Magistratura democratica

Fuori dal carcere? La “riforma Cartabia”, le sanzioni sostitutive e il ripensamento del sistema sanzionatorio

di Riccardo De Vito

L’art. 1, comma 17 della legge delega di riforma del processo penale coltiva apprezzabili promesse di trasformazione della penalità sostanziale, processuale e penitenziaria. La rilevante modifica della disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, pur rimanendo tra gli aspetti meno esplorati della cd. “riforma Cartabia”, pare precorritrice di novità in grado di poter incidere sul sistema penitenziario e sulla fisionomia del giudice penale di cognizione. Il passaggio copernicano della riforma potrà incidere sull’effettiva dinamica della sanzione penale solo ove – nell’attuare la delega – si risolvano alcune aporie presenti nella legge delega e solo ove si assicurino adeguate risorse agli uffici di esecuzione penale esterna.

1. Una svolta copernicana / 2. Dalle sanzioni sostitutive alle pene alternative. La nuova fisionomia del giudizio di cognizione / 3. Ridimensionare il carcere / 4. I punti salienti della riforma: semilibertà, detenzione domiciliare, lavori di pubblica utilità / 5. Una superstite: la pena pecuniaria / 6. Dalla esecuzione alla cognizione: un passaggio delicato / 7. L’esecuzione delle pene sostitutive e il rischio di esiti irragionevoli / 8. Brevi cenni alla messa alla prova / 9. Alternative o aggiuntive al carcere? Il rischio dell’eterogenesi dei fini

 

1. Una svolta copernicana

L’art. 1, comma 17 della legge delega di riforma del processo penale (legge n. 134/2021) coltiva apprezzabili promesse di trasformazione della penalità sostanziale, processuale e penitenziaria. 

La rilevante modifica della disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, pur rimanendo tra gli aspetti meno esplorati della cd. “riforma Cartabia”, pare precorritrice di novità in grado di poter incidere sul sistema penitenziario – riducendo la pressione del sovraffollamento – e sulla fisionomia del giudice penale di cognizione: il «mormorante evocatore del passato remoto» per dirla con le parole che Thomas Mann riservava al narratore di storie[1], sarà d’ora in avanti sempre più tenuto ad attrezzarsi sul versante della prognosi dei comportamenti futuri, dovendo incorporare parte dei compiti del magistrato di sorveglianza. 

Il passaggio copernicano della riforma si colloca proprio nella definitiva abolizione – a distanza di quarant’anni esatti dalla loro introduzione con legge n. 689/1981 – delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata e nel subentro, in luogo di quelle, di due misure sino ad oggi collegate alla dinamica esecutiva della pena e applicabili soltanto dal magistrato di sorveglianza: la semilibertà e la detenzione domiciliare. Accanto ad esse, tra i surrogati del carcere direttamente comminabili dal giudice della condanna – è bene farvi subito cenno – trovano ora spazio anche i lavori di pubblica utilità, mentre rimane la previsione della pena pecuniaria per sostituire le pene detentive di entità più contenuta. 

 

2. Dalle sanzioni sostitutive alle pene alternative. La nuova fisionomia del giudizio di cognizione

Prima di analizzare in dettaglio i punti nodali della riforma, sembra decisivo mettere in risalto che, in ragione della possibilità di applicare quelle che sino ad oggi erano «misure alternative alla detenzione», l’oggetto del processo penale si dovrà per forza di cose ampliare per ricomprendere una più approfondita indagine sulla personalità dell’imputato e la formulazione di ipotesi trattamentali dei condannati. Tale estensione degli ambiti del giudizio di cognizione è resa necessaria da un’altra rilevante innovazione normativa: l’innalzamento da due a quattro anni della soglia massima di pena sostituibile con la semilibertà o la detenzione domiciliare (con il limite, invece, di tre anni per i lavori di pubblica utilità e di un anno per la pena pecuniaria). 

È fuori discussione che il giudice penale della cognizione possieda già oggi, nel suo profilo funzionale e nel toolkit epistemologico, l’attitudine al giudizio prognostico e la metodologia per elaborarlo, entrambe forgiate da istituti che impongono di dismettere gli abiti dello storico e di volgere lo sguardo al futuro delle persone giudicate. 

La sospensione condizionale della pena, ad esempio, «è ammessa soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art. 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati» (art. 164 cp); la misura di sicurezza, viceversa, è applicabile soltanto «quando è probabile» che chi ha commesso un fatto preveduto dalla legge come reato ne commetta di nuovi (art. 203 cp). 

Gli strumenti della prognosi e dell’osservazione della personalità dell’imputato sono poi stati ulteriormente incrementati dall’introduzione nel nostro ordinamento di quel meccanismo di diversion processuale rappresentato dalla messa alla prova dell’adulto. La sospensione del procedimento con messa alla prova, infatti, è disposta «quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 del codice penale, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati» (art. 464-quater, comma 3, cpp); per compiere tale valutazione in maniera più incisiva, il giudice «può acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato» (art. 464-bis, comma 5, cpp). 

L’ingresso della semilibertà, della detenzione domiciliare (e in parte dei lavori di pubblica utilità) nel novero delle sanzioni sostitutive, tuttavia, dilata ancora di più il focus della prognosi e impone un salto di qualità: non più soltanto (o in misura prevalente) il giudizio sull’astensione dalla recidiva, ma, accanto a tale componente “negativa”, la valutazione “positiva” sulla idoneità della misura sostitutiva (in questo senso, anche della pena pecuniaria) a favorire il percorso di reintegrazione sociale del condannato. 

Il cambiamento di paradigma è scolpito nella formulazione della lett. c del citato art. 1, comma 17, che alla disciplina di attuazione e dettaglio del legislatore delegato affida un compito complesso: «prevedere che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi possano essere applicate solo quando il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati». 

