Sulla giustizia riparativa*
Nel contributo si esaminano le molte e complesse questioni che il legislatore delegato dovrà affrontare per costruire percorsi di giustizia riparativa effettivi, autenticamente coerenti con la natura dello strumento e rispettosi delle norme poste a tutela delle vittime di reato.
1. Premessa / 2. Una disciplina organica della giustizia riparativa / 3. La nozione di “vittima di reato” / 4. L’accesso ai programmi di giustizia riparativa / 5. La giustizia riparativa nella fase di esecuzione della pena / 5.1. La complessità dei fattori in gioco / 5.2. La tensione con la finalità rieducativa della pena / 5.3. Quale vittima. La cornice vigente / 5.4. L’affidamento in prova tra “scorciatoie riparatorie” e finalizzazione riparativa / 5.5. Giustizia riparativa e gravi reati / 5.6. Brevi riflessioni de jure condendo / 6. Il consenso libero e informato / 7. Il diritto all’informazione sulla giustizia riparativa / 8. I programmi di giustizia riparativa / 9. Riconoscimento dei fatti / 10. La formazione / 11. I limiti della giustizia riparativa: la vittima surrogata / 12. L’organizzazione della giustizia riparativa / 13. Il finanziamento della giustizia riparativa
1. Premessa
La Ministra della giustizia, nel presentare nel marzo 2021 le «Linee programmatiche» dell’azione del nuovo Governo «sulla giustizia», ha riservato un ruolo di rilievo alla giustizia riparativa. Questo il passaggio d’interesse:
«Non posso non osservare che il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale che stanno mostrando esiti fecondi per la capacità di farsi carico delle conseguenze negative prodotte dal fatto di reato, nell’intento di promuovere la rigenerazione dei legami a partire dalle lacerazioni sociali e relazionali che l’illecito ha originato. Le più autorevoli fonti europee e internazionali ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale.
Non mancano nel nostro ordinamento ampie, benché non sistematiche, forme di sperimentazione di successo e non mancano neppure proposte di testi normativi che si fanno carico di delineare il corretto rapporto di complementarità fra giustizia penale tradizionale e giustizia riparativa. In considerazione dell’importanza delle esperienze già maturate nel nostro ordinamento, occorrere intraprendere una attività di riforma volta a rendere i programmi di giustizia riparativa accessibili in ogni stato e grado del procedimento penale, sin dalla fase di cognizione»[1].
Si dava, dunque, atto che in Italia – per quanto le prime esperienze di mediazione penale risalissero ai lontani primi anni novanta del secolo scorso – si erano realizzate solo alcune, «non sistematiche [,] forme di sperimentazione di successo» di giustizia riparativa. Si è trattato – in effetti – di sperimentazioni basate su alcune previsioni normative generiche, sparse tra ordinamento penitenziario, processo penale ordinario e minorile, nonché nel codice penale.
Nel 2019 il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha, inoltre, avuto cura di elaborare e diffondere delle «Linee di indirizzo in materia di giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato»[2]. Infatti – a seguito del riordino dell’organizzazione del Ministero della giustizia (dPR 15 giugno 2015, n. 84) – sono state attribuite all’Ufficio II della «Direzione generale del personale, delle risorse e per l’attuazione dei provvedimenti del giudice minorile» delle specifiche competenze per la promozione della giustizia riparativa e della mediazione. Si tratta di competenze non riservate alla giustizia minorile perché l’Ufficio II deve coordinarsi – per quanto riguarda gli adulti – con l’Ufficio I della «Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova» (così è stabilito dal dm 17 novembre 2015).
Purtroppo, non è dato sapere quali siano con precisione queste ampie forme di sperimentazione perché il Ministero della giustizia non dispone di statistiche al riguardo né sotto la voce “giustizia riparativa” né sotto quelle di “mediazione penale” o “vittima”.
L’unica ricerca nazionale di una qualche attendibilità è stata fatta dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza sulla mediazione penale e i percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile[3]. Secondo questa ricerca, la maggior parte dei distretti di corte d’appello risulta ospitare un servizio di giustizia riparativa collegato alla giustizia minorile (vds. cartina n. 1, p. 53: si tratta di 21 distretti su 29, comprensivi delle sezioni distaccate di Sassari, Taranto e Bolzano). Ma la ricerca non dà conto del numero e delle caratteristiche dei casi trattati.
Senza un’analisi minimamente attendibile sullo stato dell’arte nella giustizia riparativa è difficile comprendere cosa s’intenda per «mettere a sistema» le esperienze in atto.
La disciplina della giustizia riparativa contenuta nella legge 27 settembre 2021, n. 134 di delega al Governo «per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari» sconta, pertanto, la mancanza di un’analisi precisa delle esperienze, delle esigenze dei diversi attori e, soprattutto, dell’incidenza sul sistema giudiziario dei percorsi e delle misure riparative.
