Guerra Inc. Il conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti e gli interessi delle corporation*
Il teatro di guerra ucraino è geograficamente lontano dagli Stati Uniti, non così gli interessi di chi dal conflitto in corso trae enormi guadagni. Si tratta dei tre complessi economici che – agevolati da un diritto amico – controllano le scelte politiche statunitensi. Il presente scritto analizza brevemente chi sono, come operano e in che modo quei tre grandi gruppi di potere ottengono vantaggi ai danni dell’umanità intera.
1. La democrazia perduta / 2. Gruppi di potere in azione: i complessi militare-industriale e finanziario… / 3. … e quello dell’estrazione energetica / 4. Conclusioni
1. La democrazia perduta
Vista dagli Stati Uniti – dove ora mi trovo – la guerra è lontana. Le sue polveri non soffiano sul collo della gente come accade in Europa e, per quanto le bandiere ucraine sventolino dalle abitazioni californiane di Berkeley, la stragrande maggioranza degli americani non sa neppure dove l’Ucraina si trovi, così come a stento – e solo dopo molti anni di conflitto – aveva imparato a collocare l’Afghanistan sulla cartina geografica. Terre distanti, periferiche in fondo – forse perfino l’Europa ormai lo è[1] – per chi si vive, al pari degli americani, come al centro del mondo. Certamente, anche la popolazione statunitense sta già fin d’ora scontando alcuni suoi effetti collaterali: il prezzo della benzina per esempio, che ha ultimamente subito aumenti senza precedenti, con quel che ne segue in termini di inflazione. La guerra, però, che sia condotta in prima persona o sia alimentata attraverso il sostegno a una delle parti in conflitto, è raramente il frutto di scelte democratiche, tanto meno negli “States”. Quel che importa non è il sentimento collettivo o l’opinione pubblica al riguardo – pur mediaticamente spronata, come in questo caso, a parteciparvi anche se per ora solo in via indiretta –, ma gli interessi di chi davvero conta che vi stanno dietro. Negli Stati Uniti, tanto il Presidente quanto il Parlamento sono solo apparentemente l’espressione di chi li ha votati: senza il fondamentale aiuto dei grandi gruppi economici che ne finanziano le sempre più costose campagne elettorali, difficilmente infatti avrebbero potuto essere eletti. Ciò significa che, per assicurarsi la rielezione, la stragrande maggioranza di loro deve costantemente rispondere non ai bisogni di chi li ha votati, ma agli interessi di chi li ha finanziati. Siccome, poi, le scadenze elettorali sono ravvicinate – soprattutto per la House of Representatives, che viene rinnovata tutta ogni due anni –, occorre evitare di voltare le spalle anche una sola volta ai gruppi di potere da cui si è stati appoggiati, che – traditi – altrimenti non assicureranno più il loro sostegno economico al turno successivo. Si tratta di un sistema già in vigore prima del 2008, ma che a livello di elezione presidenziale diventa irreversibilmente pervasivo da quando Barack Obama – pur di sfondare con soldi privati il tetto altrimenti previsto per il finanziamento pubblico – inaugura la rinuncia ai fondi federali per la sua campagna elettorale. Una mossa che gli consente di raccogliere l’astronomica somma di 745 milioni, contro gli 84 che altrimenti avrebbe ottenuto come finanziamento pubblico – ricevuti invece dal suo avversario, John Mc Cain[2]. Dopo il 2008 nessun candidato presidenziale accetterà più il finanziamento pubblico per campagne dai costi ormai elevatissimi, e la cifra record ottenuta da Joe Biden nel 2020, che ha oltrepassato il miliardo[3], ben esprime l’inevitabile commistione fra interessi privati e politica negli States. Due anni dopo, la dipendenza delle elezioni dal danaro privato diviene definitivamente strutturale anche a livello di Congresso. Nel 2010, infatti, la Corte suprema degli Stati Uniti, nell’ormai famoso caso Citizen United, si pronuncia nel senso che occorre tutelare il diritto di parola delle corporation durante le campagne elettorali. Siccome le persone giuridiche parlano con i soldi, il risultato è che esse devono poter spendere al di là dei tetti massimi in precedenza previsti per le donazioni ai candidati politici, purché lo facciano attraverso comitati indipendenti (che indipendenti sono assai poco): gli ormai famosi “Super PACs”[4].