Nell’ambito del quadro normativo attualmente in vigore, il giudice, nel sostituire la pena detentiva, sceglie nel ventaglio delle sanzioni disponibili (semidetenzione, libertà controllata, pena pecuniaria) «quella più idonea al reinserimento sociale del condannato» (art. 58 l. n. 689/1981). Il parametro di idoneità al reinserimento sociale, a legislazione invariata, non assiste il momento “genetico” della sanzione, limitandosi a entrare in gioco (e in maniera blanda) nel momento dell’esercizio del potere discrezionale di scelta della singola e standardizzata sanzione. La decisione di disporre o meno delle attuali sanzioni sostitutive indifferenziate, ad oggi, deriva da un giudizio di tipo essenzialmente retributivo, correlato all’entità della pena e alla necessità di evitare gli effetti deoscializzanti che un breve transito in carcere comporta. Anche la determinazione delle modalità esecutive delle attuali sanzioni è affare alieno alla competenza del giudicante, essendo rimessa – nei limiti di quella standardizzazione alla quale si accennava – al magistrato di sorveglianza (art. 62 l. n. 689/1981). 

Con la riforma, viceversa, il principio costituzionale del finalismo rieducativo dovrà presidiare a tutto tondo l’applicazione, la scelta e la declinazione individualizzata delle nuove sanzioni sostitutive, che vanno ad assumere la natura di vere e proprie pene sostitutive o alternative[2] da plasmare sulla storia individuale del condannato.

 

3. Ridimensionare il carcere

È intuitivo afferrare, già sulla base di questi primi cenni, che la riforma costituisca un ripensamento non soltanto dell’apparato parallelo delle sanzioni sostitutive, ma più in genere di tutto il sistema sanzionatorio e del conseguente approccio ad esso da parte del giudice penale. 

L’ottica, da rimarcare con indiscutibile favore, è quella di una riduzione dello spazio (non solo metaforico) occupato nel nostro sistema dalla pena detentiva. L’impalcatura della delega, dunque, non ha il respiro corto del mero riordino di settore e in questo senso, come già messo in risalto da qualificati commentatori, raccoglie le dichiarazioni di intenti della Ministra della giustizia Marta Cartabia davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati: «una seria riflessione sul sistema sanzionatorio» tale da orientare «verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere»[3]. Da questo assunto teorico di fondo sono sgorgate sia l’applicabilità in sede di cognizione di alcune delle misure attualmente previste come alternative al carcere, con conseguente sgravio del magistrato di sorveglianza, sia l’elevazione della soglia massima di pena entro cui è possibile sostituire la pena: quattro anni, lo stesso limite entro il quale, in fase esecutiva, può essere concessa la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 3-bis, ord. penit.). 

Non va trascurato, in una valutazione realistica del potenziale impatto della riforma, che ad oggi circa 26.385 detenuti, su un totale di circa 54.000[4], devono rimanere in carcere per meno di tre anni e, di questi, ben 7.123 si sono visti comminare una pena inferiore ai tre anni[5] direttamente in sentenza. Se l’attuazione della delega sarà rigorosa – se, soprattutto, l’interpretazione sarà espansiva – pertanto, la riforma, pur con i limiti di cui si dirà, potrà raggiungere obiettivi ragguardevoli nel campo della deflazione di quella popolazione carceraria che si trova a scontare pene di modesta entità per fatti di limitato allarme sociale e che, in larga parte, coincide con l’area della detenzione sociale, caratterizzata da fragilità economiche, familiari, umane. 

 

4. I punti salienti della riforma: semilibertà, detenzione domiciliare, lavori di pubblica utilità

Come noto, la legge n. 134/2021 si sostanzia in una serie di emendamenti al “ddl Bonafede” (AC 2435), formulati sulla base della relazione finale dei lavori della Commissione ministeriale di studio incaricata di elaborare proposte di riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale, nonché della prescrizione (Commissione Lattanzi). 

Preme subito mettere in rilievo che i profili di maggior perplessità del nuovo impianto normativo, anche in materia di pene sostitutive, derivano dal setaccio unicamente politico con il quale sono state vagliate le proposte contenute nell’art. 9-bis dell’elaborato offerto dalla Commissione Lattanzi. Colpisce, in modo particolare, l’espunzione dell’affidamento in prova dalle misure alternative applicabili in sede di cognizione. Si tratta di una scelta che inocula limiti e contraddizioni nella riforma e che sembra suggerita, ancora una volta, dall’impossibilità – dettata da preoccupazioni squisitamente politiche e di consenso – di accostare al concetto di pena misure impegnative dell’essere umano, ma non privative della libertà personale.

L’analisi sintetica della riforma non può che prendere le mosse dallo smantellamento del sistema di sanzioni sostitutive delineato dalla legge n. 689/1981. Abolite la semidetenzione e la libertà controllata – mai passate dalla lettera della legge alla realtà delle aule giudiziarie –, la delega incarica l’esecutivo di prevedere, quali sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, la semilibertà, la detenzione domiciliare, i lavori di pubblica utilità e la pena pecuniaria (lett. b). 

La lettera e disciplina le soglie edittali della pena detentiva sostituibile e le corrispondenti sanzioni applicabili: quando il giudice, in sede di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cpp, riterrà di dover determinare nei limiti di quattro anni la durata della pena, potrà sostituirla con la semilibertà o la detenzione domiciliare; entro la soglia dei tre anni, viceversa, lo stesso giudice potrà optare anche per i lavori di pubblica utilità, mentre la pena pecuniaria – oggi prevista per surrogare pene di soli mesi – verrà utilizzata in sostituzione di pene della durata di un anno.

Occorre immediatamente segnalare, quale importante avanzamento sul terreno dell’effettività, che la sospensione condizionale della pena non potrà più essere disposta in caso di applicazione delle pene sostitutive (lett. h). Come messo in rilievo da autorevole dottrina, ci troviamo di fronte a un «passo indispensabile» per evitare che queste ultime vengano “fagocitate” dai meccanismi di sospensione previsti dagli artt. 163 ss. del codice penale[6].

