di scegliere, attraverso una idonea organizzazione interna, i ricorsi che meritano un particolare impegno, distinguendoli dagli altri per i quali può essere ridotto il tempo dedicato alla stesura della motivazione (che oggi, frequentemente, è superiore al tempo richiesto dallo studio, sia pure attento, del ricorso)».
Stefano Evangelista ricordava che il senso complessivo delle norme costituzionali sulla Cassazione risiede «nell’avere improntato il sistema giudiziario ad un modello caratterizzato, come in passato, dalla ricorribilità per cassazione dei provvedimenti, secondo la tecnica elaborata in Francia a partire dall’epoca post-rivoluzionaria, vale a dire dalla possibilità di controllo dei provvedimenti stessi da parte di un organismo di vertice. Ed allora, è vero che l’essersi la Costituzione repubblicana ispirata a tale modello implica che la tradizione ad esso sottesa debba ispirare, quanto meno nelle sue linee fondamentali, la disciplina della materia, con conseguente esclusione di soluzioni del tutto alternative».
Ne traeva la conseguenza che «potrebbe fondatamente dubitarsi della legittimità costituzionale di una normativa che disconoscesse al ricorso per cassazione il valore di mezzo di impugnazione limitato e lo equiparasse ad un comune mezzo di gravame; o che disconoscesse alla Corte di cassazione quelle peculiarità di “corte regolatrice” che derivano dalla sua posizione di vertice dell’ordinamento giudiziario. In effetti, autorevoli giuristi riconoscono che ricorrenti tendenze verso la trasformazione della Cassazione in terza istanza non appaiono in linea con l’assetto e la funzione presupposti dal legislatore costituente come propri della Corte; e che, invece, coerenti con questi potrebbero essere taluni rimedi – diretti ad esaltare quel compito di “nomofilachia”, la cui presupposizione ispira specialmente il disposto dell’art. 111 Cost. –, come quelli apprestati dall’ordinamento francese (ove sono state istituite, nell’ambito della Cour de cassation, le “formations restreintes”, col compito di esaminare in via preliminare tutti i ricorsi, pronunciando il rigetto immediato di quelli giudicati irricevibili o manifestamente infondati) o tedesco (ove, a parte i casi in cui l’istanza di revisione richiede l’autorizzazione del giudice di appello, è stato attribuito al Bundesgerichtshof il potere di rigettare in via preliminare il ricorso quando le questioni di diritto sollevate siano prive di “importanza fondamentale” e di un reale significato di principio)».
A Costituzione invariata, peraltro, il compianto giurista indicava la soluzione in strumenti organizzativi: «una volta che si condivida l’idea della compatibilità con il quadro costituzionale di norme che consentano la limitazione dell’accesso alla Corte e si riconosca, sul piano del metodo, validità alla concezione che la Corte stessa ha il potere-dovere di interpretare le norme che, per il profilo organizzativo come per quello processuale, disciplinano il suo funzionamento, piegandole, anche attraverso consuetudini praeter legem, alla migliore realizzazione della funzione di chiarificazione e di unità del diritto, non sembra azzardato proporre che un’opera di self-restraint possa essere, in modo legittimo, anche nell’area tradizionalmente riservata al giudizio di diritto, assecondando e razionalizzando una prassi già in qualche modo riscontrabile, quando si tratti di interpretare concetti giuridici indeterminati».
Nel documento finale, l’Assemblea generale della Corte di dieci anni fa prospettava al Parlamento e al Governo «l’opportunità di valutare [:]
1- la revisione dell’art.111 Cost. nel senso che – salvaguardando il ricorso per cassazione per violazione di legge contro i provvedimenti sulla libertà personale – sia rimessa al legislatore ordinario la disciplina dell’ambito di proponibilità del ricorso contro le sentenze;
2- l’istituzione di un sistema di “filtri” che consenta alla Corte di decidere in pubblica udienza, nel contraddittorio delle parti, soltanto i ricorsi che pongano questioni di diritto di particolare rilevanza, prevedendo un procedimento semplificato per gli altri ricorsi, e in particolare per quelli con cui si denunzino vizi di motivazione;
3- (…)
4- l’inserimento nell’art. 375 cod.proc.civ. (pronuncia in camera di consiglio) dei casi di manifesta infondatezza e di manifesta fondatezza del ricorso;
5- la modifica del n. 5 dell’art. 360 cod.proc.civ., limitando il ricorso al caso di “mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato”, così come già previsto dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc.pen.»;
segnalava al Csm la necessità «di organizzare seminari periodici sul funzionamento della Corte di Cassazione»;
segnalava al Ministro di grazia e giustizia la necessità:
«-10- a) di garantire ai magistrati della Corte, per consentire loro di svolgere un servizio efficiente ed efficace, le strutture ed il personale necessario, alla cui individuazione sarà dedicata un’apposita Assemblea di cui è auspicata la sollecita convocazione»;
Deliberava di proporre le seguenti misure organizzative:
«-11- a) annotazione in calce al ruolo di udienza, a cura del presidente del collegio, della novità delle questioni e della conformità o meno ai precedenti giurisprudenziali; b) raccolta organica di tali annotazioni; c) consegna ai componenti del collegio di copia degli atti relativi a tutti i ricorsi assegnati all’udienza;
12- redazione di motivazioni concise, specie nei casi in cui la decisione non si discosti dal precedente, da indicare sempre nel provvedimento;
13- perfezionamento delle iniziative dirette a razionalizzare i compiti dell’Ufficio del ruolo e del massimario allo scopo di: a) migliorare e intensificare i rapporti fra Massimario e Sezioni, per quanto concerne la classificazione dei ricorsi ed il loro esame preliminare, anche per la formazione dei ruoli di udienza; b) integrare le funzioni del Massimario, perché possa operare anche come “ufficio studi e formazione professionale”;
14- potenziamento dell’Ufficio stampa, con dotazione di personale e strutture tecnologicamente appropriate;
15- valorizzazione delle specializzazioni per materie, nella formazione dei ruoli delle udienze e nell’assegnazione dei ricorsi ai magistrati;
16- nel settore civile: A) organizzazione della classificazione-spoglio dei ricorsi, secondo i criteri dettati nell’ambito di ciascuna sezione, al fine di distinguere: a) le udienze in cui siano trattati i ricorsi per la cui decisione sia prevedibile una motivazione contratta (salva la decisione del collegio sul tipo di motivazione); b) le udienze “monotematiche”, per i ricorsi che pongano questioni giuridiche identiche o connesse o comunque collegate; c) le udienze dedicate ai ricorsi che impegnino in modo rilevante il compito di nomofilachia della Corte; B) pubblicazione delle sentenze civili all’atto del loro deposito in cancelleria, senza attenderne la massimazione; (…)».
Molte delle richieste contenute in quel documento sono state realizzate e ne ha dato atto l’Assemblea generale della Corte, convocata il 21 luglio 2005, per esprimere un parere sullo schema di decreto legislativo di riforma del giudizio di legittimità.
In quella occasione, l’Assemblea rilevò che «l’indirizzo contenuto nella legge delega, diretto a disciplinare il processo di cassazione in funzione nomofilattica, configura anche una direttiva ermeneutica che deve necessariamente presiedere all’interpretazione dell’intero tessuto normativo».
3. Il ricorso per cassazione tra jus litigatoris e jus constitutionis, ai sensi degli artt. 111, comma 7, Cost. e 65 o.g.
Sennonché, le indicazioni deducibili dalla legge ordinaria non consentono di pretermettere che, nel sistema costituzionale vigente, il ricorso per cassazione sia una garanzia per le parti.
Il dibattito svoltosi nella Assemblea di dieci anni fa dava per scontato e presupposto il diverso valore degli artt. 111, comma 7 (allora comma 2), Cost., fondamento dello jus litigatoris, e 65 o.g., fondamento dello jus constitutionis.
Aveva preso in considerazione la possibilità di una revisione costituzionale, al fine di invertire il rapporto tra le due posizioni.
Anche chi era favorevole a una tale soluzione manifestava consapevolezza che i tentativi in tal senso, vuoi nell’Assemblea costituente del 1947, vuoi nella Commissione bicamerale del 1997, erano falliti. Nelle conclusioni, si sollecitavano le forze politiche a riesaminare la questione.
Allora, invece, non era stata proprio considerata la possibilità che, con legge ordinaria, potesse essere introdotto un “filtro” che, senza modificare la Costituzione, invertisse il rapporto tra jus litigatoris e jus constitutionis.
La Corte costituzionale (11 febbraio 1999, n. 26), infatti, prima della novella costituzionale del 1999 e, quindi, in base a una nozione di «giusto» processo deducibile dal sistema, ha affermato che «l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all’art. 2 della Costituzione e caratterizzanti lo Stato democratico di diritto: un diritto che non si lascia ridurre alla mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni, foss’anche ad autorità appartenenti all’ordine giudiziario, destinate a una trattazione fuori delle garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l’impugnabilità con ricorso per cassazione».
Prima della costituzionalizzazione dei principi del «giusto» processo, il giudice delle leggi comprendeva il ricorso per cassazione tra le «garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute».
Non sembra possa sostenersi con qualche fondamento che la novella dell’art. 111 Cost. abbia modificato la situazione.
Per quanto riguarda la verifica preliminare dei ricorsi in funzione di una deflazione del contenzioso, a ben vedere, l’Assemblea generale del 23 aprile 1999 indicava la soluzione nella modifica dell’art. 375 cpc, realizzata nel 2006 con il d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, unitamente all’introduzione dell’art. 380-bis e in misure organizzative, realizzate con l’istituzione della «Struttura» di cui al decreto del primo presidente del 9 maggio 2005.
Né dieci, né quattro anni fa, nelle assemblee generali della Corte del 23 aprile 1999 e del 21 luglio 2005, alcuno pensava all’introduzione di una verifica preliminare per far prevalere lo jus constitutionis sullo jus litigatoris.
4. La riforma in fieri: il contesto
Nell’illustrare le Linee programmatiche del Ministero all’inizio della XV Legislatura, il 27 giugno 2006, il Ministro della giustizia aveva dichiarato: «Nella materia del diritto processuale civile va dedicata particolare attenzione a tutte le misure idonee ad incidere sulla durata dei procedimenti. Misure che non devono risolversi soltanto in interventi normativi di riforma, giacché il tumultuoso incedere degli interventi del legislatore può essere, a sua volta, causa di crisi del sistema».
Sulla stessa linea si è aperta la XVI Legislatura: il 4 giugno 2008, il Ministro della giustizia, tra l’altro, affermava che: «le linee guida della riforma del processo civile che si intendono perseguire sono quelle di rendere effettiva la garanzia dei cittadini ad un processo giusto, che si svolga in termini ragionevoli e, a tal fine, si preferisce – piuttosto che procedere a un’ulteriore riforma organica del codice di procedura civile – intervenire su specifici punti del rito civile e prevedere misure organizzative al fine di ridurre i tempi processuali».
Nonostante queste enunciazioni di principio, vuoi nel corso della XV, vuoi nel corso della [corrente] XVI Legislatura repubblicana, si è posto mano alla disciplina processuale (cfr. la Rassegna di legislazione, in Riv. dir. proc.).
Il 21 dicembre 2006, infatti, a Strasburgo, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva esaminato ancora una volta la situazione della giustizia in Italia; aveva richiamato la Risoluzione del 2005; aveva preso atto dell’impegno in tal senso del Governo italiano: in particolare, dell’intenzione di adottare «un certo numero di riforme legislative sulle procedure giudiziarie», nonché degli sviluppi del progetto sul processo civile telematico; aveva rinviato ogni valutazione alla riunione del 13-14 febbraio 2007. A conclusione di tale incontro, i Ministri dell’Unione avevano stimolato le autorità italiane a risolvere il problema della giustizia civile e le avevano invitate ad affrontarlo sul piano effettuale, decidendo di rinviare ogni decisione al 1° novembre 2008.
