Di fronte alla guerra: scrupolo di verità ed esercizio di ragione
1. Rinunciare alle contrapposte retoriche /2. Unità di metodo e varietà di contenuti / 3. Ciò che questa guerra non può oscurare / 4. Diritto di resistenza, diritto di renitenza
1. Rinunciare alle contrapposte retoriche
La guerra mobilita uomini, armi, parole. Alimentando, oltre agli scontri degli uomini e delle armi, l’urto di contrapposte retoriche.
Di queste retoriche non vi è quasi traccia nella riflessione collettiva sulla guerra e sulle ragioni della pace sollecitata da Questione giustizia.
Naturalmente gli Autori degli scritti raccolti in questo numero della Trimestrale – curato da Rita Sanlorenzo e da chi scrive – sono tutti profondamente toccati e coinvolti dalle emozioni e dai sentimenti suscitati da un conflitto sanguinoso scoppiato nel cuore della “nostra” Europa.
E non parlano tutti la stessa lingua dinanzi alla guerra, l’evento che più divide gli uomini.
Ma, in singolare e spontanea sintonia, tutti hanno avvertito come, a fronte della furia bellica, dei suoi enormi orrori, del corredo di falsi e di propaganda che sempre l’accompagna, sia ancor più necessario un assoluto scrupolo di verità e un rigoroso esercizio di ragione.
È perciò uno sguardo lucido, oltre che comprensibilmente amaro, quello che, sulle pagine della Rivista, viene rivolto agli interessi economici e geopolitici sottesi al conflitto bellico, alle ragioni addotte dalle parti in contesa, ai timori suscitati dallo scontro armato, tanto nelle regioni più vicine ai luoghi della guerra quanto nel resto del mondo, scosso dall’incubo dell’escalation militare e costretto a confrontarsi con l’incombente prospettiva di una grave recessione economica congiunta a un’allarmante ondata inflazionistica.
È su questa trama che si innestano e si fondano i ragionamenti posti al centro del lavoro corale.
Da un lato, l’analisi delle potenzialità e dei limiti di un “diritto della guerra”, faticosamente costruito grazie a un reticolo di carte, patti e trattati, come tecnica dei limiti alla ferocia, alla crudeltà verso gli inermi, al ricorso a mezzi militari devastanti ed estremi.
Dall’altro lato, la ricerca di vie e prospettive di pace, ostinatamente mantenuta viva in una fase nella quale predominano i clamori degli scontri e le dichiarazioni bellicose.
A queste due diverse facce della crisi innescata dall’aggressione al popolo ucraino, una Rivista come la nostra, in gran parte scritta da giuristi, “doveva” riservare grande attenzione, aprendosi agli apporti di pensiero di quanti, anche nelle ore più cupe, continuano a esprimersi in termini di razionalità politica e giuridica.
Se nel fragore delle battaglie queste voci possono sembrare flebili, esse restano indispensabili.
Non foss’altro perché – nel risollevarsi dai cumuli di macerie materiali e morali della guerra – è alle risorse della ragionevolezza politica e giuridica che occorrerà attingere per misurare l’accaduto, ricostruire edifici distrutti, restituire forza a principi infranti, immaginare il futuro.
2. Unità di metodo e varietà di contenuti
Di qui l’impegno a ragionare – mentre la guerra è ancora in corso, non se ne vede la fine ed è difficile prevederne gli esiti – sugli argini che il diritto tenta di porre alla violenza dei belligeranti e sulle vie che la politica può imboccare per il raggiungimento della pace.
Se il lettore ravviserà una significativa unità di metodo nei diversi contributi racchiusi nel volume, la pluralità dei temi affrontati e la varietà degli approcci rendono impossibile – di più: indesiderabile – ogni tentativo di sintesi dei contenuti degli scritti pubblicati, che risulterebbe inevitabilmente riduttivo ed arbitrario.
Basterà ricordare che hanno aderito all’invito a scrivere per Questione giustizia autorevoli esponenti politici, come Luciana Castellina e Gianni Cuperlo, preziosi testimoni della ricerca in corso sui temi della guerra e della pace nella sinistra italiana.