La semilibertà e la detenzione domiciliare troveranno la loro disciplina sostanziale e processuale nelle relative disposizioni di ordinamento penitenziario; di tali disposizioni l’esecutivo dovrà tener conto anche nella disciplina delle condizioni soggettive di accesso alle pene sostitutive, in modo tale da realizzare un “coordinamento” con le preclusioni relative alle misure alternative (lett. d e f). Maglie larghe sono giustamente contemplate per i casi di inosservanza delle prescrizioni: soltanto la mancata esecuzione delle sanzioni o la violazione grave e reiterata delle prescrizioni potrà dar luogo a revoca della misura, con conseguente conversione della porzione residua da espiare in pena detentiva o in altra sanzione sostitutiva. 

La previsione di tramutamento della misura suscettibile di revoca in altra sanzione dello stesso genere – desunta direttamente dall’esperienza della magistratura di sorveglianza e dalla recente riforma dell’art. 51-ter dell’ordinamento penitenziario ad opera del d.lgs n. 123/2018 – assume una notevole importanza pratica e un ruolo strategico nel dichiarare all’interprete la ratio della riforma: confinare il carcere, nell’ambito delle pene di breve durata, nel ruolo di sanzione davvero residuale. Altrettanto rivelatrici, in questa traiettoria di contenimento del peso della pena carceraria, sono le scelte della legge delega – in questo caso migliorative rispetto all’articolato della Commissione Lattanzi – di non limitare la possibilità di sostituzione a determinate figure di reato e di consentire la reiterazione dell’applicazione delle pene sostitutive. 

Alle sanzioni sostitutive applicabili su larga scala, purché nel limite di tre anni di durata della pena detentiva, si aggiungono ora i lavori di pubblica utilità, i quali hanno di recente conosciuto una stagione fiorente a seguito degli interventi legislativi che ne hanno previsto l’utilizzabilità in funzione di pena sostitutiva (anche della pena pecuniaria) nei reati di guida in stato di ebbrezza, guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e nei delitti di droga di lieve entità (a condizione che l’autore sia tossicodipendente)[7]. La delega sancisce espressamente che la prestazione di un’attività non retribuita in favore della collettività – la cui disciplina sarà mutuata dal d.lgs n. 274/2000 – debba avere durata corrispondente a quella della pena detentiva sostituita (lett. f) e possa essere disposta d’ufficio dal giudice, anche in sede di patteggiamento o decreto penale di condanna, a condizione che il condannato non si opponga. 

Il positivo svolgimento dei lavori di pubblica utilità applicati con sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cpp o con decreto penale di condanna, se accompagnato dal risarcimento del danno o dall’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, determinerà inoltre la revoca della confisca eventualmente disposta, eccezion fatta per i casi di confisca obbligatoria (lett. i); si è in presenza, all’evidenza, di una disposizione mirante a incentivare l’opzione difensiva per tali riti alternativi.

 

5. Una superstite: la pena pecuniaria

Unica sopravvissuta delle “vecchie” sanzioni sostitutive, la pena pecuniaria vede ora incrementare il proprio raggio d’azione, dal momento che potrà essere applicata in sostituzione di pene detentive della durata massima di un anno, in luogo dell’attuale limite di sei mesi. Ai decreti delegati viene affidato il compito di determinare le quote giornaliere, che nel massimo non dovranno superare i 2.500 euro, salvo il limite di 250 euro nel caso di applicazione in sede di decreto penale di condanna. Con riferimento al minimo della quota, viceversa, la delega specifica che l’ammontare dovrà essere individuato «in misura indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 del codice penale» (250 euro) e «in modo tale da evitare che la sostituzione della pena risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, consentendo al giudice di adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche e di vita del condannato» (lett. l). 

Alcune brevi osservazioni sulla pena pecuniaria sostitutiva, per i peculiari problemi che pone, devono essere svolte già ora. 

Va senza dubbio sottolineato in maniera positiva il fatto che il legislatore, nel sancire che il valore minimo giornaliero della quota possa essere inferiore a 250 euro, abbia prestato ascolto al monito della sentenza n. 15/2020 della Corte costituzionale, la quale, pure nell’ambito di un giudizio di inammissibilità, aveva scandito a chiare lettere che il tasso di ragguaglio dell’art. 135 cp – innalzato dal legislatore del 2009 alla somma di 250 euro per giorno di detenzione –, aveva reso «eccessivamente onerosa, per molti condannati, la sostituzione della pena pecuniaria», con «conseguente rischio» di trasformare quella sostituzione «in un privilegio per i soli condannati abbienti». 

Nonostante questo auspicato intervento correttivo, tuttavia, non pare ancora prevedibile un futuro roseo per la pena pecuniaria tout court, per un duplice ordine di considerazioni alle quali, in questa sede, si può solo rapidamente accennare.

In primo luogo, a differenza di quanto era stato previsto nella proposta della Commissione Lattanzi, l’attuale riforma non incide sul sistema di determinazione ex lege della pena pecuniaria, che rimane ancorato al modello tradizionale della somma complessiva invece di accedere, al pari della pena pecuniaria sostitutiva, al meccanismo delle quote giornaliere. 

Il secondo ordine di problemi riguarda proprio le procedure di esecuzione delle pene pecuniarie: l’art. 1, comma 16 della legge delega si limita a stabilire che i decreti legislativi dovranno procedere alla «razionalizzazione e semplificazione del procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie», alla «revisione, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, dei meccanismi e della procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità», nonché alla «previsione di procedure amministrative efficaci, idonee ad assicurare l’effettiva riscossione della pena pecuniaria e la sua conversione in caso di mancato pagamento». Salta immediatamente agli occhi l’assenza di ogni criterio specifico di delega, ma è fin troppo scontato rilevare che dalla soluzione prescelta dal legislatore delegato dipenderà il raggiungimento o meno di un adeguato livello di efficacia deterrente della pena pecuniaria. 