L’ampio termine ottenuto avrebbe consentito di orientare l’attenzione sulle «misure che non devono risolversi soltanto in interventi normativi di riforma», come annunciato nelle Linee programmatiche del Ministero della giustizia.
Il comunicato stampa del dicembre 2006, tuttavia, ridestava l’illusione che la questione dell’inefficienza del processo civile potesse essere risolta con riforme delle «procedure giudiziarie» in luogo di una doverosa opera di coordinamento e razionalizzazione.
Puntualmente, infatti, il 23 e il 24 gennaio 2007 il Ministro della giustizia annunciava la riforma.
Conclusasi anticipatamente la XV Legislatura repubblicana, il 18 giugno 2008 il Consiglio dei ministri approvava un decreto legge e un disegno di legge recanti, l’uno e l’altro, disposizioni «per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria».
Per quanto riguarda la giustizia e, in particolare, la giustizia civile, nel decreto e nella proposta di legge erano raccolti molti progetti elaborati e discussi nel corso della legislatura precedente: in particolare, il ddl n. 1524/S/XV, sulla riforma del processo civile; uno schema di disegno di legge elaborato dal Ministero della giustizia l’11 luglio 2006 sulle notificazioni e sul processo telematico; le proposte della “Commissione Foglia” e del ddl n. 1047/S/XV, sulle controversie di lavoro.
Il decreto, pubblicato nella Gazzetta ufficiale il 25 giugno 2008, prendeva il n. 112; era presentato alla Camera con il n. 1386/C/XVI.
Nella seduta mattutina del 10 luglio 2008 erano ritenuti inammissibili gli emendamenti diretti a inserire nella legge di conversione del dl le proposte relative al processo civile; era stata, tuttavia, rinviata la valutazione relativa all’emendamento, presentato autonomamente, sul giudizio in Cassazione; nella seduta pomeridiana, l’emendamento veniva ritirato.
L’altra proposta di legge, presentata alla Camera il 2 luglio 2008, diventava il ddl n. 1441/C/XVI.
Il dl 25 giugno 2008, n. 112 era, quindi, convertito dalla l. 6 agosto 2008, n. 133.
Il 5 agosto 2008, il ddl n. 1441/C/XVI era stralciato: le parti relative al processo civile venivano inserite nel ddl n. 1441-bis; in esso era la proposta di aggiungere l’art. 360-bis cpc.: il testo era riformulato rispetto a quello che si era tentato di introdurre nella legge di conversione del dl 25 giugno 2008, n. 112.
Il 2 ottobre 2008, il ddl n. 1441-bis/C/XVI era approvato dalla Camera con un emendamento proposto dall’opposizione.
Il 6 ottobre 2008 era trasmesso al Senato, dove prendeva il n. 1082/S/XVI.
In considerazione delle critiche espresse da più parti nei confronti della proposta relativa al giudizio di legittimità, il Governo presentava subito un emendamento correttivo.
Il 4 dicembre 2008, in riferimento ai 2183 casi pendenti innanzi alla Corte di Strasburgo contro l’Italia per l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziali, le istituzioni europee, «considering that the results of the reforms will only be measurable in the medium term, invited the Italian authorities to draw up a timetable for the results anticipated. In the medium term, to assess them as the reforms proceed, and to adopt a method for analysing these results in order to make any necessary adjustments».
Il 25 febbraio 2009, innanzi alla Commissione giustizia del Senato, convocata per valutare la proposta di riforma della giustizia civile, il Ministro della giustizia ritirava l’emendamento relativo al giudizio innanzi alla Corte, ma erano approvati altri emendamenti diretti a sopprimere quello votato alla Camera.
Il 4 marzo 2009 la riforma era approvata dal Senato e rimandata alla Camera in terza lettura. Lo stesso giorno, il comunicato stampa del Ministero della giustizia affermava:
«Si tratta di una vittoria straordinaria che assicura una forte accelerazione dei giudizi, snellendone le varie fasi e garantendo una decisione più rapida delle controversie. In quest’ottica, la riforma assicura una migliore efficienza dell’attività giurisdizionale e introduce strumenti alternativi per la risoluzione delle liti rispetto al ricorso al giudice».
Se e quando la riforma sarà approvata, l’esperienza applicativa consentirà di verificare se l’entusiasmo del Ministro meriti di essere condiviso.
Alla Camera, il disegno di legge prendeva il n. 1441-bis B/C/XVI ed era assegnato, congiuntamente, alle Commissioni I e V.
Queste hanno deliberato di procedere ad audizioni, che si sono svolte il 25 e il 31 marzo 2009.
Il 31 marzo 2009, nella seduta delle commissioni riunite successiva alle audizioni, l’On. Pecorella ha proposto «la soppressione dell’intero articolo al fine di far confluire la materia del “filtro in Cassazione”, che è senza dubbio un istituto utile ma che andrebbe congegnato in modo diverso, all’interno di un nuovo e diverso provvedimento, da esaminare in Commissione Giustizia». Emendamenti in questo senso sono stati quindi presentati da esponenti della maggioranza e dell’opposizione.
Il 6 e l’8 aprile, le commissioni hanno valutato l’opportunità di stralciare dalla riforma la parte relativa al giudizio innanzi alla Corte.
Nella successiva seduta del 21 aprile 2009, ogni decisione sul punto è stata rinviata all’aula.
5. Le proposte di riforma del giudizio in Cassazione
Nel corso del contrastato iter parlamentare, sono stati presentati tre diversi testi di riforma del giudizio in Cassazione: un primo, subito ritirato, quale emendamento alla legge di conversione del dl 25 giugno 2008, n. 112; un secondo presentato alla Camera nel ddl n. 1441-bis e approvato da questa con una modifica proposta dall’opposizione, soppressa poi dal Senato; una terza proposta è quella presentata dal Governo al Senato e ritirata al momento della votazione.
In base alla prima proposta:
«1. Il ricorso per cassazione avverso le sentenze civili e tributarie è sottoposto ad una verifica preliminare di ammissibilità, in attuazione di principi posti dall’articolo 111, commi 2 e 7, della Costituzione.
2. Il ricorso è sempre dichiarato ammissibile oltre che quando concerne sentenze pronunciate in unico grado, quando la sentenza gravata non è coerente in tutto o in parte con i principi di diritto correntemente affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nell’esercizio della funzione nomofilattica. Il ricorso è altresì dichiarato ammissibile quando la questione giuridica, sostanziale o processuale proposta riveste specifica importanza per consentire l’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali o per garantirne l’uniformità e la coerenza, nonché quando la parte soccombente nel giudizio di secondo grado lamenta la violazione dei principi regolatori del giusto processo. La verifica di ammissibilità ha esito positivo anche quando ricorrono i presupposti per una pronuncia ai sensi dell’art. 363 del codice di procedura civile.
3. La verifica di cui al comma 1, concernente il ricorso o la sentenza impugnata, è decisa dalla Corte di cassazione in camera di consiglio, senza intervento delle parti e della Procura generale, con ordinanza resa da un collegio di tre magistrati delle Sezioni unite.
4. L’ordinanza sulla ammissibilità del ricorso è impugnabile soltanto per il motivo di cui all’articolo 395, n. 4, del codice di procedura civile, con ricorso alle stesse Sezioni unite entro 60 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza; l’impugnazione è decisa, nelle forme di cui al comma 3, da un collegio di tre diversi magistrati.
5. Le ordinanze di cui ai commi 3 e 4 sono comunicate alle parti costituite con biglietto di cancelleria, ovvero mediante telefax o posta elettronica, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, relativa a tali forme di comunicazione degli atti giudiziari.
6. Il ricorso dichiarato ammissibile viene assegnato a una Sezione della Corte di cassazione per la sua trattazione, secondo le norme del codice di procedura civile. Se il ricorso è dichiarato inammissibile, la sentenza gravata passa in giudicato.
7. L’art. 366 bis del codice di procedura civile è abrogato.
8. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle controversie nelle quali la sentenza gravata con il ricorso per cassazione è stata pubblicata successivamente alla entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
Secondo il testo approvato dalla Camera il 2 ottobre 2008:
«1. Dopo l’articolo 360 del codice di procedura civile è inserito il seguente:
“Art. 360-bis (Ammissibilità del ricorso) – Il ricorso è dichiarato ammissibile:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo difforme da precedenti decisioni della Corte;
2) quando il ricorso ha per oggetto una questione nuova o una questione sulla quale la Corte ritiene di pronunciarsi per confermare o mutare il proprio orientamento ovvero quando esistono contrastanti orientamenti nella giurisprudenza della Corte;
3) quando appare fondata la censura relativa a violazione dei princìpi regolatori del giusto processo;
4) quando ricorrono i presupposti per una pronuncia ai sensi dell’articolo 363.
Non è dichiarato ammissibile il ricorso presentato ai sensi dell’articolo 360, primo comma, numero 5), avverso la sentenza di appello che ha confermato quella di primo grado.
Sull’ammissibilità del ricorso la Corte decide in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile resa da un collegio di tre magistrati.
Se il collegio ritiene inammissibile il ricorso, anche a norma dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5), seconda parte, il relatore deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che giustificano la dichiarazione di inammissibilità. Si applica l’articolo 380-bis, commi secondo, terzo e quarto.
L’ordinanza che dichiara l’inammissibilità è comunicata alle parti costituite con biglietto di cancelleria, ovvero mediante telefax o posta elettronica, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, relativa a tali forme di comunicazione degli atti giudiziari.
Il ricorso dichiarato ammissibile è assegnato a una sezione della Corte di cassazione per la sua trattazione. Se il ricorso è dichiarato inammissibile, il provvedimento impugnato passa in giudicato. L’ordinanza provvede sulle spese a norma dell’articolo 96, terzo comma».
2. L’articolo 366-bis del codice di procedura civile è abrogato.
3. All’articolo 375, primo comma, numero 5), del codice di procedura civile, le parole: “o per difetto dei requisiti previsti dall’articolo 366-bis” sono soppresse».
In riferimento a questo testo, il Governo aveva presentato e ha quindi ritirato l’emendamento che segue:
«1. Dopo l’articolo 360 del codice di procedura civile è inserito il seguente: “Art. 360-bis (Ammissibilità del ricorso) – Il ricorso è dichiarato ammissibile:
a) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo difforme da precedenti decisioni della Corte;
b) quando il ricorso ha per oggetto una questione nuova o una questione sulla quale la Corte ritiene di pronunciarsi per confermare o mutare il proprio orientamento ovvero quando esistono contrastanti orientamenti nella giurisprudenza della Corte;
c) quanto appare fondata la censura relativa a violazione dei principi regolatori del giusto processo. Non è dichiarato ammissibile il ricorso presentato ai sensi dell’articolo 360, primo comma, numero 5), avverso la sentenza di appello che ha confermato quella di primo grado”.
2. L’articolo 366-bis del codice di procedura civile è abrogato.
3. All’articolo 375 del codice di procedura civile, primo comma, numero 5, le parole: “o per difetto dei requisiti previsti dall’articolo 366-bis” sono sostituite dalle seguenti: “o per difetto dei requisiti previsti dall’articolo 360-bis”».