Ecco perché le vere domande da porsi, per cercare di comprendere le scelte strategiche degli Stati Uniti in relazione alla guerra in Ucraina, concernono l’individuazione dei grandi gruppi economici che dominano la politica statunitense e i loro interessi al riguardo. La risposta breve è che per i tre grandi gruppi di potere (strettamente intrecciati fra di loro) che controllano tramite il loro denaro le scelte politiche in Usa – ossia il complesso militare-industriale, quello energetico estrattivo e quello finanziario – la guerra che si sta svolgendo nel cuore dell’Europa è una grande opportunità.
2. Gruppi di potere in azione: i complessi militare-industriale e finanziario…
Proviamo a vedere in maggior dettaglio – sia pure per sommi capi, data l’ampia disamina che un tale tema meriterebbe – chi sono e in che modo guadagnano dalla guerra in corso i grandi gruppi di potere economico statunitensi.
Il primo di essi è quel complesso militare-industriale della cui pericolosa crescente influenza politica già Dwight Eisenhower, alla fine del suo mandato, aveva esortato i cittadini americani a diffidare. «In the councils of government, we must guard against the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex. The potential for the disastrous rise of misplaced power exists and will persist», aveva detto il Presidente repubblicano nel 1961. L’inquietante previsione si è certamente avverata: mai come oggi, infatti, i legami fra quel complesso e i rappresentanti politici all’interno del Congresso e dell’Esecutivo sono stati più forti. Non soltanto i grandi produttori di armi come Raytheon, Boeing, Lockheed-Martin, Northrop Grumman o General Dynamics – le società, cioè, che monopolizzano il mercato delle armi e della tecnologia militare per la difesa – sono presenti con le loro fabbriche in quasi ogni Stato dell’Unione – soprattutto nei distretti elettorali in cui vengono eletti i presidenti dei cruciali comitati del Congresso che, debitamente finanziati, ne fanno in quella sede gli interessi. Addirittura il Dipartimento di Stato, quello della Difesa e la National Intelligence vedono alla loro testa uomini e donne i cui rapporti con l’industria bellica sono caratterizzati da un legame di porte girevoli. Si pensi a Tony Blinken, scelto da Biden come Segretario di Stato, noto per aver sempre abbracciato la linea interventista più dura possibile in materia di politica estera, dalle invasioni in Afghanistan e in Iraq all’operazione in Libia, fino alla richiesta di pesanti interventi militari contro la Siria. Uscito dall’amministrazione Obama, forte della sua esperienza governativa, nel 2018 aveva co-fondato una società di consulenza, la WestExec Advisors, che offre i propri servizi alle più importanti società di high tech, aerospaziali e in generale del settore militare privato, fra cui (secondo un’indagine di The American Prospect[5]) la Winward, società israeliana di elevata tecnologia di guerra. Dello staff della società di “informata” consulenza faceva parte anche Avril Haines, nominata da Biden a capo della National Intelligence (prima donna a ricoprire tale carica) e nota non solo per il suo ruolo nella strategia di guerra con i droni inaugurata da Obama, ma anche per aver coperto le torture dei prigionieri perpetrate durante la presidenza di George W. Bush[6]. Anche il primo afroamericano mai nominato a capo del Pentagono, l’ex-generale Lloyd Austin, oltre ad avere fortissimi legami col mondo militare da cui si era troppo recentemente congedato, ha ampiamente partecipato al sistema di revolving door fra pubblico e privato. È stato, infatti, nei consigli di amministrazione delle più disparate società, ma soprattutto in quello della Raytheon Technologies, leader nella costruzione di armamenti per il Pentagono stesso[7].