Esaminate in sintesi le novità normative, occorre ora spostare l’attenzione sui profili critici della riforma, concentrandosi sul reale profilo di cambiamento, ovvero l’immissione nel giudizio di cognizione della possibilità di applicare le pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare. 

 

6. Dalla esecuzione alla cognizione: un passaggio delicato

Il progetto di traghettare le misure alternative nel giudizio di cognizione, pur rimasto sempre allo stato di tentativo incompiuto, era stato già messo in agenda dal legislatore e aveva suscitato approfondite riflessioni tra i penitenziaristi. 

Il “ddl Carotti” in materia di modifiche del processo penale collegate all’entrata in vigore del giudice unico, ad esempio, aveva ventilato la possibilità della concessione delle misure alternative alla detenzione direttamente da parte del giudice della cognizione nell’ambito del solo procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti. Come noto, il testo di legge definitivo (l. n. 479/1999) fu approvato senza tale modifica, ma il precedente storico merita di essere ricordato soprattutto per le criticità – in parte analoghe alle odierne – allora messe in risalto dalla riflessione della dottrina e della giurisprudenza. In particolar modo fu la Commissione mista per i problemi della magistratura di sorveglianza, istituita presso il Consiglio superiore della magistratura, a tracciare tre direttrici d’intervento indispensabili per supportare la proposta di riforma. 

Il primo suggerimento era strettamente correlato alla «concreta impraticabilità di qualunque alternativa ad una pena di tipo detentivo (…) che non si fondi su una serie di informazioni, le più ampie possibili, sulla persona condannata, sulla sua vita precedente o successiva al reato, secondo il paradigma, troppo spesso vanamente invocato, descritto dall’art. 133 c.p.»[8]

Sotto questo profilo sembra che l’attuale delega muova nella giusta direzione, ancorando la stessa possibilità di applicazione delle pene sostitutive al principio del finalismo rieducativo e prevedendo «il coinvolgimento degli uffici per l’esecuzione penale esterna». Va da sé che sarà importante pretendere un rafforzamento degli uffici per l’esecuzione esterna, le cui piante organiche sono allo stato attuale del tutto inadeguate a coprire il fabbisogno generato dalle misure alternative “ordinarie” e dal prepotente sviluppo della messa alla prova. 

Senza investimento sul versante degli uffici di esecuzione penale esterna – strategici per la raccolta delle informazioni oltre che per la formulazione del regime di prescrizioni –, la riforma fallirà il suo scopo: potranno essere raggiunti nel breve termine obiettivi minimi di deflazione delle presenze in carcere, ma non verrà tagliato alcun traguardo di risocializzazione dei condannati e di abbattimento dei tassi di recidiva. 

In mancanza di una seria prospettiva informativa – ottenibile anche attraverso il potenziamento applicativo di una norma, l’art. 187 cpp, che colloca tra gli oggetti di prova anche i fatti che si riferiscono alla determinazione della pena –, si correranno due rischi: trasformare le pene sostitutive in gusci vuoti; applicarle soltanto sulla base di requisiti di affidabilità – disponibilità di un’opportunità lavorativa, di un’abitazione, di risorse familiari – che tagliano fuori la criminalità socialmente più fragile, vale a dire proprio quella che statisticamente commette i reati punibili con pene detentive brevi. 

Un rilievo specifico, sotto quest’ultimo profilo, deve essere svolto riguardo alla detenzione domiciliare. Questa misura, anche nella fase esecutiva della pena, è troppo spesso destinata a rimanere mera possibilità sulla carta: non avere la disponibilità di un alloggio, neppure del più piccolo punto di appoggio messo a disposizione da una rete familiare o amicale, preclude la possibilità di conseguire una misura a cui pure, sotto il profilo dei parametri normativi, si avrebbe diritto. Per evitare la subordinazione di diritti costituzionali al godimento di una posizione sociale di non marginalità e per far “vivere” la prescrizione della detenzione domiciliare quale pena sostitutiva, pertanto, pare ineludibile auspicare congrui investimenti nella costruzione di dimore sociali, nonché in quei progetti di inclusione sociale già oggi meritoriamente attivati dalla Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e da Cassa ammende. 

La seconda linea di intervento allora suggerita dall’analisi della proposta Carotti era legata alla necessità di evitare che sulla stessa pena alternativa mettessero le mani due organi giudiziari diversi. È un principio di validità immutata: in altre parole, la funzione tipica della pena sostitutiva – che la delega oggi delinea con maggior nettezza anche in termini di risocializzazione – può essere raggiunta esclusivamente a condizione che applicazione della pena e determinazione delle prescrizioni correlate siano il portato della mano di uno stesso giudice, evitando sovrapposizioni che potrebbero alterare il progetto originario sotteso alla scelta della misura. 

Anche in questo caso la legge n. 134/2021 pare cogliere nel segno, disponendo il superamento della divaricazione, ora esistente nel campo delle sanzione sostitutive, tra momento dell’indicazione della specie e della durata della pena detentiva ad opera del giudice di cognizione (art. 61 l. n. 689/1981) e fase della determinazione delle modalità di esecuzione ad opera del magistrato di sorveglianza (art. 62 della medesima legge). La più volte citata lettera c del comma 17 prescrive che le nuove pene sostitutive potranno essere disposte solo a condizione che «assicurino attraverso opportune prescrizioni» la prevenzione del pericolo di recidiva. Se ne desume, dunque, che il giudice di cognizione, per valutare l’idoneità della misura – anche in termini rieducativi, verrebbe da dire – debba figurarsi già al momento dell’applicazione il relativo progetto di attuazione, per poi dettagliarlo in un regime prescrittivo adeguato e il più possibile individualizzato. 

L’ultima delle linee guida messe a punto dal dibattito della Commissione mista a fine anni novanta merita di essere trattata a parte, involgendo anche delicati problemi di ordine processuale. 