Il Senato, in accoglimento di alcuni emendamenti di singoli parlamentari ha, quindi, approvato, il 4 marzo 2009, il testo che segue:
«1. Dopo l’articolo 360 del codice di procedura civile è inserito il seguente:
“Art. 360-bis (Ammissibilità del ricorso) – Il ricorso è dichiarato ammissibile:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo difforme da precedenti decisioni della Corte;
2) quando il ricorso ha per oggetto una questione nuova o una questione sulla quale la Corte ritiene di pronunciarsi per confermare o mutare il proprio orientamento ovvero quando esistono contrastanti orientamenti nella giurisprudenza della Corte;
2) quando appare fondata la censura relativa a violazione dei princìpi regolatori del giusto processo;
4) quando ricorrono i presupposti per una pronuncia ai sensi dell’articolo 363.
Sull’ammissibilità del ricorso la Corte decide in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile resa da un collegio di tre magistrati.
Se il collegio ritiene inammissibile il ricorso, anche a norma dell’articolo 375, primo comma, numeri 1 e 5, seconda parte, il relatore deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che giustificano la dichiarazione di inammissibilità. Si applica l’articolo 380-bis, commi secondo, terzo e quarto.
L’ordinanza che dichiara l’inammissibilità è comunicata alle parti costituite con biglietto di cancelleria, ovvero mediante telefax o posta elettronica, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, relativa a tali forme di comunicazione degli atti giudiziari.
Il ricorso dichiarato ammissibile è assegnato a una sezione della Corte di cassazione per la sua trattazione. Se il ricorso è dichiarato inammissibile, il provvedimento impugnato passa in giudicato. L’ordinanza provvede sulle spese a norma dell’articolo 96, terzo comma”.
2. L’articolo 366-bis del codice di procedura civile è abrogato.
3. All’articolo 375, primo comma, numero 5), del codice di procedura civile, le parole: “o per difetto dei requisiti previsti dall’articolo 366-bis” sono soppresse».
Ai sensi dell’art. 59, comma 5 del ddl,
«Le disposizioni di cui all’articolo 48 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge».
In ogni caso, quindi, la riforma non potrebbe incidere sull’arretrato.
6. Le reazioni degli operatori
In riferimento al primo testo, obiettivamente naïf, presentato e ritirato il 10 luglio 2008, i ricorsi «in materia civile e tributaria» avrebbero dovuto essere sottoposti a una «verifica preliminare di ammissibilità» in aggiunta a quella già prevista e affidata al giudice relatore in funzione dello smistamento del ricorso tra camera di consiglio e udienza pubblica. La nuova «verifica preliminare» sarebbe stata esclusa per i provvedimenti diversi dalle sentenze e per quelli resi in unico grado. Sarebbe stata compiuta, senza contraddittorio alcuno, da un collegio composto da tre magistrati «delle sezioni unite», in base a criteri sostanzialmente discrezionali. Il provvedimento preliminare sarebbe stato impugnabile per revocazione. Sarebbe stata eliminata la previsione per la quale i motivi di ricorso debbono concludersi con la formulazione di un quesito di diritto o con la chiara indicazione del fatto controverso. La nuova disciplina avrebbe operato soltanto per il futuro.
Con un comunicato stampa, pubblicato l’11 luglio 2008, il Consiglio nazionale forense aveva manifestato «forti perplessità» per «l’evidente forzatura dei tempi e di modi che caratterizza la proposta sul ruolo del giudizio in Cassazione, che verrebbe sconvolto senza un chiaro disegno e una chiara redazione e senza che sia intervenuto un dibattito sia in sede politica che tra gli operatori del diritto».
Secondo il Cnf, «gli effetti della norma, presentata come tesa ad attuare l’articolo 111 della Costituzione, sarebbero contrari ai principi costituzionali, la normativa è contraddittoria e irragionevole oltre che velleitaria, poiché a fronte dello scopo di ridurre il numero dei ricorsi incombenti in Cassazione, è inidonea a raggiungere il risultato ed è possibile fonte di sostanziale disparità di trattamenti nella parte in cui trasforma il ricorso in Cassazione per violazione di legge in una “supplica” affidata alla assoluta discrezionalità di tre consiglieri».
Anche le successive proposte hanno suscitato diffuse perplessità, se non veementi critiche.
Nell’Assemblea generale della Corte convocata il 28 ottobre 2008, per valutare le «misure dirette ad accelerare i tempi di definizione dei ricorsi civili e penali, anche alla luce delle esperienze acquisite attraverso l’esame preliminare dei ricorsi civili e lo spoglio centralizzato penale, nonché nelle prospettive di riforma in materia processuale», sebbene il primo presidente avesse precisato che «l’Assemblea non è chiamata a dare un parere sul testo in discussione al Parlamento», non sono mancati rilievi critici sulla proposta di legge, possibile fonte di complicazioni, di aggravio di lavoro e di rallentamento dei tempi del giudizio innanzi alla Corte.
Il Csm, nel parere sul disegno di legge, sul punto ha osservato:
«Quanto al nuovo “filtro” con cui viene ripresa – sia pure con formulazione migliore – la proposta già avanzata nell’ambito del decreto legge n. 112/2008, e che aveva suscitato ferma opposizione del Consiglio nazionale forense, il condivisibile (e condiviso) intento di porre rimedio alla insostenibile mole dei ricorsi che incide pesantemente sulla funzionalità della Corte rischia di provocare soluzioni discutibili. Già colpisce pensare ad un giudizio costruito in termini di ammissibilità, anziché di inammissibilità; e ancor più colpisce il fatto che in questo modo verrebbe ricondotto nella categoria dell’ammissibilità/inammissibilità ciò che propriamente attiene all’ambito della manifesta fondatezza/infondatezza del ricorso (cui nella disciplina attuale già si provvede con il procedimento di cui agli articoli 375 e 380 bis c.p.c.). Ma simili strappi sul terreno delle categorie concettuali potrebbero forse riuscire accettabili se non fosse che ad essi si accompagna il rischio di alterazioni profonde sul piano sostanziale della tutela e sul ruolo istituzionale della Corte. I margini di opinabilità/discrezionalità insiti nella identificazione di ciò che può considerarsi deciso in modo “conforme” o “difforme” da precedenti decisioni della Corte, di ciò che può ritenersi profilo “nuovo” o semplice riedizione di tesi già esaminate in altro giudizio, dei criteri che possono indurre in un caso ad approfondire e in un altro a decidere di non farlo, dei parametri in base ai quali può ritenersi fondata – ai fini dell’ammissibilità del ricorso – la censura alla violazione dei principi regolatori del giusto processo, devono indurre a meditati approfondimenti prima di introdurre formule che l’esperienza potrebbe presto consigliare di abbandonare. E ciò tanto più che in considerazione di dubbi che la formulazione del testo apre sullo stesso piano procedimentale, non essendo tra l’altro chiaro in che modo e in base a quali criteri debba essere costituito il collegio cui è devoluto il vaglio di ammissibilità: se tale collegio (composto di tre magistrati e non da cinque, come tutti i collegi in Cassazione) debba essere incardinato all’interno di ciascuna sezione o a “valle” di esse; se il giudizio di ammissibilità sia vincolante per il collegio che deciderà il merito del ricorso, essendo comunque da ritenere che la dichiarazione di ammissibilità sotto i profili indicati nell’art. 360-bis non sia o non possa essere di ostacolo alla dichiarazione di inammissibilità, da parte del collegio “ordinario”, per profili diversi, così come è ben possibile che la sentenza impugnata contenga più statuizioni, alcune soltanto da ritenere ricorribili in base al nuovo testo, profilandosi per questa via uno sdoppiamento e una moltiplicazione di tempi e “passaggi” di giudizi che è esattamente l’opposto di ciò di cui ha bisogno la Cassazione. Un filtro per il giudizio di cassazione è certamente necessario, come riconosciuto da tutti gli operatori, ma sarebbe più opportuno demandarlo a percorsi differenziati nella trattazione dei ricorsi, nella forma dei provvedimenti e nella motivazione delle decisioni, ricercando anche sul terreno organizzativo quei “filtri” che sul terreno processuale difficilmente potrebbero essere attuati prescindendo da una visione generale ed unitaria del processo, e dell’insieme dei bisogni in tema di risorse e di strutture».
La sezione della Cassazione dell’Associazione nazionale magistrati, in più documenti, ha espresso «un giudizio critico»:
«si tratta di una formulazione inusitata della quale sembra non siano stati valutati i significati e gli effetti». Rispetto alle «due uniche possibili letture della norma, va considerato che entrambe determinerebbero conseguenze difficilmente compatibili con l’ordinamento costituzionale e con la nostra cultura giuridica. In primo luogo, infatti, risulterebbe attribuita alla Cassazione la possibilità di dichiarare inammissibile – e quindi di decidere di non giudicare, neppure al fine di dichiarare la manifesta infondatezza – un ricorso proposto in conformità alle forme e ai termini stabiliti dalla legge e che denunzi una violazione di legge. A noi sembra palese e indiscutibile il contrasto con l’articolo 111, settimo comma, della Costituzione, secondo cui contro le sentenze è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Non può seriamente dubitarsi che il diritto costituzionale di ricorrere in Cassazione per violazione di legge implica, se vengono rispettati i termini e le forme prescritte, il diritto a una pronunzia della Corte – eventualmente anche stringatissima e libera da qualunque prescrizione meramente formale – che dica se la violazione di legge denunziata vi è stata o meno. Né può ritenersi giustificazione plausibile una sorta di bilanciamento tra il comma settimo dell’articolo 111 ed il principio di ragionevole durata dei processi. A tacer d’altro non sembra possibile istituire un rapporto di bilanciamento tra principi, valori o interessi, pur costituzionalmente riconosciuti, ed una regola, quale quella in esame, direttamente e specificamente dettata dalla stessa Costituzione ed espressa in termini così assoluti e precisi, secondo cui – è bene ricordarlo – “il ricorso in Cassazione per violazione di legge è sempre ammesso”. Stabilire che il ricorso non è sempre ammesso ma può essere ammesso o no a discrezione della Corte di cassazione significa violare il preciso dettato costituzionale, e non interpretarlo: le disinvolture costituzionali sono sempre da evitare, perché la Costituzione deve essere interpretata ed attuata magis ut valeat, non aggirata con manovre elusive. (…) [L]a proposta di eliminare radicalmente o di ridurre drasticamente la possibilità di ricorrere in Cassazione per vizio o mancanza della motivazione potrebbe anche essere considerata degna di riflessione, ma sembra evidente che essa avrebbe bisogno di un dibattito più ponderato e di una formulazione più chiara, impegnativa e consapevole. (…) [L]a norma rende del tutto indecifrabili i rapporti tra essa ed il precedente articolo 360. (…) Come l’assemblea dei magistrati della Corte ha messo in luce, è poi molto difficile sostenere che una simile riforma avrebbe risultati positivi in termini di deflazione del lavoro della Corte. Anche qui appare indispensabile cercare di individuare quali siano gli effetti concreti che la norma è destinata a produrre. Non