La guerra è brutta*
Le molte domande, i timori, le proposte di una protagonista della cultura e della politica che, di fronte al conflitto in atto, sollecita una riflessione sulle tante guerre degli ultimi trent’anni – Iraq, Siria, Libia, Cecenia, buon ultima quella in Afghanistan –, tutte finite nel peggiore dei modi sia per gli aggressori che per gli aggrediti, e chiede una sorta di “patto tra nemici” in luogo del rafforzamento del “patto tra amici” nell’ambito della Nato.
1. La guerra uccide, accumula morti, da qualche secolo anche tanti civili, fra aggressori e aggrediti, sempre esseri umani incolpevoli. Mi meraviglia quando vedo denunciare queste uccisioni e contemporaneamente progettare altra guerra. Giusta o non giusta non importa, tanto non vince chi ha più ragioni, ma chi è il più forte militarmente. Solo qualche volta è accaduto che la forza vincente in un conflitto, pur essendo militarmente più debole del suo avversario, lo abbia alla fine battuto: quando il modello sociale e culturale che rappresentava ha conquistato l’egemonia morale. È accaduto con la Seconda guerra mondiale, e non perché chi ha vinto, noi fronte antifascista, fossimo più armati. E tuttavia, anche il nostro schieramento “buono” non aveva esitato ad ammazzare centinaia di migliaia di civili a Hiroshima, e a produrre un’ecatombe bombardando Dresda. Perché questa è la logica della guerra, il suo meccanismo perverso.
Certo che è importante stabilire chi ha torto e chi ragione, e per questo non si deve essere equidistanti né, tantomeno, rinunciare a combattere. Però bisogna impedire la guerra, perché trascina tutti nel peggio. «Le guerre», scrive il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, «si accendono e proseguono solo se le dichiariamo necessarie e le accettiamo come inevitabili, se le edulcoriamo e le acclamiamo come liberatrici, se le immaginiamo asettiche e precise come un video gioco». Vorrei che ognuno di quelli che approvano l’invio di armi, pensando così di abbreviarne il decorso, riflettesse su queste sacrosante parole. Che danno, ad ognuno di noi, una responsabilità diretta.
2. Le guerre, fino a ieri, sono state tante ma tutte lontane; ora sono vicine, le vittime non più sconosciuti “arabi” o “neri”, ma “bianchi”, proprio come noi, “razza occidentale”. Le emozioni, si capisce, sono più forti, ma quei cadaveri accumulati per le strade ucraine e quei bambini che scappano fra le bombe spezzano il cuore e non è il tempo di misurare quanta pena suscitino gli uni o gli altri.
La tv italiana ce li mostra a orario continuato su tutti i canali e, per difenderli, invita alle armi infilandosi con le sue immagini strazianti nei nostri occhi, nelle nostre orecchie, in tutto il corpo. È in atto una «seduzione strisciante», si legge in un altro editoriale del quotidiano cattolico Avvenire, che denuncia quanto questo finisca per incitarci a prendere le armi, a metterci anche noi l’elmetto. E così si produce una psicosi che serve ad addormentare il cervello che, in effetti, sembra mancare a chi governa noi, ma a quasi tutti i governanti, che pure dovrebbero essere consapevoli delle conseguenze di questa sindrome bellica.
Non perché non si debba rispondere alla vergognosa aggressione di Putin, ma perché non è con le armi che difenderemo i ragazzi ucraini, di cui è comprensibile la reazione istintiva, mentre è da irresponsabili suggerirla da parte di chi non è sul terreno.
Oggi le armi non difendono più, ma in un mondo globalizzato, in cui ogni Paese dipende dall’altro, ci sono altri mezzi, meno sanguinosi ma ben più efficaci (e non parlo solo di sanzioni).
3. Per questo serve la trattativa, il compromesso con il nemico, per difficile che sia. Non il rafforzamento del “patto fra gli amici” – in questo caso della Nato –, di cui sembrano così stupidamente fieri i nostri governanti. Altrimenti il risultato non può che essere, nell’immediato, un bagno di sangue di cui saranno vittime proprio gli ucraini e, in rapida prospettiva, l’innesto di un processo che può coinvolgerci tutti in un conflitto nucleare. Che oggi può scoppiare più facilmente di quando c’erano le buone grosse bombe sotto il controllo di capi di Stato, frenati dalla deterrenza. Una sorta di “patto fra nemici”. Oggi il nucleare è dentro armi di ogni tipo, spaziali ma anche tattiche, a breve raggio, di cui chiunque può dotarsi innestando un processo che incendia il mondo – e, peraltro, come non chiedersi a chi mai finiranno in mano queste armi che dovremmo inviare, se si pensa che in Ucraina non ci sono solo i giovani ucraini ma, infiltrati tra loro, una quantità di volontari o assoldati che non controlla nessuno, il tutto su un territorio che è una foresta di centrali atomiche?