 

7. L’esecuzione delle pene sostitutive e il rischio di esiti irragionevoli

Inutile nascondere che, nell’attuazione della riforma, l’interprete dovrà fare i conti con un’incognita preoccupante, direttamente ascrivibile al notevole lasso temporale che di solito intercorre tra il momento dell’applicazione della pena sostitutiva ad opera del giudice e il momento dell’esecuzione della stessa una volta che la sentenza sarà divenuta irrevocabile. Il rischio è quello che le condizioni che hanno giustificato la pena sostitutiva – sussistenza di un domicilio idoneo per la detenzione domiciliare o, nel caso di semilibertà, disponibilità di «attività lavorative, istruttive, o comunque utili al reinserimento sociale» (art. 48 ord. penit.) – evaporino nel corso del giudizio e siano scomparse al momento dell’esecuzione. Analoghe preoccupazioni, sia pure in tono minore, valgono per i lavori di pubblica utilità. 

All’epoca del ddl Carotti, gli approfondimenti della Commissione mista finirono per sposare, non senza aspro dibattito, la tesi della necessità dell’immediata esecutività delle sentenze che avessero disposto una pena sostitutiva. Era uno scambio, quello tra garanzie collegate all’irrevocabilità della sentenza e immediata applicabilità della misura, che poteva ammettersi soltanto in ragione della limitazione della possibilità di applicazione della misura alternativa ai soli casi di patteggiamento e, dunque, di consenso dell’imputato. 

Questo tipo di soluzione è oggi inattuabile e, allo stesso tempo, è facile prevedere che il successo della riforma, in termini di deflazione carceraria e di snellimento del processo, dipenderà da una significativa riduzione del tasso di impugnazione delle condanne a pena sostitutiva. Tre gradi di giudizio comportano un pericolo maggiore di modificazione delle condizioni soggettive e oggettive valutate dal giudice della condanna.

Tale diminuzione, astrattamente ipotizzabile in ragione di una più sopportabile accettazione della pena non carceraria, pare in concreto difficilmente realizzabile. Sia la detenzione domiciliare sia la semilibertà, infatti, si traducono in misure privative o seriamente limitative della libertà personale. Difficile pensare, pertanto, che l’imputato si acquieterà sull’esito di primo grado. 

In questo senso, l’eliminazione dell’affidamento in prova al servizio sociale dal novero delle misure anticipabili in sede di cognizione gioca un ruolo decisivo: trattandosi dell’unica misura che non comporta meccanismi di completa privazione della libertà personale, infatti, avrebbe sicuramente indotto una maggior deterrenza all’impugnazione. In questo stesso ordine di ragionamenti pare ancora più arrendevole la scelta di eliminare dallo schema definitivo di delega la previsione originaria di estendere l’accordo delle parti, in caso di patteggiamento, anche alla misure alternative e, tra queste, all’affidamento in prova.

Alla eliminazione dell’affidamento in prova dal novero delle pene sostitutive fanno riscontro ulteriori criticità, tra cui quella inerente al rapporto tra esecuzione immediata delle pene sostitutive e sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive di durata inferiore a quattro anni (art. 656, comma 5, cpp)[9]

Ad oggi, come noto, l’esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata è curata dal pubblico ministero che, senza alcun meccanismo sospensivo, trasmette l’estratto della sentenza al magistrato di sorveglianza (art. 661 cpp). Sotto questo profilo, la possibile efficienza della riforma sembra reggersi sul mantenimento di meccanismi simili, comunque tali da evitare che l’ordine di esecuzione di una condanna a pena sostitutiva venga sospeso. Come è stato messo in risalto dai primi commentatori, «la scelta di mettere a disposizione del giudice di cognizione sanzioni che riproducono nei contenuti le attuali misure alternative (…) scongiura il passaggio del condannato attraverso il carcere, ma promette anche di ridimensionare il fenomeno dei c.d. liberti sospesi»[10], vale a dire di quei condannati a pena detentiva inferiore a quattro anni nei confronti dei quali l’ordine di esecuzione della pena carceraria viene sospeso (art. 656, comma 5, cpp) in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza sull’eventuale riconoscimento di una misura alternativa. 

Tale meccanismo duale – sospensione dell’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati a pena detentiva inferiore a quattro anni da un lato, immediata esecuzione delle condanne a sanzione sostitutiva dall’altro – era giustificato dal carattere limitatamente afflittivo delle sanzioni sostitutive previste dalla l. n. 689/1981, le quali non comportavano (se non in misura estremamente ridotta) quell’assaggio di carcere che la “legge Simeone” (l. n. 165/1998) aveva saggiamente inteso evitare per quei condannati già in termine per chiedere una misura alternativa. 

Il sistema binario appena descritto, tuttavia, pare messo in crisi dalle nuove pene sostitutive, soprattutto nell’ipotesi – da ritenersi non infrequente – in cui il giudice di cognizione dovesse pervenire alla decisione di applicare la semilibertà in luogo della pena detentiva breve. In questa ipotesi la pena sostitutiva assume un profilo paracarcerario assai marcato, che pare incompatibile con l’assenza di un meccanismo di sospensione tale da garantire la possibilità per il condannato di richiedere, da libero, la misura più ampia e favorevole dell’affidamento in prova.

Potrebbero derivarne esiti irragionevoli: il condannato alla pena sostitutiva della semilibertà entrerebbe immediatamente in carcere, sia pure con la possibilità di uscire per svolgere attività lavorativa; il condannato a pena detentiva – magari di durata superiore a quella stabilità per la semilibertà e, in ogni caso, ritenuto non meritevole di pena sostitutiva – vedrebbe sospendersi l’ordine di esecuzione della condanna per attendere da libero il verdetto del tribunale di sorveglianza sull’affidamento in prova. 

Non pare che tale profilo contraddittorio possa essere sottovalutato, tanto più che ad amplificarlo concorrono diversi fattori: la possibilità di applicare e scegliere d’ufficio le pene sostitutive; l’estensione generale di quest’ultime a tutti i reati, con il solo limite del massimo edittale della pena da sostituire; la mancata possibilità di applicare l’affidamento in prova in sede di cognizione, con conseguente possibile ingresso in carcere senza un vaglio sulla principale misura alternativa, al quale pure si avrebbe diritto, posto che il limite edittale per la sostituzione della pena detentiva è lo stesso previsto per l’applicazione della misura dell’affidamento. 