è un tentativo del tutto facile: proprio per questo erano necessarie quella riflessione e quel confronto che invece i modi dell’iniziativa legislativa hanno impedito di attuare. La decisione sull’ammissibilità del ricorso e cioè la decisione se la Corte di cassazione debba decidere il ricorso o no è rimessa alla valutazione di un collegio formato da tre magistrati (non si sa come nominati). Per tale valutazione – salvo i casi di contrasto con precedenti decisioni o di novità della questione – la legge non detta alcuna direttiva né alcun criterio, sicché si tratta di una decisione arbitraria (la formula legislativa “questione sulla quale la Corte ritiene di pronunciarsi per confermare o mutare il proprio orientamento” non ha, ovviamente, alcun valore precettivo, cioè non dice ai tre giudici che cosa debbono fare, come debbono decidere e sulla base di quali ragioni: ma i giudici, compresa la Cassazione, sono soggetti solo alla legge. Per ottenere che la Corte riesamini una questione non sarebbe più sufficiente proporre nuovi e persuasivi argomenti, ma diventerebbe necessario che i tre giudici ai quali è rimessa la verifica di ammissibilità ritengano che la Corte debba pronunziarsi, senza che la norma dica nulla sui criteri in base ai quali essi debbono fare tale valutazione. La decisione – di ammissibilità o di inammissibilità – verrebbe adottata dal collegio di tre magistrati, con ordinanza non impugnabile emessa a seguito di procedimento in camera di consiglio per il quale la norma rinvia alla disciplina di cui all’articolo 380-bis: a seguito di un esame collegiale preliminare, se il collegio si orienta per l’inammissibilità, uno dei componenti ne riferisce in una relazione che viene comunicata alle parti e al Pubblico ministero, i quali hanno la facoltà di depositare memorie e di essere sentiti in camera di consiglio. Vengono richiamati i commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 380-bis, ma non il quinto. Non se ne deve ovviamente desumere che il legislatore abbia escluso che il collegio possa farsi convincere di aver sbagliato ad ipotizzare l’inammissibilità del ricorso. Ne consegue che, se anche il collegio, melius re perpensa, giunge a ritenere che il ricorso è ammissibile, lo deve giudicare esso stesso – in formazione ristretta e in camera di consiglio – e non rinviare la causa alla pubblica udienza. Dalla disciplina proposta risulta una notevole oscurità per quanto riguarda i rapporti tra il nuovo articolo 360-bis e l’art. 375 c.p.c., e questa oscurità presenta profili particolarmente preoccupanti per quanto riguarda i ricorsi ritenuti ammissibili. In proposito, è innanzitutto da segnalare che mentre è possibile ricondurre l’ipotesi di manifesta infondatezza del ricorso all’inammissibilità derivante dall’articolo 360-bis, non appare esservi più alcuno spazio per la decisione camerale e semplificata in caso di manifesta fondatezza. È, infatti, certamente da escludere che un ricorso manifestamente fondato possa essere dichiarato inammissibile, il che significa che esso sarà ammissibile. Ma per il ricorso ammissibile la norma prevede esclusivamente che esso sia “assegnato ad una sezione della Corte di cassazione per la sua trattazione”. Si tratta di vedere se con tale formulazione la norma abbia inteso riferirsi alla trattazione in pubblica udienza o se essa lasci ancora spazio ad una ulteriore trattazione camerale ai sensi degli articoli 375 e 380-bis. Appare comunque opportuno sottolineare le differenze concrete rispetto all’attuale regime. Anche oggi il ricorso viene sottoposto ad un vaglio preliminare per accertare se esso deve essere trattato in pubblica udienza oppure in camera di consiglio e, tra i casi di trattazione in camera di consiglio, vi è anche il caso di inammissibilità del ricorso. Ma la somiglianza è solo apparente. Attualmente il vaglio è fatto da un singolo magistrato e se esso si conclude per la trattazione in pubblica udienza la decisione è informale e del tutto priva di motivazione: al massimo un timbro firmato. La decisione collegiale di ammissibilità resa in forma di ordinanza implica invece che la causa sia comunque esaminata da tre magistrati e non da uno solo (il che, moltiplicato per tutti i ricorsi presentati in Cassazione, comporta di per sé un aggravio di lavoro notevole). Trattandosi di un collegio, è logico che dovrà preventivamente essere nominato un relatore, il quale ne riferirà in camera di consiglio. È poi previsto che il collegio decida con ordinanza, la quale – proprio perché tale – deve essere motivata ai sensi dell’articolo 134 c.p.c., sia pure succintamente (ma pur sempre in modo conforme alla norma disciplinare di cui all’articolo 2, lettera l) del decreto legislativo 109 del 2006, secondo cui costituisce illecito disciplinare “l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge” (essendo anche da ricordare che l’azione disciplinare è ora obbligatoria e che vi è uno specifico obbligo di rapporto in capo ai dirigenti degli uffici giudiziari, anch’esso disciplinarmente sanzionato). Pertanto, quello che fino ad oggi era un timbro firmato da un singolo magistrato, diventa ora un’ordinanza emessa a seguito di deliberazione collegiale e motivata. Un’ordinanza impegnativa, anche perché, essendo non impugnabile, è anche irrevocabile. È difficile quantificare esattamente l’aumento di lavoro che questo meccanismo comporterebbe una volta che lo si applichi a tutti i ricorsi presentati alla Cassazione. La trasformazione in procedura di delibazione e decisione collegiale con ordinanza motivata della valutazione di ammissibilità del ricorso, che era fino ad oggi una decisione de plano, informale e non motivata, assunta dal singolo magistrato addetto al cd. spoglio può naturalmente apparire, in prima battuta, un aggravio procedimentale talmente assurdo, irragionevole e ingiustificato da poterlo spiegare solo con una svista, un errore di scrittura facilmente emendabile. Ma forse non è così. Se infatti si rapporta la modifica procedurale fin qui esaminata all’identificazione restrittiva dei casi di ammissibilità del ricorso, contenuta nel primo comma dell’articolo 360-bis, può desumersi che la decisione di ammissibilità del ricorso è in realtà destinata, nell’ottica della nuova disciplina, a non essere più la decisione, per così dire, “normale”. La decisione di ammissibilità appare anzi indirizzata a divenire eccezionale, in qualche modo rara, affidata a parametri di estrema elasticità e di quasi nessuna vincolatività, come si è detto. In realtà questo esame preliminare di ammissibilità rappresenta il vero e proprio guardiano alla porta di accesso alla Corte. Un guardiano chiamato a selezionare gli accessi in base a credenziali in buona misura “politiche”, sia pure di politica giudiziaria o di “politica nomofilattica”. Ecco perché quello prefigurato dalla riforma in esame appare essere un vero e proprio sconvolgimento del ruolo e dell’identità della Corte nonché dei caratteri fondamentali del suo concreto operare nella storia della giurisdizione italiana. Noi non siamo sicuri che tutti se ne rendano conto. Riteniamo che una simile svolta non possa essere decisa senza ponderazione, senza un approfondito confronto culturale e senza un vero e proprio dibattito parlamentare».
Considerazioni analoghe sono state espresse dalla Segreteria di Unità per la Costituzione:
«La premessa e la finalità della nuova proposta va condivisa, ma sembra necessario rimeditarla alla luce delle opinioni “critiche” che hanno accompagnato le modifiche normative ed organizzative sin qui introdotte, che hanno rilevato l’opportunità di riscontrarle con i risultati concreti ottenibili e che hanno prefigurato la parzialità di ogni intervento che non si confronti direttamente con la disposizione costituzionale dell’art. 111, 7° comma, Cost. (…) Il capovolgimento della fase di valutazione dei ricorsi, mediante l’istituzione di un giudizio preliminare di ammissibilità, crea margini molto ampi di incertezza in punto di conseguente decisione sul merito del ricorso dopo l’ordinanza sull’ammissibilità/inammissibilità. Secondo quali procedure si attua il successivo giudizio, che rapporto sussiste tra il “novello” collegio e la sezione che dovrà trattare il giudizio, sono ipotizzabili profili di incompatibilità, la preliminare valutazione di ammissibilità (non impugnabile) vincola la decisione successiva: questi alcuni degli interrogativi. Gli indicati profili problematici andranno chiariti attraverso una chiara indicazione normativa per lo svolgimento della fase successiva all’ordinanza introdotta dal nuovo art. 360-bis, che sembra prevedere il ricorso al procedimento in camera di consiglio dell’art. 380-bis c.p.c. solo in ipotesi di inammissibilità del ricorso. I criteri di ammissibilità appaiono ancorati a valutazioni di grande discrezionalità e sembrano rafforzare il vincolo al precedente in maniera eccessiva rischiando di limitare, in via autocratica, l’evoluzione giurisprudenziale. L’ordinanza di ammissibilità fondata sull’opportunità di mutare l’orientamento della Corte sembra confliggere con l’autonomia di giudizio del collegio decidente e con lo spazio riservato alle sezioni unite. I tempi della procedura rischiano di aumentare se la fase di esame preliminare, per la cui conclusione è stato – apprezzabilmente – previsto un provvedimento espresso, comporta una duplicazione di atti: prima un’ordinanza e poi una relazione ex art. 380 bis. (…) Così come disciplinata l’istituzione di un filtro sul processo, mediante delibazione preliminare di ammissibilità del ricorso, rischia di porre profili di incostituzionalità, perché in realtà rappresenta una pronuncia o un anticipo di giudizio sul merito del ricorso in violazione dell’art. 111 Cost. Non solo: la costituzione di un collegio cui viene demandata la sostanziale decisione del ricorso, soprattutto in caso di inammissibilità, potrebbe confliggere anche con il principio del giudice naturale in mancanza di espressa disciplina per la sua composizione. La norma in esame, anche per ovviare ai dubbi prospettati innanzi, deve essere formulata avendo presente la sua natura non meramente processuale bensì di carattere ordinamentale. Occorre non ripercorrere le scelte finora compiute, attraverso interventi di carattere auto-organizzatorio, la cui indubbia validità ed efficacia vanno limitate ad una fase di sperimentazione, per procedere al pieno inserimento della previsione nell’ordinamento mediante indicazione specifica delle modalità con cui provvedere alla composizione del collegio (solo in via tabellare?) ovvero seguendo la strada del codice processuale penale mediante l’istituzione di una specifica sezione. (…) È indubbio che la nuova previsione comporterà un nuovo assetto organizzativo con un’ennesima modulazione dell’attività dei consiglieri. Si tratterebbe della terza riorganizzazione nel giro di poco più di tre anni (se si tralascia la modifica dell’art. 375 c.p.c. del 2001). È da chiedersi con quali garanzie di risultato e di successo. La “collaborazione” del foro alla elaborazione della nomofilachia attraverso il quesito di diritto viene abbandonata dopo poco più di un anno. Quanti e quali altri tentativi devono compiersi prima di effettuare una scelta netta per una Cassazione di ius costitutionis e non ius litigatoris? Il filtro, nel diritto comparato, non è strumento di deflazione ma garanzia di nomofilachia e di rafforzamento del ruolo della Corte Suprema».