È questo il quadro all’interno del quale è possibile comprendere non solo la richiesta dell’amministrazione Biden, già nel dicembre 2021 – ad avventura Afghanistan conclusa e con un personale bellico in Iraq ridotto rispetto all’anno prima –, di aumentare il budget per la difesa, cui il Congresso aveva risposto entusiasticamente, incrementandola addirittura di ben 24 miliardi e approvando così – con maggioranze straordinariamente altissime[8] – uno stanziamento militare senza precedenti[9]. È anche possibile dare un senso al recente nuovo aumento di quelle spese per l’anno fiscale in corso, che arrivano oggi all’astronomica cifra di 782 miliardi di dollari e, soprattutto, all’accordo peculiarmente bipartisan – in un contesto politico altrimenti estremamente polarizzato – con cui il 10 marzo di quest’anno il Congresso ha varato, insieme al primo, anche un pacchetto di aiuti all’Ucraina per ben 13,6 miliardi, di cui 3,65 per acquistare e spedire armi e altri 3 per supporto militare alle truppe americane in Europa[10]. Pure in questo caso la richiesta di Biden era stata molto più bassa, addirittura della metà, ma un provvidenziale accordo fra il democratico Chuck Schumer e il repubblicano Mitch McConnell in Senato ha fatto lievitare la spesa armata, votata a stragrande maggioranza anche dalla House of Representatives, addirittura 361 a 69[11], che il Pentagono ha ovviamente ringraziato di cuore[12]. Gli interessi della potentissima industria bellica, che apparivano in crisi per lo svanire dei teatri di guerra più redditizi, paiono insomma chiamare a raccolta i loro debitori nel Governo e in Parlamento, diretti o indiretti, democratici o repubblicani che siano, ed essi rispondono tendenzialmente compatti, mossi non solo – pare lecito immaginare – da ragioni umanitarie e di solidarietà fra popoli. La guerra in Ucraina rappresenta una splendida opportunità di crescita per il military industrial complex e giustifica l’inversione di rotta di una politica volta a ridurne i proventi, che pur Biden aveva dichiarato di voler inaugurare al momento della rovinosa ritirata dall’Afghanistan, esprimendo l’intenzione di dedicare finalmente parte del danaro speso in quella guerra – 300 milioni al giorno per due decenni – al cd. “dividendo di pace”, ossia a spese sociali interne[13]. Anche il riarmo dell’Europa – Germania in testa – che l’invasione russa sta portando con sé contribuisce ad aumentare i profitti dell’industria bellica statunitense. «Dallo scoppio del conflitto i titoli dei grandi gruppi della difesa hanno spiccato il volo: Northrop Grumman e Lockheed Martin hanno guadagnato oltre il 30% in meno di un mese. In deciso rialzo anche il terzo colosso della difesa Usa Raytheon Technologies. Sono le aziende che costruiscono, tra l’altro, i missili Stinger e Javelins di cui si sente molto parlare nello scenario ucraino, oltre ai jet F35 per cui stanno fioccando nuovi ordini», racconta, per esempio, Mauro Del Corno sul Fatto quotidiano del 26 marzo[14].