Inoltre, come già in altre occasioni, non ci hanno fatto mancare il loro insegnamento maestri come Luigi Ferrajoli, che discute di pacifismo e di costituzionalismo globale, e Mario Dogliani, che rivolge la sua attenzione all’oltranzismo politico-mediatico che germoglia sul terreno di guerra.
È nella cornice generale disegnata da questi interventi che si collocano le puntuali riflessioni culturali e politiche di Enrico Scoditti sul significato dell’inverno di Kiev per le donne e gli uomini del diritto, di Franco Ippolito sulla necessità di un nuovo accordo di convivenza internazionale, di Fabrizio Filice sulla condizione esistenziale in cui è stata “gettata” la popolazione ucraina, nonché i numerosi contributi di giuristi e magistrati che affrontano i nodi cruciali politici e giuridici del conflitto.
Parliamo delle considerazioni di Antonio Bultrini sull’invasione dell’Ucraina; del saggio di Chantal Meloni dedicato al senso e al valore della giustizia penale internazionale; degli accurati studi sulle sanzioni economiche di Antonino Alì e Roberta Barberini e sulle misure provvisorie della Corte europea dei diritti dell’uomo di Chiara Buffon; dell’analisi sulle violenze sessuali e sulla tratta di esseri umani di Maria Grazia Giammarinaro; degli articoli sulla protezione internazionale dei profughi di Riccardo Viviani e Chiara Scissa; della ricognizione svolta da Elisabetta Grande sulla trama di interessi economici sottesa al conflitto.
A completare il quadro stanno i contributi, ricchi di informazioni e densi di stimoli, di osservatori sul campo, come quelli di Francesco Florit sull’Ucraina “porta di Europa” e sulla condizione, in quel Paese, del potere giudiziario; di Sara Cocchi, che, nei suoi appunti sugli incroci della Storia lungo le rive del Mar Nero, ragiona di Ucraina e Georgia; della magistrata polacca Anna Adamska-Gallant, che offre una testimonianza appassionata del suo lavoro per la riforma della giustizia a Kiev.
Una raccolta di saggi ed articoli – nessuno a tesi – nati dal desiderio di descrivere e comprendere profili delle vicende in corso non sempre adeguatamente illustrati nel dibattito pubblico, facendoli uscire dal cono d’ombra nel quale li hanno relegati quanti, riflessivamente o meno, hanno già preso partito, ingaggiando una contesa di parole parallela a quella armata.
3. Ciò che questa guerra non può oscurare
Naturalmente, dalle diverse analisi emergono, ora espliciti ora solo accennati, valutazioni e giudizi complessivi su ciò che sta accadendo.
Spiccano, in particolare, la percezione che sarà l’intera Europa a pagare, come è già avvenuto nelle due guerre mondiali del secolo scorso, un altissimo prezzo economico, politico e morale per la tragedia bellica e la consapevolezza che un conflitto che si chiuda senza una pace vera, restando irrisolto e indefinitamente congelato, rappresenterebbe una spina irritativa permanente, conficcata nel tessuto del Continente e della nostra vita futura, fin dove la possiamo immaginare.
Per parte nostra, oggi possiamo dire solo ciò che le vicende di questa guerra non potranno oscurare e farci dimenticare.
Che la Turchia, che si propone come autorevole e benefico mediatore tra gli eserciti in lotta, è uno Stato che ha le carceri piene di persone – tra cui intellettuali, giornalisti, giudici, avvocati – prive di ogni garanzia e di un giusto processo, ed è a sua volta impegnata in “operazioni militari speciali” in Siria e in Iraq.
Che la Polonia e l’Ungheria, diversamente schierate dinanzi al conflitto in atto, restano accomunate dall’ostilità verso la tutela di fondamentali diritti di libertà e verso la salvaguardia di un giudiziario realmente indipendente dal potere politico e di una informazione libera da condizionamenti.
Che meritano riprovazione e suscitano orrore, al pari di quella attuale, altre guerre di aggressione in atto o condotte in un passato recente in tante altre parti del mondo, anch’esse promosse sulla base di menzogne e di pretesti, anch’esse risoltesi in un inutile bagno di sangue, anch’esse inidonee a costruire durevoli equilibri di convivenza pacifica nelle aree sconvolte dagli interventi armati. Guerre a volte neglette e colpevolmente ignorate, a volte investite dalla protesta di larga parte dell’opinione pubblica mondiale, alla quale si è unita la voce dei democratici italiani.