Allo stesso tempo, non pare centrato il rilievo basato sul fatto che la semidetenzione, misura simile alla semilibertà, non abbia sinora creato problemi in sede di esecuzione. In primo luogo, va osservato che le due misure, apparentemente uguali, sono in realtà molto diverse: la semidetenzione comporta l’obbligo di trascorrere almeno dieci ore in istituto penitenziario (art. 55 l. n. 689/1981), mentre la semilibertà comporta la facoltà di trascorrere fuori dall’istituto solo il tempo necessario per partecipare ad attività lavorative (art. 48 ord. penit.). Inoltre, la circostanza che l’esecuzione della semidetenzione non abbia evidenziato criticità è assai verosimilmente ascrivibile alla totale desuetudine in cui l’istituto è caduto: al 15 aprile 2021, si contavano in Italia soltanto due casi di semidetenzione[11].

Difficile capire in quale direzione possa agire il legislatore delegato per arginare tale criticità, ammesso che tale sia ritenuta: rientrare nel territorio degli automatismi presidiati dall’art. 656 del codice di rito o ipotizzare, soltanto per la semilibertà, previsioni di eventuale sospensione a favore del condannato nuove e temporalmente più ampie rispetto a quelle attualmente sancite per la semidetenzione (art. 69 l. n. 689/1981).

 

8. Brevi cenni alla messa alla prova

Prima di effettuare una valutazione complessiva dell’impatto della riforma sul carcere e sul processo, sembra necessario prendere in rapida considerazione un istituto che, estraneo al tema delle sanzioni sostitutive, appartiene al genere dei meccanismi sospensivi del processo e ad un’area di repressione penale che potremmo definire a bassa intensità: la messa alla prova. È, come noto, un classica ipotesi di diversion, la cui applicazione a regime sarà decisiva anche nel determinare i perimetri delle pene sostitutive. 

L’istituto in questione ha già fatto guadagnare al giudice di cognizione l’esperienza della formulazione di programmi di trattamento. La legge n. 134 del 2021, ora, muovendosi nella logica della deflazione processuale e penitenziaria, ne amplia i confini. L’ambito di applicazione dell’art. 168-bis cp dovrà essere esteso dal legislatore delegato a ulteriori specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti e riparativi. 

Il criterio di delega, a ben vedere, è incentrato sulla natura del reato, circostanza che, oltre a essere di difficile attuazione, potrà generare automatismi difficilmente superabili al banco del giudice pur a fronte di una valutazione di idoneità soggettiva della persona a cui proporre il progetto di messa alla prova. Non è da trascurare, tuttavia, l’ampliamento della portata dell’istituto, che si appresta a divenire un importante strumento per consentire, soprattutto al reo primario, di fuoriuscire al più presto dal circuito della penalità processuale prima ancora che dal sistema della pena carceraria. 

 

9. Alternative o aggiuntive al carcere? Il rischio dell’eterogenesi dei fini

È stata più volte sottolineata, nel corso di queste riflessioni, la positiva valutazione dell’intento sotteso alla riforma delle sanzioni sostitutive: porre fine al carattere baricentrico del carcere nell’ambito del sistema sanzionatorio.

La constatazione degli obiettivi della delega, tuttavia, non può e non deve lasciare appagati, essendo necessario interrogarsi criticamente sulla realizzazione concreta di quelle finalità e sulle reali possibilità delle novità normative di modificare il funzionamento effettivo – sociologico, estrinseco – della leva penale nell’attuale fase storica.

La prima questione da indagare è legata alla strategia di consegnare al giudice di cognizione misure di contenuto analogo a quelle utilizzabili in fase esecutiva: la semilibertà e la detenzione domiciliare. Si è già detto dei gravi inconvenienti correlati alla mancata inclusione dell’affidamento in prova nel novero delle pene alternative: da tale scelta potranno derivare effetti di irragionevole disparità di trattamento tra condannati, con il rischio di conseguenze maggiormente afflittive per i condannati ritenuti meritevoli della pena sostitutiva – dunque meno pericolosi – e contestuale frustrazione dello scopo di alleggerire il processo di cognizione dal fardello delle impugnazioni delle condanne a pene sostitutive. 

Accanto a tali criticità, tuttavia, si collocano ulteriori ragioni di preoccupazione, direttamente correlate all’idea di alternativa al carcere che si intende perseguire. Tralasciando ogni pericolosa enfasi correzionalistica, impositiva di pretese egemoniche e di cambiamenti soggettivi del condannato, costruire una misura alternativa – ora anche una pena alternativa – dovrebbe significare, per usare le espressioni di Alessandro Margara, compartecipare alla «modifica delle situazione oggettiva di inserimento sociale» che il condannato può realizzare. Non si tratta soltanto di favorire la fuoriuscita dal carcere, ma di progettare quella «rieducazione-risocializzazione-riabilitazione» che dal carcere tiene lontano[12]