Il Consiglio nazionale forense, con successivi comunicati e in occasione della audizione alla Camera,
«pur apprezzando complessivamente l’intervento riformatore, (…) rileva che: sono improduttivi e non condivisibili: (d) l’ipotesi del cd. filtro nel giudizio di cassazione, che trasforma il ricorso in strumento per garantire la nomofilachia introducendo, peraltro, un sostanziale principio – estraneo alla cultura giuridica del paese – di precedente vincolante suscettibile, a sua volta, di essere disatteso quando e se i giudici di legittimità decidessero insidacabilmente che è giunto il momento di modificarlo; (e) si ribadisce l’assoluta contrarietà al “filtro” in Cassazione, quale disegnato dal testo approvato al Senato. Il Governo aveva presentato un testo, che con alcune correzioni, avrebbe potuto essere condiviso. È stato inopinatamente ritirato. Si contesta fermamente la possibilità che sia abolita una garanzia considerata fondamentale dalla Costituzione. Si conferma la incongruità del mezzo rispetto al fine. Nel merito della proposta modificativa l’introduzione del cd. filtro in Cassazione, per come risulta congegnato, (i) modifica la funzione del ricorso, da espressione del diritto della parte (lettura corrente ed incontrastata dell’art. 111, co. 7° Cost.) a strumento della funzione nomofilattica, (ii) rischia di trasformarlo in una supplica affidata alla discrezionalità dei magistrati decidenti, (iii) sembra contrastare con la consolidata interpretazione dell’art. 111, co. 7° Cost. nonché con gli artt. 24 e 25 Cost. nella parte in cui limita il sindacato sulle violazioni di legge menzionate nell’art. 111 Cost. e subordina l’ammissibilità del ricorso a valutazioni discrezionali di un collegio di tre membri costituito ad hoc senza alcuna indicazione sui criteri e le modalità della nomina, in deroga all’art. 67 ord. giudiziario che impone la necessità per la Cassazione di decidere a sezioni, senza il necessario rispetto dei criteri tabellari, che – come rilevato dalla Corte costituzionale – rileva ai fini del necessario rispetto dell’art. 25 Cost. e del principio del giudice naturale precostituito per legge; (iv) sembra contrastare con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. nella parte in cui prevede che il provvedimento sia inimpugnabile, a differenza della possibilità del ricorso per revocazione ex art. 391-bis cpc per tutte le altre decisioni delle Corte; (v) l’inammissibilità dei ricorsi avverso le sentenze conformi a precedenti decisioni della Corte di cassazione implica una uniformità di orientamenti giurisprudenziali che deprime la creatività dei giudici e mortifica la funzione di stimolo, da sempre patrimonio dell’Avvocatura, risultando ostativa alle innovazioni necessarie per adeguare l’ordinamento giuridico alle esigenze economiche e sociali del Paese, (vi) il riferimento alle precedenti decisioni implica l’assegnazione di autonomo rilievo a ciascuna pronuncia, isolatamente considerata, che potrebbe anche essere difforme da altre rese dalla medesima Corte, potendosi quindi formare il giudizio di inammissibilità sulla base di un singolo precedente, (vii) la previsione della inammissibilità del ricorso quando esso non coinvolga una questione nuova implica l’impossibilità di adire il giudice di legittimità per invocare un mutamento di orientamenti, mentre il correttivo che affida allo stesso giudice il potere di scegliere i ricorsi sui quali pronunciarsi, trasforma il sistema vigente in un modello affine a quello del common law inglese, senza rifletterne, tuttavia, i connotati essenziali (tra i quali, ad es., l’estrazione dei giudici dalla classe forense, e per giunta con il metodo della cooptazione), (viii) l’attuale formulazione, inoltre, appare sostanzialmente abrogativa dell’art. 360 n. 5)».
La relazione di Antonio Carratta al IV corso di aggiornamento forense ha analiticamente illustrato le incongruenze e i profili di illegittimità costituzionale della proposta.
L’Organismo unitario dell’Avvocatura ha «ribadito la contrarietà alla formulata ipotesi di filtro per i ricorsi in Cassazione: una norma palesemente contraria alla Costituzione».
Nel comunicato del 30 settembre 2008, si era rilevato che «la seconda disposizione desta numerose perplessità sotto più profili e così, in prima battuta e salvo un doveroso approfondimento:
a) per la formulazione della norma, che appare eccessivamente generica (anche con riferimento alla violazione dei principi regolatori del giusto processo) e che, nel prevedere i casi di ammissibilità, risulta non essere coordinata, con ogni conseguenza, con le ipotesi di vizio o di mancanza di motivazione;
b) per la scelta di rimettere ai tre giudici di cui al secondo comma della norma la preliminare decisione se la Corte di cassazione debba confermare o mutare il proprio orientamento, senza la previsione dei criteri in basi ai quali tale valutazione va condotta, con grave compromissione del diritto costituzionale di ricorrere per cassazione per violazione di legge (e pertanto di veder decidere in merito al ricorso);
c) perché appare prevedere un procedimento che si sovrappone a quello di cui all’art. 375 cod. proc. civ.
Incomprensibile appare poi la previsione dell’art. 131-ter cod. proc. civ.
Neppure, va detto, appaiono condivisibili gli emendamenti formulati dal gruppo del PD in Commissione Giustizia, in primo luogo nella parte in cui si risolvono nella limitazione dell’impugnazione ex art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., all’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e prevedono che la sentenza di appello che ha confermato quella di primo grado non possa essere impugnata per il motivo di cui al n. 5) ora visto.
Quello del ripensamento dell’accesso alla Corte di cassazione è un tema sicuramente importante, ma per la sua delicatezza richiede un’adeguata ponderazione ed un approfondito dibattito, non tollerando, attesi i valori in gioco, soluzioni estemporanee e lesive di diritti anche costituzionalmente garantiti.
Né è accettabile che il tema venga affrontato con una norma improvvisata, inserita quasi di sorpresa in un testo normativo avente tutt’altra natura (collegato alla finanziaria) e verosimilmente destinato, proprio per tale sua natura, ad una rapida approvazione parlamentare, tale da non consentire l’approfondimento necessario.
Questo rilievo, così come la paradossale circostanza che la Commissione Giustizia sia stata espropriata delle sue competenze, vale naturalmente anche per tutte le altre norme sulla Giustizia contenute nel disegno di legge in questione, facendo emergere l’inaccettabilità di un metodo che finisce con il privare il Parlamento del ruolo di Legislatore che gli è proprio».
Nell’incontro di febbraio 2009, le relazioni di Giovanni Verde, Modestino Acone, Bruno Sassani e Gianfranco Ricci hanno indicato i profili critici della proposta di riforma.
In ripetuti documenti l’Unione triveneta dei Consigli degli Ordini degli avvocati ha manifestato il proprio dissenso: richiamando e facendo proprio il documento dell’Organismo unitario dell’Avvocatura, si è rilevato che «la soluzione prospettata nel disegno di legge 1441-bis B non può essere condivisa in quanto lesiva del contraddittorio e dell’art. 111 Costituzione», ma che «la proposta, pertanto, è quella di intervenire sull’art. 375 nr. 5 c.p.c. dando un contenuto al concetto di manifesta infondatezza ed ottenendo tramite questa innovazione effetti positivi e deflattivi».
L’Unione triveneta dei Consigli degli Ordini degli avvocati, con la deliberazione assunta a Bolzano il 20 aprile, si è anche espressa sugli emendamenti presentati in relazione al ddl n. 1441-bis B:
«Sulla norma riguardante il filtro in Cassazione, ferma l’opposizione alla sua introduzione per le ragioni più volte espresse da tutti gli operatori (magistrati ed avvocati), si esprime contrarietà agli emendamenti ritenuti ammissibili.
In particolare:
- l’emendamento 48.4 appare in stridente contrasto con i principi processuali e costituzionali vigenti, nonché di complessa ed incerta applicazione pratica;
- l’emendamento 48.4 e l’emendamento 48.5, che sanzionano, anche se con diverse formule, con la non ammissibilità il ricorso ex art. 360, primo comma, n. 5), nei confronti della sentenza di appello confermativa di quella di primo grado, appare inopportuno e foriero di gravi problematiche interpretative, innanzitutto in quanto esporrebbe al grave rischio di affrettate conferme dell’iter logico-giuridico adottato dal primo giudice (che potrebbero essere anche agevolate dall’essere le stesse sottratte al controllo di legittimità) ed altresì perché la conferma della prima decisione di frequente si accompagna ad un mutamento (totale o parziale) della motivazione. Tale ultima evenienza, oltre a porsi in conflitto con la ratio dell’innovazione (che apparirebbe fondata sulla scelta di sottrarre allo scrutinio di legittimità un iter argomentativo fatto proprio da due giudici diversi), lascerebbe gravemente pregiudicato il diritto di difesa di chi risultasse soccombente anche in appello in base ad una (parzialmente o totalmente) nuova motivazione, che finirebbe con l’essere del tutto incensurabile».
Analoga posizione contraria è stata espressa dall’Associazione italiana Giovani Avvocati e dalle Camere civili.
7. Il processo in Cassazione nel contesto complessivo della giustizia civile
Come si è rilevato in premessa, nei confronti degli strumenti processuali, la prima e fondamentale questione consiste nel verificare se funzionano o se possono funzionare, se sono idonei allo scopo per il quale sono stati o vorrebbero essere predisposti.
La proposta relativa all’introduzione di un “filtro” è stata indicata come uno strumento per reagire all’enorme numero di ricorsi pendenti innanzi alla Corte.
Ma non può incidere sull’arretrato.
Qualora fosse approvata una qualunque riforma del processo innanzi alla Corte, potrebbe essere applicata soltanto ai ricorsi che fossero proposti dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina.
La situazione potrebbe essere diversa se la proposta riguardasse esclusivamente i profili ordinamentali, l’organizzazione della Corte: in tal caso, trattandosi di disposizioni meramente interne, potrebbero ritenersi applicabili anche ai ricorsi già pendenti. Basti ricordare che la istituzione della sezione tributaria non ha richiesto alcun intervento legislativo, ma soltanto un provvedimento tabellare.
In secondo luogo, come da più si è osservato, la proposta appare destinata a complicare e a rallentare il giudizio innanzi alla Corte, imponendo un ulteriore passaggio.
Come si è rilevato, il procedimento in Cassazione dispone già di un “filtro”, anzi, a ben vedere, di due filtri: i ricorsi passano dalla «Struttura» e poi dal relatore, che provvede allo smistamento tra camera di consiglio e udienza pubblica. Potrebbe sembrare ragionevole concentrare queste attività, piuttosto che pensare alla introduzione di un ulteriore passaggio.
Questo, in realtà, implica un vero e proprio sub-procedimento, che richiede tempo, energie, risorse, cosicché la proposta si manifesta assolutamente contraria allo scopo che si vorrebbe perseguire.
Nell’Assemblea generale del 28 ottobre 2008, il dirigente della «Struttura», il presidente Paolo Vittoria, ha così descritto il possibile funzionamento della disciplina che si vorrebbe introdurre:
«Il procedimento del filtro d’ammissibilità. Secondo il nuovo art. 360-bis, terzo comma, si svolge davanti ad un collegio di tre magistrati. Il collegio può ritenere ammissibile il ricorso. Lo dichiara con ordinanza – che è definita non impugnabile – e lo assegna ad una sezione della Corte per la sua trattazione (art. 360-bis, sesto ed ultimo comma). Può invece ritenere che non sia ammissibile, secondo la nuova disciplina, ma anche secondo la precedente. In questo caso il relatore stende una relazione che indica le ragioni che giustificano tale decisione (art. 360, quarto comma). La relazione è comunicata con il decreto che fissa l’adunanza della Corte (art. 380-bis, comma 2). Pubblico ministero e difensori possono presentare conclusioni e memorie (art. 380-bis, comma 3). Nella seduta il collegio delibera con ordinanza (art. 380-bis, comma 4).