Strettamente collegati agli interessi dell’industria bellica sono gli affari della finanza, il più potente dei tre gruppi economici di influenza politica negli Stati Uniti. «Nell’industria delle armi si distingue in particolare la statunitense State Street Global Advisory, quarto gestore di patrimoni al mondo. Detiene una partecipazione del 14,5% in Lockheed Martin, del 9,2% in Raytheon Technologies e del 9,5% in Northrop Grumman. Altro grande socio dell’industria militare è Vanguard, società statunitense che gestisce asset per oltre 5mila miliardi di dollari. Possiede il 7,2% di Northrop Grumman, il 7,2% di Lockheed Martin, il 7,5% di Raytehon. Ha una quota del 2,8% nella tedesca Rheinmetall, l’1,3% della francese Thales, l’1,9% di Leonardo e lo 0,7% di Hensoldt. Tra i nomi più noti della finanza si segnalano l’onnipresente Blackrock che in portafoglio tiene il 4,1% di Northrop Grumman, il 4,8% di Lockheed Martin, il 4,7% di Raytheon, il 3% di Leonardo e lo 0,2% della britannica Bae Systems. C’è poi Jp Morgan, con quote in Northrop Grumman (2,9%) e Raytheon (1,5%). Soci di peso sono anche i gruppi di investimento Fidelity e Capital Research», continua Del Corno. E ancora: «In concreto cosa significa avere in portafoglio queste partecipazioni? Prendiamo ad esempio il caso di State Street, uno dei più rappresentativi. Le tre aziende di armi in cui è presente hanno registrato nelle ultime settimane un incremento della capitalizzazione complessivo di circa 35 miliardi di dollari. Significa che il valore delle sue partecipazioni è cresciuto di 3,7 miliardi in meno di un mese. C’è anche qualcuno che forse, nonostante tutto, stappa champagne».
3. … e quello dell’estrazione energetica
Lo champagne lo stanno certamente stappando anche le corporation che estraggono energia dal suolo statunitense e che, accanto ai gruppi dell’industria bellica e della finanza, rappresentano l’altro grande complesso economico di influenza politica negli States. Così come i primi due – il secondo dei quali ha sempre sostenuto l’attuale Presidente Biden nelle sue avventure senatoriali[15] ed è risultato uno dei maggiori finanziatori della sua ultima vittoriosa campagna presidenziale[16] – anche il cd. “OGAM [oil, gas, mining] complex” esprime in Congresso i suoi rappresentanti. «Se le attività petrolifere, gasiere o minerarie non sono situate in ogni collegio elettorale, i suoi investitori però lo sono», ci dice Michael Hudson[17], dando per implicita la conseguente capacità di pressione politica degli stessi. Nessuno meglio di Joe Manchin, senatore della West Virginia, chiarisce quel legame profondo[18], che ha finora impedito l’attuazione del Build Back Better Plan di Biden, soprattutto nel suo aspetto di incentivazione delle energie rinnovabili ai danni delle fossili. Sotto questo profilo, lo scoppio della guerra in Ucraina ha rappresentato la perfetta giustificazione per affossare definitivamente i buoni propositi di attenzione al clima, che pur Biden aveva espresso appena nominato Presidente, quando – con un executive order del 27 gennaio 2021 – aveva ordinato al Segretario degli interni di sospendere l’attivazione di nuove licenze estrattive di petrolio e gas e di rivedere quelle correnti, al fine di porre gli Stati Uniti sul cammino di un’economia libera dall’energia fossile e dai gas serra entro il 2050[19]. Per quanto il complesso energetico estrattivo si fosse allarmato[20] e avesse, quindi, attivato i suoi rappresentanti politici al Congresso affinché il progetto naufragasse, solo con l’aiuto di un’emergenza capace di catturare davvero la sensibilità collettiva, esso poteva sperare in un cambio di rotta che mettesse da parte le preoccupazioni climatiche ormai globalmente troppo fortemente condivise. La guerra in Ucraina era quello che ci voleva. La necessità di procurare energia a un Europa indotta dal conflitto a rinunciare al fondamentale apporto russo ha infatti immediatamente riattivato l’interesse per una massiccia estrazione di gas naturale negli Stati Uniti, i quali all’inizio del 2022 hanno visto crescere il loro export di gas naturale liquefatto (LNG) in Europa del 34% rispetto all’anno prima. Così, se Biden ha cominciato a pompare quanto più petrolio può per i bisogni domestici di un mercato i cui prezzi sono stabiliti dall’estrazione ed esportazione globali[21], la Federal Energy Regulatory Commission (FERC) ha cancellato il suo piano di controllo sull’impatto climatico delle nuove infrastrutture di estrazione di energia dal terreno. L’agenzia federale di regolamentazione dell’energia ha anche approvato in fretta e furia tre nuovi progetti di estrazione di gas naturale da tempo bloccati, con grande sdegno degli ambientalisti, che ne hanno – non senza serie ragioni – addebitato la responsabilità ai politici corrotti dai finanziamenti del complesso OGAM[22].