La costruzione di quel percorso, come in parte già anticipato, richiede informazioni e saperi che neppure il magistrato di sorveglianza, istituzionalmente dedito a quel compito, a volte riesce a mettere insieme. L’incombenza appare ancora più pesante per il giudice di cognizione, che nel suo imprinting conserva (e deve conservare) un’attitudine a conoscere, attraverso il contraddittorio, fatti puntuali, fotogrammi di vita di una persona e che, comunque, è verosimile ritenere dedichi un maggiore impegno allo scrutinio dei reati di maggiore allarme, punibili con pena carceraria non surrogabile. La carenza di informazioni, pertanto, oltre a implicare il rischio di produrre misure povere di contenuti, potrebbe riverberarsi in un atteggiamento difensivo di concessione col contagocce delle pene sostitutive o di scelta pregiudiziale delle misure maggiormente contenitive. Il pericolo, ancora una volta, era stato puntualmente descritto da Alessandro Margara: «La previsione dell’applicazione, con la stessa sentenza, di pene diverse dalla detenzione in carcere (…) è destinata a essere gestita senza conoscenza delle situazioni concrete e può comunque approdare, in sede esecutiva, a nuova esecuzione di pena detentiva». Accanto all’intuizione di ordine generale, Margara annotava esempi concreti: «La detenzione domiciliare, ad esempio, proposta fra i nuovi tipi di sanzione, è oggi una fabbrica di denunce per evasione e di revoche con ritorno in carcere»[13]. A questi atteggiamenti di prudenza, spesso comprensibile, o di automatica applicazione in chiave puramente deflattiva delle misure, è di norma collegato un incremento dei numeri delle presenze in carcere, anziché una loro diminuzione. 

Facile prevedere, poi, che la probabile opzione per la misura della semilibertà possa far crescere i numeri di una misura che la penalità penitenziaria conosce ormai soltanto nelle pene di lunga durata o negli ergastoli quale tappa verso le misure finali dell’affidamento in prova o della liberazione condizionale. 

Il pericolo di un aumento delle presenze dei semiliberi – ad oggi 907 in totale – sarebbe un effetto chiaramente disarmonico rispetto alle intenzioni di riforma, ma è un pericolo che va tenuto in considerazione (dunque, prevenuto) anche in ragione della strategica collocazione dei reparti ai quali è destinata questa tipologia di detenuti. L’ordinamento penitenziario prevede che «i condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari» (art. 48 l. n. 354/1975), mentre il regolamento di esecuzione stabilisce che «sezioni autonome di istituti per la semilibertà possono essere ubicate in edifici o in parti di edifici di civile abitazione» (art. 101, comma 8, dPR n. 230/2000). Ora, se è senza dubbio auspicabile che l’edificio di civile abitazione o la sezione collocata fuori dal muro di cinta diventino la tipologia edilizia naturale per scontare pene di breve durata e per i detenuti di bassa o media pericolosità, è altrettanto constatabile che il sistema penitenziario debba ancora attrezzarsi per tale risultato, sia sotto il profilo culturale sia sotto il profilo materiale. Il rischio, altrimenti, è quello di un azzardato sovraffollamento di istituti e sezioni che, ad oggi, funzionano da protetti luoghi di sperimentazione di quei condannati che provengono da lunghi transiti in circuiti detentivi spesso di alta sicurezza. 

Da ultimo va accennato a una questione più generale e, si potrebbe dire, politica, inerente alla funzione materiale della pena. Al di là del messaggio normativo di cui la pena si fa portatrice – sotteso alla domanda “perché bisogna punire?” –, infatti, esiste un significato descrittivo della pena stessa, correlato alla domanda “perché si punisce?” nei fatti, nella realtà[14]. In quest’ultima direzione, l’interrogativo non trova risposta soltanto nelle norme e nelle tradizionali funzioni della pena, ma in fattori esterni ad esse: simbolismi pedagogici funzionali al contrasto di devianze socialmente avvertite, ansie securitarie, esigenze di controllo, incapacitazione della povertà colpevole, necessità di costruire identità a contrario sulla pelle di un nemico da espellere. 

Non sarà, pertanto, questa ennesima e auspicata modifica delle norme a rimuovere o indebolire l’azione di quei fattori. La costruzione di maggiori spazi di penalità alternativa alla pena carceraria, pertanto, potrebbe agire non in direzione di una diminuzione della penalità penitenziaria, ma lungo l’opposta rotta di un aumento della repressione penale tout court. Si corre il serio rischio di vedere associata all’area della pena carceraria – i cui movimenti di espansione o contrazione tendono sempre di più a rimanere indifferenti alle riforme normative – una sempre più vasta zona di repressione penale extra-penitenziaria (o semi-penitenziaria), con il risultato globale di un aumento complessivo del controllo sociale. È un pronostico facilitato dalla vicenda storica del nostro come di altri sistemi penitenziari: l’implementazione del ventaglio normativo di strumenti alternativi al carcere è stata accompagnata da un logico aumento dei numeri dei soggetti in esecuzione esterna, ma da nessuna significativa riduzione dei tassi di incarcerazione. È stato scritto con chiarezza: «nel 2010 c’erano più di 60.000 detenuti e 30.000 condannati a pene alternative; nel 2019, prima della pandemia, ce n’erano ancora 60.000, mentre – grazie ai lavori di pubblica utilità e la messa alla prova – le misure non detentive sono raddoppiate a 60.000 persone (…). Le misure riparative di comunità come vengono chiamate non incidono – se non forse in misura irrisoria – sulla pena carceraria, non riducono la popolazione carceraria, ma allargano semplicemente la rete di controllo sociale»[15]

Con la nuova disciplina delle pene sostitutive si vanno a consolidare due aree di repressione penale: una che potremmo definire a bassa intensità, comprensiva, oltre che delle sanzioni sostitutive, di tutti i meccanismi sospensivi (anche esecutivi) e di diversion; un’altra, ad alta intensità, nella quale confluiscono le pene carcerarie. Gli esiti della riforma, pertanto, si misureranno dalle direttrici di espansione dell’area a bassa intensità: se sarà in grado di assorbire fenomeni e autori attualmente destinati al circuito ad alta intensità, assisteremo a risultati congeniali al dichiarato spirito riformatore di abbattimento della risposta carceraria. Altrimenti, sarà l’ennesimo déjà vu

Un esempio tratto dalla storiografia giudiziaria minuta – evidenziato anche nella «Relazione finale» della Commissione Lattanzi – può chiarire il senso di quest’ultima affermazione. Nel 2017 la Corte di cassazione si è occupata del tentato furto da un campo di una sola melanzana, chiarendo che il fatto poteva essere qualificato di speciale tenuità e annullando una sentenza di condanna emanata dalla Corte di appello di Lecce[16]. Al di là del caso limite, il rischio concreto è che le nuove pene sostitutive – esattamente come è accaduto con l’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cp), che lascia pur sempre traccia di sé sul certificato del casellario giudiziale[17] – vengano utilizzate per assorbire fatti di scarsa offensività e occultare le patologie di un sistema penale troppo rigido, amplificate da un’interprete altrettanto inflessibile. 