E, in ogni caso, come non riflettere sulle tante guerre di questi ultimi trent’anni – Iraq, Siria, Libia, Cecenia, buon ultima quella in Afghanistan –, tutte finite nel peggiore dei modi sia per gli aggressori che per gli aggrediti?
Perché il negoziato che si sta svolgendo a Istanbul stenta a procedere? Perché, in qualche modo, la guerra in Ucraina è un aspetto, ma solo un aspetto – e anche minore – del vero e ben più complesso conflitto in atto per definire il nuovo disegno geopolitico del mondo.
Sarebbe stato necessario affrontare il problema già nel ’90, alla “caduta del Muro”, quando Gorbačëv ritirò i suoi missili e i suoi soldati – con una rapidità che, ricordo, meravigliò gli stessi tedeschi – non solo dalla Germania, ma da tutta l’Europa dell’Est.
Sarebbe stato logico, una volta dissolto il Patto di Varsavia, procedere anche allo scioglimento della Nato, o, perlomeno, al suo ridimensionamento, come proposto dall’allora Presidente russo. E invece l’Occidente ha fatto il contrario: dai 12 Paesi che facevano parte del Patto atlantico si è arrivati a 30, tutti nei pressi del confine russo. Per quale fine? E, ancora, perché non si è nemmeno tentato di imboccare la strada indicata dall’allora fortissimo Movimento pacifista: «Per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali»? Non era un’invocazione di ingenui utopisti, ma un progetto concretamente praticabile, sostenuto anche dalla leadership di allora dei principali partiti socialdemocratici (Bruno Kreisky in Austria, Michael Foot in Gran Bretagna, Olof Palme in Svezia, Andreas Papandreou in Grecia, Willy Brandt in Germania) e in molti altri più piccoli Paesi nordici. Dalla Spagna, ricordo, venne addirittura di persona alla nostra II Convenzione END (European Nuclear Disarmament) – quella tenuta nel 1983 a Berlino nel cinquantesimo anniversario dell’avvento al potere di Hitler – il Ministro degli esteri socialista spagnolo. In Italia fu Berlinguer (sia pure senza grande appoggio del suo stesso partito) ad avanzare la proposta di una “terza via” per l’Europa, che proprio quel nostro slogan interpretava. Sappiamo come invece è andata: si fece il contrario e gli armamenti si moltiplicarono.
4. Quando ho parlato, qualche settimana fa, alla grandissima manifestazione per la pace di Piazza San Giovanni a Roma, ho chiesto al Movimento pacifista di procedere tutti a un’autocritica collettiva: perché anche noi non siamo stati, come sarebbe stato necessario, vigili. L’ultima manifestazione per la pace l’abbiamo fatta nel 2003, contro la seconda guerra in Iraq, e fu così grande, in ogni città del mondo, che il New York Times così titolò la sua prima pagina: «Oggi è nata la seconda potenza mondiale». E forte era stata anche l’iniziativa del Movimento per cercare di contenere l’incendio jugoslavo negli anni novanta. Poi, però, più niente, venti anni di disattenzione, quando l’attenzione sarebbe stata più preziosa: perché contro le guerre puoi far poco quando sono deflagrate, quel che serve è bloccare per tempo, prima che scoppino, i processi che le preparano. E noi stessi siamo stati disattenti.
Il Movimento pacifista non può essere intermittente e guai, anche adesso, se non seguiamo a occhi aperti come procede questo ridisegno del mondo. Non è facile, perché a sollecitare la distrazione sui fatti reali ci pensano i nostri media. Basti guardare a come è stata data la notizia della visita a Putin, proprio in questo momento, di Narendra D. Modi, Presidente dell’India – un Paese storicamente mai vicino né alla Russia né alla Cina – e alla presa di distanza dall’Occidente di tutti gli asiatici, salvo i quattro filoccidentali – Giappone, Australia, Taiwan e Corea del Sud. Si tratta di un fatto emblematico, che indica come l’ordine euroamericano sia ormai sempre più mal sopportato da quasi tutta quella fascia della Terra che un tempo chiamavamo “Terzo Mondo”. Debbo dire che anche a me, che pure apprezzo qualche virtù dell’Occidente, sale la rabbia quando sento Draghi enunciare con enfasi gli incontestabili superiori “valori occidentali” proprio mentre ci arrivano le immagini dei suoi sostenitori: il summit del Ministro degli esteri americano nientemeno che in Israele, Paese specializzato in annessioni illegittime, insieme al meglio dello schieramento “democratico”: Arabia Saudita, Marocco, e via dicendo. E ora si piange sull’Onu debilitata, quando proprio il nostro Occidente ha disatteso un così gran numero delle sue risoluzioni e degli accordi, a cominciare da quello sul disarmo nucleare. Non ci potrebbe essere, per condannarli, almeno una pretura internazionale?