Accantonata – grazie all’emergenza guerra – la crisi climatica come preoccupazione immediata, Biden incoraggia oggi l’uso di tutti gli oltre 9000 permessi estrattivi già concessi a livello federale. E il complesso energetico estrattivo non sta certamente mancando di seguirne il consiglio, giacché finalmente i più alti prezzi sul mercato, dovuti all’attesa minor esportazione russa, assicureranno loro ingenti profitti. Gli Stati Uniti hanno, infatti, un’enorme quantità di gas naturale che la tecnologia del fracking consente di ricavare facilmente dal terreno, ma i cui costi per l’esportazione sono alti anche a causa del processo di congelamento necessario per il trasporto. La tanto attesa emancipazione degli europei dall’energia russa, ben esemplificata dall’estenuante trattativa – già risalente a Trump e continuata, poi, con Biden – relativa al gasdotto “Nord Stream 2”, che avrebbe potuto portare alla Germania tanto gas naturale a basso prezzo, sembra infatti – grazie al conflitto – finalmente giunta[23]. Non solo la Germania si è impegnata a non usare il gasdotto russo e ad aprire infine un terminale per la liquefazione del gas naturale che arriverà dagli Usa[24]; l’intera Europa ha anche preso accordi con gli Stati Uniti per una riduzione progressiva della sua dipendenza energetica dalla Russia, cui sopperirà – scontando un aumento dei costi non indifferente – almeno in parte attraverso l’“aiuto” statunitense. Il patto, siglato fra Stati Uniti ed Europa il 25 marzo 2022, prevede infatti che i primi inviino per quest’anno 15 miliardi di metri cubi di gas naturale in più alla seconda. Per il 2030, ha però assicurato Biden, gli Stati Uniti saranno in grado di incrementare l’aiuto fino a 50 miliardi di metri cubi l’anno[25]. Un vero bingo, insomma, per il complesso dell’energia estrattiva statunitense, che chiama oggi a raccolta gli investitori. Precedentemente frenati dalla probabile immagine negativa che avrebbe potuto loro derivare dalla poca attenzione dimostrata verso la questione climatica, questi ultimi sono oggi invece legittimati a investire in energia sporca dalla retorica della solidarietà fra popoli. La costruzione di nuovi costosi terminal per il congelamento e la liquefazione del gas, già in corso negli Stati Uniti e in Europa[26], così come l’intensificazione dei processi di fracking in atto negli States, allontana tuttavia a tempo indeterminato ogni progetto di abbandono dell’energia fossile e di emissione-zero di gas serra, pur annunciato da Biden – come si è detto – per il 2050, con buona pace per ogni preoccupazione di sostenibilità del pianeta.
4. Conclusioni
Delle sofferenze di chi le armi le vede usare contro di sé, di chi dall’aumento dei prezzi dell’energia ricava povertà o più povertà, o di chi, a causa del riscaldamento del pianeta, già subisce e subirà catastrofi climatiche sempre più devastanti, i grandi gruppi economici che dominano gli Stati Uniti e ne influenzano le strategie politiche si disinteressano. È questo il risultato di aver concentrato il potere nelle mani delle corporation, ossia di persone non fisiche ma giuridiche, che non hanno un cuore o un’anima, ma sono mosse da puri meccanismi di accumulazione di capitale. Tornare alla perduta umanità nelle decisioni politiche, a rappresentare in quella sede i bisogni della gente comune – quella che non conta ma che vota –, a una “democrazia” degna del nome, insomma, sembra l’unica via di salvezza possibile, negli Stati Uniti come ovunque.
* Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 14 aprile 2022.