Un sistema, purtroppo, davanti al quale il legislatore ha deciso di voltare le spalle, abbracciando la controversa strada delle priorità dettate dal Parlamento e rinunciando a una seria opera di depenalizzazione. Spetta dunque all’interprete, ancora una volta, farsi carico di indirizzare la riforma sui binari tracciati dai propositi di riduzione della centralità della pena carceraria. 

 

 

1. T. Mann, La Montagna incantata, Corbaccio, Milano, 1992 (ed. or.: 1924; trad. it. di E. Pocar), p. 5.

2. In questo senso G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della “legge Cartabia”, in Sistema penale, 15 ottobre 2021. 

3. Le dichiarazioni si ritrovano, tra l’altro, in T. Carboni, Disposizioni in materia di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, in A. Conz e L. Levita (a cura di), La riforma Cartabia della giustizia penale. Commentario organico alla Legge n. 134/2021, Dike, Roma, 2021, p. 207.

4. Il dato più aggiornato, al momento in cui si scrive, indica un numero di presenze pari a 54.134 al 31 dicembre 2021.

5. Dati aggiornati e preziosi sulla divisione della popolazione detenuta in base all’entità della pena comminata o da scontare si trovano nella Relazione al Parlamento 2021 a cura del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/pub_rel_par.page).

6. La riflessione è di E. Dolcini, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia, in Sistema penale, 2 settembre 2021.

7. Si tratta degli interventi attuati con l. n. 120/2010 e con dl n. 272/2005, convertito con modifiche in l. n. 49/2006. 

8. Sono le parole della Relazione sull’attività svolta dalla Commissione Mista per i problemi della magistratura di sorveglianza nel corso del quadriennio 1998-2002 (testo approvato nella seduta dell’assemblea plenaria del 2 luglio 2003), che si possono ritrovare, unitamente alle altre considerazioni citate nell’articolo, nei Quaderni del Consiglio superiore della magistratura, n. 140, 2004, pp. 55 ss. 

9. La sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nel limite di quattro anni, anche se costituente residuo di pena maggiore, è il portato dell’intervento ortopedico della sentenza Corte cost., n. 41/2018, che ha inciso sull’originario testo dell’art. 656, comma 5, cpp al fine di rendere il termine previsto per la sospensione dell’esecuzione della pena corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, introdotto nell’ordinamento penitenziario (il già ricordato art. 47, comma 3-bis, ord. penit.) dall’art. 3, comma 1, lett. c, dl n. 146/2013, convertito in l. n. 10/2014.

10. Così ancora E. Dolcini, Sanzioni sostitutive, op. cit.

11. Sono i dati forniti dal Ministero della giustizia e precisati nella Relazione finale della Commissione Lattanzi: al 15 aprile 2021, i soggetti in carico agli uffici di esecuzione penale esterna a titolo di semidetenzione erano 2, mentre ammontavano a 104 quelli in carico per esecuzione della libertà controllata (cfr. pp. 64-65).

12. Sono le osservazioni proposte nella riflessione Il destino del carcere, in Fondazione Michelucci (a cura di), Ordine e disordine, Firenze, Nuova Grafica Fiorentina, 2007, ora in F. Corleone (a cura di), Alessandro Margara. La giustizia e il senso di umanità. Antologia di scritti su carcere, opg, droghe e magistratura di sorveglianza, Fondazione Michelucci Press, Fiesole, 2015, p. 159.

13. A. Margara, Quale giustizia? Repetita non iuvant: ancora sulla pena e sul carcere, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 5/2002, pp. 1031 ss., e ora in Questione giustizia trimestrale (formato digitale), n. 2/2015 (Al centesimo catenaccio: 40 anni di ordinamento penitenziario), p. 114, www.questionegiustizia.it/data/rivista/pdf/12/qg_2015-2.pdf. 

14. La distinzione, oltre a interessare la riflessione filosofica sulla pena sin dalle sue origini, è alla base della teoria del garantismo proposta da L. Ferrajoli (da ultimo, in Id., Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016), nonché della metodologia della criminologia critica di A. Baratta e M. Pavarini (per una compiuta sintesi del pensiero di quest’ultimo, comprensiva anche di preziose indicazioni bibliografiche, si rimanda a D. Bertaccini, Fondamenti di critica della pena e del penitenziario. Rielaborazione aggiornata dell’opera didattica di Massimo Pavarini, Bononia University Press, Bologna, 2021). 

15. M. Bouchard, Un’altra idea di sicurezza: politiche per le vittime (prima parte), in questa Rivista online, 19 novembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/un-altra-idea-di-sicurezza-politiche-per-le-vittime-prima-parte. Si tratta di una parte del dialogo svolto con Umberto Ambrosoli a Pesaro il 23 ottobre 2021, in occasione della manifestazione “Parole di Giustizia”.

16. Cass., 2 novembre 2017, n. 12823. Traggo l’esempio, al quale se ne potrebbero aggiungere altri, dallo sferzante commento di G.L. Gatta, La Cassazione e il furto (tentato) di una melanzana: tra tenuità del fatto e patologie della giustizia penale, in Dir. pen. cont., n. 4/2018, pp. 183 ss. 

17. Anche questo istituto è oggetto di modifica rilevante, dal momento che si prevede come limite all’applicabilità dello stesso, in luogo della pena non superiore nel massimo a cinque anni, la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, con contestuale delega a individuare casi in cui l’offesa non potrà essere mai considerata di particolare tenuità. Per determinare la tenuità, inoltre, potranno essere valutate condotte riparatorie successive al reato.