(…) Ciò comporta che i ricorsi siano provvisoriamente ripartiti tra le sezioni, secondo quanto si è sin qui praticato, e che il collegio di filtro operi in ambito sezionale. Immagino, anzi, che dalla composizione del collegio a cinque, come unità organizzativa decidente minima della Corte, possa essere partita l’idea di costituire collegi di filtro a tre, in modo da poter distribuire la funzione di filtro su più collegi presieduti dal magistrato preposto al gruppo sezionale ed in composizione variabile da due dei magistrati dello stesso gruppo. (…) Il procedimento davanti al collegio di filtro dovrebbe avere inizio con la nomina del relatore da parte del presidente, come è previsto dall’art. 377. Nel ruolo delle camere di consiglio del collegio di filtro, da tenersi in date predeterminate, i ricorsi andrebbero iscritti mano a mano che dai relatori fosse depositata o la relazione volta alla prosecuzione del procedimento in vista di una decisione definitiva del tipo consentito dall’art. 360-bis o dall’art. 375, o il parere di ammissibilità, esteso, eventualmente, a segnalare la necessità di integrare il contraddittorio, rinnovare la notifica, rimettere le parti in termini. La funzione del collegio di filtro mi sembra non possa che essere di natura ordinatoria e ciò in rapporto ad ambedue gli esiti del procedimento, con la differenza che, se il ricorso è ritenuto ammissibile, ma non a decisione manifesta, il collegio ne disporrà l’avvio alla pertinente sezione, con le eventuali integrazioni sul rito prima indicate, mentre, nel caso contrario, disporrà che la relazione sia notificata alle parti e comunicata al pubblico ministero, con la contemporanea fissazione di una successiva udienza in camera di consiglio. Nella quale ritengo però che il collegio debba rispettare la composizione a cinque o a sette, prevista dall’ordinamento giudiziario. L’impiego del termine “decide” usato per descrivere l’esito positivo del filtro di ammissibilità; e la circostanza che l’art. 360-bis non richiami il quinto comma dell’art. 380-bis, sul rinvio alla udienza pubblica all’esito di tale adunanza, poterebbero far pensare per un verso che questa modalità sia caduta, per altro verso che il collegio di filtro prosegua nella composizione a tre, se si tratta di decidere ancora in camera di consiglio nel senso della inammissibilità od in quello della decisione manifesta di fondatezza o di infondatezza».
Ha rilevato, quindi, in conclusione che:
«senza affiancare in modo stabile ai componenti consiglieri della struttura forze vogliose di partecipare a questa attività di studio, è arduo pensare che il filtro possa dare sul piano numerico il risultato che è stato possibile attingere per effetto della tecnica dei motivi a quesito».
Può apparire ovvio e scontato, anche a chi giurista non è, che se si paventa che le risorse disponibili siano insufficienti a far fronte alla domanda, la soluzione non può consistere nella previsione di ulteriori e complessi impegni.
A ben vedere, la questione fondamentale non riguarda i requisiti di «ammissibilità» che si vorrebbero introdurre. Già de jure condito, ai sensi dell’art. 375, n. 5, cpc, il relatore può indirizzare alla camera di consiglio i ricorsi «manifestamente infondati», nonché quelli «manifestamente fondati», senza ulteriori specificazioni.
In realtà, come da più parti è stato segnalato, i requisiti proposti riguardano, appunto, la manifesta infondatezza del ricorso e specificano quanto, attualmente, è affidato all’interprete.
Essi, in parte, corrispondono infatti a quanto indicato nel modello di codice di procedura elaborato da Andrea Proto Pisani:
«2.178 Provvedimenti impugnabili e motivi di ricorso.
Le sentenze pronunciate in grado d’appello e dalla corte d’appello in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione:
1) per violazione di norme di diritto sostanziale o processuale, di prescrizioni aventi un ambito di applicazione eccedente il distretto della corte d’appello, di contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, quando la violazione coinvolga una questione di rilievo generale o sia stata risolta in contrasto con orientamenti costanti delle Corte di cassazione, ovvero sussistano orientamenti difformi della Corte di cassazione negli ultimi cinque anni anteriori alla proposizione del ricorso;
2) se la sentenza è l’effetto di un errore decisivo di fatto risultante da atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare;
3) se la sentenza è contraria ad altra precedente fra le parti la quale sia passata in giudicato dopo la lettura del dispositivo della sentenza d’appello».
Il problema insito nelle proposte e le conseguenti diffuse critiche risiedono nell’appesantimento e nella complicazione del giudizio innanzi alla Corte.
È significativo che le reazioni alla proposta si siano acquietate allorché il Governo ha presentato al Senato l’emendamento correttivo e si siano risvegliate quando, inopinatamente, esso è stato ritirato.
Qualora si prescinda dal riferimento alla doppia conforme sull’accertamento del fatto, introdotto alla Camera e soppresso al Senato, la differenza tra il testo approvato e quello proposto e ritirato dal Governo risiede nella previsione del collegio ad hoc o dell’apposita sezione, nonché nella espressa sanzione di «inammissibilità» nell’art. 375 cpc.
La portata precettiva dell’emendamento governativo, infatti, si presta a essere apprezzata qualora si espliciti che i requisiti indicati riguardano la manifesta infondatezza del ricorso, non l’«ammissibilità», e si volgano al negativo i requisiti previsti:
«Art. 360-bis (Manifesta infondatezza del ricorso) – 1. Il ricorso è manifestamente infondato:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme a precedenti decisioni della Corte;
2) quando il ricorso non ha per oggetto una questione nuova o una questione sulla quale la Corte non ritiene di pronunciarsi per confermare o mutare il proprio orientamento ovvero quando non esistono contrastanti orientamenti nella giurisprudenza della Corte;
3) quando appare infondata la censura relativa a violazione dei princìpi regolatori del giusto processo.
2. L’articolo 366-bis del codice di procedura civile è abrogato.
3. All’articolo 375, primo comma, numero 5), del codice di procedura civile, le parole: “o per difetto dei requisiti previsti dall’articolo 366-bis” sono soppresse.
4. All’articolo 375 del codice di procedura civile sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:
«L’ordinanza che dichiara l’inammissibilità, la manifesta infondatezza o la manifesta fondatezza è comunicata alle parti costituite con biglietto di cancelleria, ovvero mediante telefax o posta elettronica, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, relativa a tali forme di comunicazione degli atti giudiziari.
L’ordinanza che dichiara l’inammissibilità o la manifesta infondatezza del ricorso provvede sulle spese a norma dell’articolo 96, terzo comma».
In termini sostanzialmente analoghi è un testo proposto dalla Unione triveneta dei Consigli degli Ordini degli avvocati.
Indipendentemente da giudizio di valore, la previsione di un collegio ad hoc o di un’apposita sezione e, quindi, di un ulteriore passaggio introduce un meccanismo inidoneo allo scopo. Né può dimenticarsi che il processo di legittimità è stato profondamente riformato nel 2006.
Ora, contro tutte le categorie professionali interessate al funzionamento della Corte, si vorrebbero introdurre altre modificazioni.
Nel 2006, tra i requisiti di ammissibilità del ricorso è stata prevista la formulazione del quesito. Il ddl contiene anche la proposta di abrogazione dell’art. 366-bis cpc, unitamente a quella del processo societario e dell’estensione del rito del lavoro alle controversie in materia di incidenti stradali.
8. L’art. 366-bis cpc e i possibili esiti del giudizio in Cassazione
In realtà, occorre prendere atto che l’idea di creare isole felici separate dal contesto complessivo è una illusione. È anche una illusione quella per la quale la crisi della giustizia possa essere risolta grazie a interventi normativi e palingenetici.
L’efficienza della giustizia è un problema tecnico, per affrontare il quale occorre capacità professionale, e non dipende soltanto dalla disciplina processuale.
Un ruolo determinante gioca la motivazione degli operatori, come risulta dalla profonda differenza dei dati statistici provenienti dai diversi uffici giudiziari.
In questa prospettiva, piuttosto che pensare a ulteriori interventi normativi – come hanno rilevato i ministri della giustizia all’inizio della corrente e della precedente legislatura, nonché il primo presidente nella relazione di inaugurazione del corrente anno giudiziario, tutta incentrata sui profili strutturali e organizzativi –, potrebbe essere opportuno chiedersi perché le ultime riforme non hanno dato le risposte che ci si aspettava e ora se ne auspica l’abrogazione.
Destinatario del quesito o della indicazione del fatto, ai sensi dell’art. 366-bis cpc, è il relatore, in funzione della pronuncia dei provvedimenti di cui all’art. 380-bis, comma 1, cpc: dello smistamento del ricorso tra udienza pubblica e camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, nn. 1, 2, 3 e 5, cpc, in funzione della dichiarazione di inammissibilità dell’intero ricorso, principale o incidentale, non dei singoli motivi; della pronuncia dell’ordine di integrazione del contraddittorio, dell’esecuzione della notificazione ai litisconsorti nelle cause scindibili, ovvero dell’ordine di rinnovazione della notificazione; della dichiarazione di estinzione; dell’accoglimento dei ricorsi, principali o incidentali, manifestamente fondati o infondati.
La valutazione della fondatezza o della infondatezza della impugnazione proposta, non solo della manifesta fondatezza o infondatezza di essa, è rimessa poi alla Corte in base ai motivi proposti e alle deduzioni del controricorrente.
Non appare corretto, invece, trasferire nella valutazione del quesito il giudizio sul merito dell’impugnazione.
In riferimento all’ambito di applicazione dell’art. 366-bis cpc, quale determinato dalla Corte, possono essere avviati alla camera di consiglio in funzione della dichiarazione di inammissibilità ai sensi dell’art. 375, n. 5, cpc, per mancanza dei quesiti, i ricorsi che ne siano affatto privi, quelli nei quali i quesiti siano assolutamente generici. Possono ugualmente essere avviati alla camera di consiglio i ricorsi che presentino quesiti manifestamente inesatti o inconferenti, ma non ai sensi del combinato disposto degli artt. 375, n. 5, e 366-bis cpc: tali ricorsi possono essere indirizzati alla camera di consiglio, perché manifestamente infondati, nello stesso modo in cui potrebbero avere la stessa sorte perché manifestamente fondati.
A ben vedere, il vizio di fondo della supervalutazione del nuovo requisito di ammissibilità del ricorso introdotto dall’art. 366-bis cpc risiede nella confusione tra quesito e motivo.
La valutazione del primo dovrebbe servire a una prima, superficiale, cognizione del ricorso; quella del secondo all’accoglimento o al rigetto dell’impugnazione.
Sennonché, il relatore, se ha esaminato approfonditamente il ricorso e si è convinto della sua infondatezza o della sua inammissibilità, potrà considerare una strada più semplice: quella di liberarsene, denunciando l’insufficienza del quesito.
L’esame preliminare dei ricorsi costituisce un compito specifico del relatore, il quale dovrebbe valutare i ricorsi in funzione dello smistamento, ai sensi dell’art. 380-bis, comma 1, cpc e, poi, in funzione della decisione. Il che implica un doppio esame del fascicolo: una prima volta in funzione dello smistamento e una seconda in funzione della decisione. E suscita la tentazione di definire ogni questione nella prima occasione. Con specifico riferimento alla sanzione di inammissibilità di cui all’art. 366-bis cpc, suscita la tentazione di confondere la valutazione del quesito con quella del motivo e di definire i ricorsi inammissibili o infondati non solo in base alla mancanza o alla assoluta genericità del primo, ma alla sua insufficienza, ovvero, come pure è avvenuto, alla sua infondatezza.
Determina, altresì, il limitato uso del procedimento camerale di cui all’art. 375 cpc: esaminato approfonditamente il fascicolo, il relatore è pronto a riferire alla udienza pubblica. Dal punto di vista del relatore designato, non sussistono differenze tra il riferire in camera di consiglio o all’udienza, tra la stesura di un’ordinanza o di una sentenza.
La nuova disciplina del procedimento innanzi alla Corte, non adeguatamente supportata da strumenti organizzativi, non poteva realizzare e non ha realizzato gli auspicati effetti deflattivi, cosicché appare destinata all’abrogazione.
Appare tuttavia incongruo, come unanimemente è stato segnalato, pensare di risolvere il problema imponendo una più complessa e articolata verifica preliminare.
La negativa esperienza applicativa dell’art. 366-bis cpc indica che, esaminato il fascicolo, si è pronti a decidere (ovvero a riferire al collegio per la decisione). Allora, piuttosto che moltiplicare i passaggi imponendo più esami dei fascicoli a fini diversi, potrebbe apparire ragionevole semplificare l’unico esame del fascicolo da parte del relatore, in funzione dello smistamento tra udienza pubblica e camera di consiglio, fornendo a quest’ultimo un prodotto già parzialmente elaborato.