4. Diritto di resistenza, diritto di renitenza
Dunque, rinunciando a tutte le retoriche in favore del pensiero critico, quanti danno vita a Questione giustizia e quanti hanno accettato l’invito a scrivere hanno rifiutato di arruolarsi in una delle opposte schiere.
Questo atteggiamento non equivale affatto all’agnosticismo e all’equidistanza, giacché il diritto di resistenza e di difesa dinanzi all’aggressore e l’aiuto da prestare agli aggrediti restano principi indiscutibili, che valgono per gli individui come per i popoli.
Se mai, questa ennesima guerra solleva un’altra questione: se, accanto al diritto di resistenza dell’aggredito, sia esso una persona o un popolo, il catalogo dei diritti fondamentali dell’individuo non debba essere arricchito di un altro diritto : il diritto di renitenza nei confronti di una guerra di aggressione.
Un diritto quasi mai menzionato, che non può essere né assimilato né assorbito dal diritto all’obiezione di coscienza, connotato dal rigetto aprioristico di ogni forma di violenza e dal ripudio di ogni guerra anche solo difensiva.
Eppure, il diritto di renitenza era già considerato un “diritto naturale” di ogni uomo da un pensatore troppe volte intellettualmente frainteso e calunniato come Thomas Hobbes.
Con logica politica stringente egli affermava che, se l’uomo consegna una parte cospicua della sua libertà personale e politica al Leviatano per aver salva e sicura la vita, allora – fermo il dovere di concorrere alla difesa della patria aggredita – egli può rifiutarsi di essere scagliato dal sovrano in una guerra di aggressione nella quale la sua stessa vita – oggetto dell’originario patto con lo Stato – è messa a repentaglio.
Solo quando – scriveva Hobbes – «la difesa dello Stato richiede subito l’aiuto di tutti coloro che sono in grado di portare le armi, ognuno è obbligato, perché altrimenti l’istituzione dello Stato, se non si ha il proposito o il coraggio di conservarla, è stata vana»; ma «un uomo al quale venga comandato di combattere come soldato contro il nemico, sebbene al suo sovrano non manchi il diritto di punire il suo rifiuto (…), può nondimeno, in molti casi, rifiutarsi senza ingiustizia»[1].
A ben guardare, un diritto di renitenza alla guerra di aggressione è implicito e desumibile, assai più di
ogni forma di astratto pacifismo, dalla nostra Costituzione, che da un lato ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e, dall’altro, riafferma il “sacro dovere” del cittadino di partecipare alla difesa della patria.
Se tutti i militari di leva – oggi russi, domani di ogni Paese aggressore – rivendicassero questo diritto, ripetendo il rogo delle cartoline precetto avvenuto in America all’epoca della guerra del Vietnam, il quadro della guerra e della pace ne sarebbe profondamente trasformato e si darebbe corpo e sostegno a un sentimento diffuso tra le giovani generazioni, che considerano letteralmente “inconcepibile” l’essere coinvolte in conflitti diversi da quelli resi necessari dalla difesa della loro famiglia, della loro casa, del Paese nel quale vivono e sono nati e cresciuti.
Si tratta solo di un’utopia?
Di un principio che può essere vanificato dall’astuzia e dalla propaganda dei governanti, capaci di rappresentare come “difensiva” anche una guerra in Paesi lontani e sconosciuti, o posto nel nulla grazie all’impiego di eserciti composti da militari di professione?
O, ancora, di una rivendicazione che può essere negata e repressa qualificandola come “diserzione”, oppure aggirata proponendo, come già avvenuto nelle guerre degli Stati Uniti d’America, uno scambio tra la partecipazione alla guerra e la concessione, agli immigrati disposti ad arruolarsi, di una cittadinanza altrimenti ostinatamente negata?
Tutto vero.
Ma quanti diritti sono apparsi, nella fase del loro primo concepimento, utopici, fragili, precari, vanificabili?
E quanti hanno acquistato senso, consistenza, vigore, nel vivo di circostanze drammatiche, imprevedibili, impensabili?
Maggio 2022
1. T. Hobbes, Leviatano, cap. XXI: Della libertà dei sudditi – Come deve essere misurata la libertà dei sudditi.