5. La partita che si gioca, ben al di là della vicenda Ucraina, è in realtà questa: un riequilibrio dei rapporti di potere che si chiede a un Occidente cui una parte consistente del mondo non consente più di arrogarsi il diritto di fare ciò che proibisce agli altri (ricordate, tanto per fare un esempio, quando nel 1962 stava per scoppiare la guerra mondiale solo perché la piccola Cuba, minacciata in concreto dagli sbarchi dei marines, si permise di impiantare sul proprio territorio un paio di missili russi che furono denunciati come un insopportabile attentato all’integrità degli Stati Uniti?).
Ma c’è un aspetto di questa vicenda che è particolarmente preoccupante in Italia: il Parlamento ha adottato la decisione di inviare armi in Ucraina e di aumentare la spesa Nato fino a raggiungere il 2% della propria spesa pubblica con il 95% dei voti, contro solo i pochi deputati di Sinistra italiana, qualche ecologista e qualche Cinquestelle disubbidiente, mentre i sondaggi ufficiali ci dicono che il 62% degli italiani sono contrari. Un tale distacco fra la società e le istituzioni non si era mai visto. E la cifra è confermata dalle mobilitazioni contro la guerra cui partecipano, in prima fila – con le parole d’ordine del pacifismo –, le organizzazioni studentesche e una quantità di gruppi giovanili. E dell’Anpi, che a grandissima maggioranza nel suo Congresso nazionale, qualche giorno fa, si è schierato contro l’invio di armi, sebbene, per accusare i pacifisti, governanti e media abbiano fatto ricorso persino all’insulto, dicendo che saremmo ormai di fronte a una generazione di codardi. I combattenti della Resistenza ricevettero le armi da chi, con loro, stava conducendo una guerra già scoppiata da cinque anni, e furono proprio i partigiani – e tali furono quasi tutti i membri dell’Assemblea costituente – a battersi perché nella nostra Carta fondamentale fosse inserito un articolo, l’11, in cui per la guerra come strumento di soluzione dei problemi internazionali si usa il termine fortissimo di «ripudia».
Le guerre vanno inserite nel loro tempo, non siamo più ai martiri delle nostre guerre risorgimentali, che si immolavano a cavallo e con le bandiere al vento. In Italia si ricorda sempre come esempio del “giusto” martirio quello di Sapri, contro i Borboni: «Eran trecento, erano giovani e forti, e sono morti». Oggi, ahimè, il rischio è che ne muoiano 3 miliardi.
Il solo lucido è il Papa, che dice: oggi è sbagliata persino una guerra giusta. Che non vuol dire rinunciare a lottare, ma solo combattere in altre forme, non più con quelle che consigliano i dinosauri.
6. E l’aggressore russo come ne uscirà? Il rischio è che, comunque, la popolarità di Putin cresca: come vincitore o come martire di un complotto internazionale ordito contro il popolo russo. Purtroppo la responsabilità di chi non profittò della caduta del Muro per costruire una rete europea inclusiva, che coinvolgesse culturalmente ed economicamente la Russia, e scelse invece di isolarla e frustrarla, ha consentito a Putin – incoronato da Eltsin, su cui l’Occidente aveva puntato – di costruire la sua popolarità in patria. Non illudiamoci che quanto ha fatto in Ucraina produca la sua caduta.
Anche su questo c’è da farsi l’autocritica, anche noi, sinistra e pacifisti: in questi trent’anni cosa abbiamo fatto per intessere rapporti con quella società, promuovere incontri e iniziative comuni, parlare a una nuova generazione disorientata come era quella russa dopo la caduta dell’Urss? Quasi niente. Ricordo ancora un compagno russo – dissidente nel suo Paese, prima e dopo, che riuscimmo a far partecipare a uno dei forum mondiali di inizio millennio – che mi disse: ma perché vi occupate tanto dell’Amazzonia e ignorate la Russia, che pure è un Paese di una certa importanza?
Era vero. Uscita dal nostro orizzonte in anni decisivi, in cui oligarchi e il peggio della destra nostrana stabilirono addirittura amicizie, noi abbiamo tralasciato di pensare alla società civile russa, lasciando che la sua frustrazione si traducesse in sostegno a una dittatura nazionalista anziché – come forse avrebbe potuto – nella scoperta di un migliore Occidente, quello della grande tradizione del nostro Movimento operaio.
* Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 21 aprile 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-guerra-e-brutta).