Come altrove più volte si è posto in evidenza, la prima fonte di possibili effetti deflattivi del contenzioso civile risiede nella prevedibilità dell’esito. Ciò vale vuoi in sede di merito, vuoi in sede di impugnazione e, soprattutto, innanzi alla Corte, alla quale sono espressamente attribuiti i compiti previsti dall’art. 65 rd 30 gennaio 1941, n. 12.
Pur prescindendo da ogni valutazione sulle soluzioni accolte in relazione all’ambito di applicazione dell’art. 366-bis cpc e della corrispondente sanzione di inammissibilità, la commistione tra giudizio sul quesito e giudizio sui motivi e sul ricorso ha determinato incertezza e ha reso assolutamente aleatorio l’accesso alla Corte. Probabilmente ha contribuito a determinare una riduzione dei ricorsi sopravvenuti nel 2008; ma ha finito con l’imporre un maggiore impegno nella stesura delle motivazioni, perché ha suscitato, nel controricorrente, la tentazione a contestare sempre e comunque la congruità del motivo; e, quindi, ha imposto di motivare sulla congruità del medesimo.
Ai sensi dell’art. 380-bis, comma 1, cpc, una prima valutazione del ricorso, in funzione della sua definizione in camera di consiglio o all’udienza pubblica, è attribuita al giudice relatore. Il solitario giudizio, tuttavia, determina le conseguenze appena segnalate. Anche il primo presidente, tuttavia, ai sensi dell’art. 376, comma 1, cpc, ha il compito di ripartire i ricorsi tra le sezioni; e i presidenti di sezione, ai sensi dell’art. 377, comma 1, cpc quello di designare il giudice relatore. Ma tali compiti non vengono espletati in solitudine, attraverso l’esame di ciascun ricorso e del fascicolo. Se fosse così, anche il primo presidente e i presidenti di sezione potrebbero ritenersi sempre pronti a riferire alla udienza pubblica e a stendere il provvedimento e, quindi, sarebbero tentati di designare se stessi quali relatori.
La previsione del quesito e della «indicazione del fatto» avrebbe dovuto contribuire alla semplificazione di questo lavoro, affinché al relatore designato arrivi un prodotto già, in parte, elaborato.
Il nodo centrale, a ben vedere, come si è tentato di porre in evidenza, risiede nella commistione tra valutazioni preliminari e giudizio sul ricorso.
Il giudizio in Cassazione può concludersi con una dichiarazione di inammissibilità, di improcedibilità, con la dichiarazione di estinzione, con il rigetto, con l’accoglimento; questo può essere senza rinvio e con la definizione in mero rito o con una decisione nel merito; il rinvio può essere al giudice fornito di giurisdizione o di competenza, al giudice di primo grado, a un giudice di grado pari a quello che ha emesso il provvedimento cassato.
Oltre che nei casi di cui all’art. 366-bis cpc, l’inammissibilità può essere determinata dall’ inosservanza dei termini per impugnare: dei termini brevi, del termine lungo o dei termini speciali previsti per alcune controversie; ciò implica l’applicazione della disciplina sulla sospensione feriale dei termini e sulle festività, quella sull’efficacia delle notifiche. Può anche essere determinata dalla mancanza o invalidità della procura e dal difetto di jus postulandi.
L’impugnazione può anche essere inammissibile per la non ricorribilità del provvedimento, privo dei caratteri della decisorietà e della definitività, o perché si tratta di una sentenza non definitiva su questioni; per acquiescenza o per difetto di interesse ad agire, perché non sono state impugnate tutte le concorrenti rationes decidendi che sorreggono la decisione ovvero perché è stata censurata una motivazione ad abundantiam.
Il ricorso è inammissibile anche per mancanza o insufficienza dei motivi; per l’inosservanza del principio di autosufficienza del ricorso; per inosservanza dell’ordine di integrazione del contraddittorio ovvero per la mancata prova dell’avvenuta integrazione; per la mancata indicazione degli atti e dei documenti ovvero per il mancato deposito degli stessi.
Secondo le più recenti, seppur opinabili, indicazioni delle sezioni unite, il controricorso incidentale tardivo è inammissibile non solo per l’inammissibilità, ma anche per l’improcedibilità del ricorso principale.
Il ricorso è, poi, improcedibile per la mancanza o tardività del suo deposito; per la tardività del deposito dell’atto di integrazione del contraddittorio, non anche per l’assoluta mancanza di esso, ritenuta equivalente all’inosservanza dell’ordine; per la mancanza o per la tardività del deposito del ricorso del quale sia stata ordinata la rinnovazione della notificazione.
Molte di queste valutazioni si prestano a essere compiute in sede di esame preliminare. Alcune di esse, come ad esempio quelle relative alla sussistenza dell’interesse a impugnare le rationes decidendi concorrenti o ad abudantiam, implicano un attento esame del fascicolo.
Invece di moltiplicare i passaggi e sviluppare la tentazione di definire il procedimento nella fase preliminare, l’obiettivo dovrebbe consistere nel semplificare il lavoro del relatore, fornendogli un prodotto già in parte elaborato, affinché possa essere utilizzata a pieno la possibilità della decisione camerale.
9. Conclusioni
In conclusione, la proposta, nelle sue diverse formulazioni, si manifesta, oltre che di dubbia costituzionalità per il suo contenuto, velleitaria, contraddittoria e assolutamente inidonea allo scopo.
La previsione di un’ulteriore valutazione preliminare, oltre a quelle già oggi affidate alla «Struttura» e al relatore, in funzione dello smistamento tra camera di consiglio e udienza pubblica, rischia di allungare i tempi del procedimento.
In particolare, l’ambiguità del testo, nella parte in cui non contiene una espressa sanzione di inammissibilità, consente di ritenere la riforma, in base a una interpretazione letterale, affatto inutile, mentre, superando la lettera della disposizione, suscita non infondati dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 111, comma 7, Cost.; la previsione secondo la quale la verifica preliminare si conclude con ordinanza «non impugnabile» appare destinata a suscitare gravi problemi interpretativi sull’efficacia del provvedimento nell’eventuale prosieguo del procedimento.
In ogni caso, la proposta appare incongrua rispetto all’obiettivo, nella parte in cui non può incidere sull’arretrato e moltiplica i passaggi del procedimento innanzi alla Corte, con un aggravio di lavoro, e sopprime di fatto i nn. 4 e 5 dell’art. 360 cpc: qualora i requisiti di ammissibilità (in realtà, di manifesta infondatezza) non fossero tassativi, la disposizione sarebbe affatto inutile; qualora lo siano, non vi sarebbe spazio per i ricorsi ai sensi dell’art. 360, n. 5, cpc né per la denuncia di nullità processuali che non interferiscano con i principi del giusto processo.
Qualora, nonostante le diffuse opposizioni di tutte le categorie di operatori, la proposta sia approvata, sarà compito degli interpreti e degli operatori misurarsi con la nuova disciplina, come, nella consapevolezza che il compito sarà «arduo», ha già tentato di fare il presidente Paolo Vittoria.
Né, in tal caso, può escludersi che la Corte costituzionale o lo stesso legislatore, come è avvenuto per l’udienza «di smistamento» di cui all’art. 180 cpc, e come sta per avvenire per il quesito di cui all’art. 366-bis cpc, per il processo societario di cui al d.lgs 17 gennaio 2003, n. 5, e per l’estensione del rito del lavoro alle controversie in materia di incidenti stradali, ai sensi dell’art. 3 l. 21 febbraio 2006, n. 102, sopprimano presto la novità legislativa.
Residua comunque, alla fine, la esplicitazione di un giudizio di valore, inevitabilmente messo in sordina dall’esigenza di orientare l’attenzione sui profili tecnici della riforma in fieri.
De jure condito, non sembra ragionevolmente possa essere messo in dubbio che, tra lo jus litigatoris e lo jus constitutionis, l’ordinamento positivo vigente abbia attribuito prevalenza al primo: il rilievo si fonda sul diverso rango degli artt. 111, comma 7, Cost., quale è stato costantemente interpretato dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione, e 65 o.g.; sugli esiti dei dibattiti all’Assemblea costituente nel 1947 e nella Commissione bicamerale nel 1997; sulla esplicita inclusione del diritto al controllo di legalità da parte della Cassazione tra le «garanzie procedimentali minime» del «giusto» processo, operato dalla Corte costituzionale già prima della riforma costituzionale del 1999.
L’opportunità di una inversione, tuttavia, costituisce un tema ricorrente nel dibattito sul ruolo delle corti superiori: la questione è anche indicata nel documento finale dell’Assemblea generale di dieci anni addietro.
Essa, come si è ricordato in premessa, è anche al fondo del dibattito sulla proposta di riforma all’esame del Parlamento: alle obiezioni sui profili tecnici si è replicato che, in altri ordinamenti, innanzi alle corti supreme, lo jus constitutionis prevale sullo jus litigatoris. Alla vigilia dell’iter parlamentare della riforma, nel giugno 2008, l’Ufficio del massimario ha diffuso una relazione sul tema: «Le Corti supreme: regole per l’accesso».
Se e quando sarà presentata una proposta di riforma costituzionale, il tema potrà essere approfondito, riprendendo anche gli argomenti vanamente spesi nel 1947 e nel 1997.
Allo stato, nella consapevolezza dell’assoluta opinabilità delle opzioni valutative in una prospettiva di vuoto normativo, la mia personale preferenza è per il mantenimento dell’attuale sistema costituzionale, per la conservazione del diritto al controllo di legalità da parte della Cassazione tra le «garanzie procedimentali minime» del «giusto» processo.
Questa scelta si fonda su diverse considerazioni, alcune delle quali sono state spese nel vivace dibattito sulla riforma.
In primo luogo, la prevalenza dello jus constitutionis sullo jus litigatoris presuppone una corte suprema di pochi componenti, selezionati in modo diverso dal concorso, con funzioni di indirizzo politico. Una modifica in tal senso implicherebbe, probabilmente, la unificazione delle funzioni della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, al pari di quanto previsto nel processo federale americano. La prevalenza dello jus constitutionis implica una Cassazione affatto diversa da quella unificata nel 1923, e alla quale i Costituenti hanno attribuito il controllo di legalità; ovvero la sua soppressione e l’attribuzione anche delle funzioni di nomofilachia alla Corte costituzionale, quale unica corte suprema.
In secondo luogo, una tale modifica costituzionale richiederebbe l’inclusione, tra le «garanzie procedimentali minime» del «giusto» processo, del doppio grado di giurisdizione, oggi privo di garanzia costituzionale. Ma richiederebbe anche una revisione dell’intero sistema della giustizia civile, perché attualmente le corti di appello costituiscono gli uffici che presentano le maggiori criticità, determinate anche dai flussi relativi alle controversie sull’equa riparazione per durata irragionevole del processo. Una revisione della Costituzione nel senso dell’abolizione del controllo di legalità da parte della Cassazione implicherebbe la previsione di altre adeguate garanzie, quali quelle previste dal processo civile tedesco. In Italia, allo stato, le risorse funzionali a un tale sconvolgimento non sembrano reperibili. Anche in questo caso, peraltro, una Cassazione quale l’attuale non avrebbe ragione di esistere: il controllo di legalità potrebbe essere attribuito alle corti di appello e le funzioni di nomofilachia, in funzione dello jus constitutionis, a una rinnovata Corte costituzionale.