1. Sul punto, vds. A. Colombo, La crisi del “Nuovo Ordine Mondiale”, Fondazione “G. Feltrinelli”, 23 marzo 2022 (https://fondazionefeltrinelli.it/la-crisi-del-nuovo-ordine-mondiale/).
2. www.propublica.org/article/obamas-flip-flops-on-money-in-politics-a-brief-history.
3. www.opensecrets.org/news/2020/12/biden-campaign-1billion-from-donors/.
4. https://campaignlegal.org/update/how-does-citizens-united-decision-still-affect-us-2022.
5. https://prospect.org/world/how-biden-foreign-policy-team-got-rich/
6. https://jacobinmag.com/2020/11/joe-biden-administration-national-security-picks-defense-department
7. www.nytimes.com/2020/12/08/us/politics/lloyd-austin-pentagon-military-contractors.html
8. Se alla Camera i voti erano stati 363 contro 70, in Senato i favorevoli erano stati ben 89 contro 10.
9. www.nytimes.com/2021/12/15/us/politics/defense-spending-bill.html.
10. https://theconversation.com/us-aid-to-ukraine-13-6-billion-approved-following-russian-bombardment-marks-sharp-increase-179172.
11. www.investopedia.com/congress-passes-massive-usd1-5-trillion-omnibus-spending-package-5221870
12. www.defensenews.com/congress/2022/03/09/bidens-ukraine-aid-package-is-getting-super-sized-by-congress/.
13. www.vox.com/22840615/us-defense-spending-increase-afghanistan-withdrawal.
14. Id., La guerra fa ancora più ricchi i big della finanza. La mappa degli azionisti dei grandi produttori di armi, soliti noti con qualche sorpresa (www.ilfattoquotidiano.it/2022/03/26/la-guerra-fa-ancora-piu-ricchi-i-big-della-finanza-la-mappa-degli-azionisti-dei-grandi-produttori-di-armi-soliti-noti-con-qualche-sorpresa/6536214/).
15. www.motherjones.com/politics/2019/11/biden-bankruptcy-president/.
16. www.opensecrets.org/news/2020/10/cost-of-2020-election-14billion-update; M. Del Corno, Usa, le scelte di Joe Biden: la Casa Bianca assomiglia sempre di più ad una succursale del colosso finanziario Blackrock, Il Fatto quotidiano, 8 gennaio 2021 (www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/08/usa-le-scelte-di-joe-biden-la-casa-bianca-assomiglia-sempre-di-piu-ad-una-succursale-del-colosso-finanziario-blackrock/6058964/).
17. Id., America Defeats Germany for the Third Time in a Century, 28 febbraio 2022, https://michael-hudson.com/2022/02/america-defeats-germany-for-the-third-time-in-a-century/. Vds. anche Id., Super Imperialism. The Economic Strategy of American Empire, Institute for the Study of Long-term Economic Trends (ISLET), 2021.
18. https://newrepublic.com/article/163723/joe-manchin-vote-fossil-fuel.
19. www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2021/01/27/fact-sheet-president-biden-takes-executive-actions-to-tackle-the-climate-crisis-at-home-and-abroad-create-jobs-and-restore-scientific-integrity-across-federal-government/.
20. www.ipaa.org/ipaa-dont-be-fooled-this-is-a-ban-on-production/.
21. www.nytimes.com/2022/03/30/us/politics/oil-release-biden.html.
22. www.commondreams.org/news/2022/03/25/green-groups-decry-us-energy-panels-reversal-gas-pipeline-climate-reviews.
23. www.agi.it/estero/news/2022-03-11/vertice-ue-versailles-piu-spese-difesa-meno-energia-russa-15962352/.
24. www.nytimes.com/live/2022/03/25/business/business-news-economy-ukraine#germany-russia-gas.
25. www.nytimes.com/live/2022/03/25/business/business-news-economy-ukraine#biden-eu-liquefied-natural-gas-deal-russia.
26. www.nytimes.com/2022/03/25/business/energy-environment/biden-europe-lng-natural-gas.html.