In terzo luogo, in un sistema nel quale non ha cittadinanza lo stare decisis e nel quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, il precedente ha un’efficacia meramente persuasiva e può averla se riguarda l’effettiva ratio decidendi, non anche se costituisce un obiter dictum o un principio affermato nell’«interesse della legge». Il precedente frutto dell’effettiva decisione di una controversia indica che, molto probabilmente, controversie analoghe saranno decise nello stesso modo; il principio affermato nell’«interesse della legge», come l’obiter dictum, è una opinione autorevole, ma, appunto perché reso in astratto e non in riferimento a una specifica controversia, ha un’efficacia diversa dal precedente o non ne ha affatto.
Le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, infatti, sono prive di efficacia vincolante, non impediscono che la questione di legittimità costituzionale sia nuovamente riproposta né che i giudici interpretino le disposizioni in modo difforme dalle indicazioni della Corte.
Nell’Assemblea generale della Cassazione del 21 luglio 2005, la sezione dell’Anm della stessa Cassazione ha, infatti, manifestato «lo sconcerto a proposito di questo tentativo di rianimazione dell’ormai desueto ricorso nell’interesse della legge che l’articolo 363 cod. proc. civ. ricopiava dall’antico pourvois dans l’intérêt de la loi introdotto dall’articolo 88 della legge del 27 novembre 1790 e confermato dall’articolo 17 della legge 3 luglio 1967 n. 67523. (…) La separazione della funzione nomofilattica dalla funzione del giudicare dà luogo ad un istituto estraneo alla Costituzione. “Oggetto del processo civile – è stato autorevolmente sottolineato – e quindi anche delle azioni di mero accertamento, possono essere solo i diritti, non i fatti o le norme. Ciò si desume da una serie imponente di disposizioni di diritto positivo (articolo 24, primo comma, e 113 della Costituzione, articoli 99, 81 cod. proc. civ., articoli 2907 e 2697 cod.civ. ) che indicano nel diritto fatto valere in giudizio l’oggetto della domanda e della tutela giurisdizionale. Oggetto del processo civile e del giudicato non sono mai fatti (o atti) o norme ma solo e sempre diritti: i diritti fatti valere in giudizio tramite la domanda dell’attore”. Questa immedesimazione esclusiva ed esaustiva con la tutela dei diritti costituisce la grandezza ed il limite della funzione giurisdizionale civile ed è anche la funzione che legittima la garanzia costituzionale dell’indipendenza dei giudici. Separare la funzione nomofilattica dal compito di fare giustizia sui diritti rappresenta una concezione azzardata, estranea alla nostra tradizione e non coerente con i principi costituzionali».
Nella prospettiva di una revisione costituzionale, anche questi principi potrebbero essere rivisti, ma considererei estremamente rischioso l’attribuzione a un organo diverso dal Parlamento del potere di dettare regole generali e astratte, con efficacia vincolante, indipendentemente dalla decisione di un caso specifico; al di fuori, cioè, dei principi dello stare decisis.
Un recente esempio può essere significativo.
Pronunciandosi nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 cpc, Cass., 28 dicembre 2007, n. 27187 (in Foro it., 2008, I, 766, in Giur. it., 2008, 2055, e in Giust. civ., 2008, I, 1437) ha affermato che, nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice speciale, questo ha giurisdizione anche qualora siano coinvolti diritti fondamentali, quale il diritto alla salute; sebbene richiamata in motivazione, non sembra potesse utilmente essere invocata Corte cost., 27 aprile 2007, n. 140 (in Foro it., 2008, I, 436), nella parte in cui ha ritenuto compatibile con i principi costituzionali la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle azioni risarcitorie proposte a tutela di diritti fondamentali quale il diritto alla salute; il giudice delle leggi, infatti, si era occupato della tutela risarcitoria chiesta per la violazione di diritti fondamentali, non anche dell’ammissibilità della giurisdizione esclusiva per la loro tutela; del diritto al risarcimento del danno, non direttamente dei diritti fondamentali e del diritto alla salute.
Nella giurisprudenza della Corte, era considerato principio pacifico quello per il quale «l’amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in tutte le ipotesi in cui l’azione costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995, n. 8681; 29 luglio 1995 n. 8300; 20 novembre 1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l’integrità personale» (così Cass., sez. unite, 13 giugno 2006, n. 13659, in Resp. civ. e prev., 2006, p. 1259).
Il revirement del dicembre 2007, infatti, è stato smentito qualche mese dopo dalla stessa Corte (Cass., sez. unite, 29 maggio 2008, n. 14201, in Resp. civ. e prev., 2008, p. 2255): in riferimento alla sovranità degli Stati, è stata negata l’immunità, che «non può (…) essere invocata in presenza di comportamenti (…) che, in quanto lesivi dei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali, segnano il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità».
Sulla scia del principio affermato nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 cpc, nel dicembre 2007, l’art. 4 dl 23 maggio 2008, n. 90, convertito in l. 14 luglio 2008, n. 123, emanato «per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania», ha stabilito che «sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie, anche in ordine alla fase cautelare, comunque attinenti alla complessiva azione di gestione dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti dell’amministrazione pubblica o dei soggetti alla stessa equiparati»; e che «la giurisdizione di cui sopra si intende estesa anche alle controversie relative a diritti costituzionalmente tutelati»; «le misure cautelari, adottate da una autorità giudiziaria diversa da quella di cui al comma 1, cessano di avere effetto ove non riconfermate entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto dall’autorità giudiziaria competente ai sensi del presente articolo».
Di fronte alla obiezione, di carattere politico, per la quale occorre che anche la magistratura e la Cassazione si facciano carico delle emergenze, un altro esempio può essere indicativo.
In relazione alle class action per il risarcimento da prodotti dannosi, una svolta nell’applicazione dell’istituto è stata determinata dal caso Georgine (U.S. Court Of Appeals For The Third Circuit; 10 maggio 1996, causa n. 94-1925; Giudice Becker; Georgine e altri c. Amchem Products e altri). Quella decisione ha arrestato la tendenza, che allora si andava affermando, a considerare prevalente l’esigenza di predeterminazione dei danni: la class action era stata chiesta dai convenuti al fine di porre fine alle cause individuali. La motivazione esordisce rilevando che «ogni decennio presenta pochi grandi cause che forzano il sistema giudiziario a scegliere tra il fornire una soluzione ai maggiori problemi sociali, da una parte, e preservare i valori istituzionali, dall’altra. Questa causa è una di quelle»; ma il compito dei giudici è quello di dare prevalenza ai secondi.
La vicenda riguardava i danni provocati dall’esposizione all’amianto. Soltanto nel distretto della Pennsylvania (dove hanno sede molti cantieri navali, che utilizzavano tale materiale) le controversie pendenti erano oltre 250.000. Altre erano pendenti in altri Circuiti, cosicché fu provocato un intervento del Judicial Panel on Multidistrict Litigation (“MDL Panel”), perché fossero riunite tutte innanzi a un’unica corte.
All’esito di una trattativa protrattasi per quasi un anno, le parti addivennnero a una transazione, sottoposta al controllo giudiziale. Ciò avrebbe comportato la definizione di tutte le azioni, presenti e future, per i danni provocati dall’amianto e in particolare dalle imprese unite nel «Centro per la definizione delle pretese» (Center for Claims Resolution – CCR). Era previsto un procedimento per la liquidazione dei danni in base al tipo di esposizione all’amianto e alle malattie contratte; acquisita la prova dell’esposizione all’amianto, erano stabiliti quattro criteri di liquidazione, a seconda delle conseguenze, con regole predeterminate per le diagnosi mediche. Per ciascuna delle malattie (cancro, asbestosi, etc.) erano previsti diversi criteri di liquidazione. A tal fine, i convenuti mettevano a disposizione 200 milioni di dollari per coloro che avevano già agito e una somma da distribuire per ciascun anno, per i danneggiati futuri. Sulla base di questo accordo, i convenuti avevano chiesto e ottenuto una preliminary injunction che impedisse l’instaurazione di cause individuali. Tale preliminary injunction venne riformata in appello: la corte rilevò che l’azione esercitata difettava di tipicità rispetto a quelle dei singoli membri della class, che gli attori non rappresentavano adeguatamente gli interessi della class e che l’esistenza di tali requisiti deve essere verificata, anche nel caso in cui la causa non arrivi al dibattimento.
Tra le esigenze economiche e i valori istituzionali, ovvero i valori fondamentali dello Stato di diritto, questi hanno prevalso. Il problema del risarcimento dei danneggiati dall’esposizione all’amianto ha trovato un’altra strada: il Senato degli Stati Uniti approvò una proposta diretta alla costituzione di un fondo, gestito da un’agenzia federale, per la liquidazione dei danni: «the problem of large injuries to public and to society is a problem for Congress».
L’emergenza rifiuti in Campania è, indubbiamente, un’emergenza, ma appare ragionevole dubitare che essa riguardi le sezioni unite. Dalla sequenza dei provvedimenti sulla giurisdizione in materia di diritti fondamentali, quale il diritto alla salute, emerge che l’emergenza rifiuti prevale sui diritti fondamentali, questi ultimi prevalgono sulla sovranità degli Stati; ne consegue che l’emergenza rifiuti prevale sulla sovranità degli Stati. L’esito suscita perplessità.
Per queste ragioni, certamente opinabili come ogni giudizio di valore, rispetto alla questione di fondo relativa ai rapporti tra jus litigatoris e jus constitutionis, la mia personale preferenza è per la prevalenza del primo.
Questa opzione si fonda anche su valutazioni emotive che, nel vuoto normativo della prospettiva di una revisione costituzionale, è anche opportuno esplicitare.
La prevalenza dello jus constitutionis, al pari dei requisiti di «manifesta fondatezza» e di «manifesta infondatezza» dei ricorsi per cassazione, implica una valutazione discrezionale sulla prosecuzione del procedimento. Una valutazione di tal genere, appunto perché disancorata da elementi obiettivi e verificabili, non è criticabile, né condivisibile; se ne può soltanto prendere atto.
La possibilità di condividere o di criticare le decisioni della Corte di cassazione in base a dati obiettivi costituisce un valore al quale personalmente sono affezionato, perché mi sembra collegato al principio di legalità e alla dignità dell’individuo, indipendentemente da ogni logica di appartenenza.
È un percorso che è partito da molto lontano: nel 450 a.C., Appio Claudio fece pubblicare nel foro le leggi delle dodici tavole, affinché le decisioni giudiziali non fossero manifestazione di arbitrio e ciascuno potesse conoscere le leggi che i giudici erano chiamati ad applicare; nel 1215, nella Magna Charta Libertatum, fu stabilito che «nulli negabimus justitiam»; dal 1927 al 1939, nelle pagine della Rivista di diritto processuale (allora soltanto) civile, Antonio Segni segnalava i provvedimenti legislativi di «esclusione della tutela giurisdizionale».
La prevalenza dello jus constitutionis sullo jus litigatoris temo possa sottrarmi la possibilità di discutere della giurisprudenza della Cassazione, come, per un crudele destino, è già successo con amici ai quali ero legato: Pino Borrè, Stefano Evangelista, Gianfranco Manzo, ai quali dedico queste riflessioni.
* La presente relazione, prima inedita, è stata pubblicata in anteprima su Questione giustizia online in data 16 novembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/de-profundis-sez-filtro).
1. Così, in base a una puntuale analisi dei lavori dell’Assemblea costituente, E. Lupo, La Corte di cassazione nella Costituzione, in Giurisdizione e giudici nella Costituzione – Quaderni del CSM, Convegno per il 60° anniversario della Costituzione, n. 155/2009, pp. 67 ss.
(www.csm.it/documents/21768/81517/Quaderno+n.+155/460bcd4e-1637-4bb4-8062-a605de8c8dc0).