Gli schemi dei decreti legislativi, per quanto riguarda la giustizia riparativa, verranno adottati una volta acquisito il parere della Conferenza unificata Stato - città - autonomie locali - Regioni (art. 1, comma 2), tenuto conto che già oggi i finanziamenti statali – in particolare quelli deliberati dalla Cassa ammende – per la realizzazione di progetti di giustizia riparativa e di mediazione penale transitano nelle Regioni che li promuovono sia attraverso bandi che mediante progettazione partecipata.
2. Una disciplina organica della giustizia riparativa
Il criterio fondamentale cui dovranno ispirarsi i decreti legislativi è stato individuato nella necessità di una disciplina organica della giustizia riparativa. L’organicità dell’opera normativa (art. 1, comma 18, lett. a) dovrà essere soddisfatta attraverso l’inserimento della nozione di giustizia riparativa, l’indicazione dei principali programmi, dei criteri d’accesso, delle garanzie, delle persone legittimate a partecipare, delle modalità di svolgimento dei programmi e valutazione dei suoi esiti. Si tratta di una nuova prospettiva da sviluppare nell’interesse della vittima e dell’autore del reato.
Secondo la legge di delega, la disciplina dovrà essere introdotta nel rispetto delle disposizioni della direttiva 2012/29/UE (di seguito: “direttiva 2012”), che rappresenta il faro europeo per le legislazioni nazionali in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
E qui si pone un primo problema. Nel testo licenziato dalla Commissione Lattanzi[4], i decreti legislativi avrebbero dovuto introdurre questa disciplina organica anche sulla base della direttiva 2012. La questione è rilevante perché la “direttiva vittime” del 2012 non prevede alcuna disciplina della giustizia riparativa ma, trattandosi di una normativa generale rivolta alle vittime, si limita – con l’art. 12 – a precisare che «si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima», perché il percorso di giustizia riparativa – come ogni altro percorso processuale – la può esporre a rischi di vittimizzazione secondaria e ripetuta, a intimidazione e a ritorsioni (comma 1). È, pertanto, corretta la versione definitiva adottata dal Governo, che si preoccupa di garantire le condizioni minime di partecipazione dell’offeso al percorso riparativo. Tuttavia, va fin d’ora segnalato che la legge di delega se, da un lato, si preoccupa di garantire alla vittima sicurezza, consenso libero e informato, possibilità di revoca, informazioni complete e obiettive, riservatezza, dall’altro lato, non richiama la previsione contenuta nell’art. 12, comma 1, lett. c della direttiva 2012: il riconoscimento da parte dell’autore dei fatti essenziali del caso! Ma su questo punto torneremo.
D’altra parte, il testo della legge di delega, nell’indicare le fonti da cui ricavare le caratteristiche della giustizia riparativa, fa espresso riferimento ai «principi sanciti a livello internazionale»: ancorché implicito, è ovvio il riferimento alla raccomandazione del Comitato dei ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale del 3 ottobre 2018 – CM/Rec(2018)8[5]. La raccomandazione (di seguito: “raccomandazione 2018”) ha, tra i suoi obiettivi, proprio la promozione di standard per il ricorso alla giustizia riparativa nel contesto della procedura penale e affinché siano salvaguardati i diritti dei partecipanti e massimizzata «l’efficacia del percorso nel rispondere ai loro bisogni» (art. 1).
Eppure, al di là della diversa efficacia e dei diversi obiettivi tra direttiva 2012 e raccomandazione 2018, occorre porsi un interrogativo. Il richiamo al rispetto della direttiva vittime ha unicamente lo scopo di avvertire il legislatore delegato sulla necessaria salvaguardia dei diritti delle vittime nel percorso riparativo? O, piuttosto, non rivela un’incertezza, se non una incomprensione, sulla funzione riparativa che è insita nelle attività di assistenza alle vittime disciplinate dalla direttiva 2012? Detto in altri termini: la vittima può ricevere riparazione solo all’interno di un percorso riparativo nel contesto della procedura penale o denominiamo “giustizia riparativa” anche l’insieme dei diritti e dei bisogni della vittima che possono trovare riparazione, eventualmente a prescindere da una denuncia (art. 8, ult. comma, direttiva 2012) o, addirittura, dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna, di assoluzione, di non luogo a procedere?
Una disciplina organica dovrebbe far chiarezza sul rapporto che intercorre tra le funzioni tipiche della giustizia riparativa: reintegrativa per l’autore del fatto, di cura per la vittima e risanante per la società. E non vi è dubbio che ogni ordinamento nazionale ha caratteristiche sue proprie nell’assimilare la giustizia riparativa. Qual è il modello italiano?
Non resta che analizzare la legge di delega.
3. La nozione di “vittima di reato”
La lett. b dell’art. 1, comma 18 della legge delega si preoccupa di precisare innanzitutto la nozione di “vittima di reato” perché il d.lgs 15 dicembre 2015, n. 212, attuativo della direttiva 2012/29/UE – nonostante la chiara definizione contenuta nell’art. 2 della fonte europea –, evitò di misurarsi con un concetto giuridico difficilmente assimilabile alle tradizionali posizioni soggettive della “persona offesa” e della “persona danneggiata” dal reato.
In effetti, la direttiva europea non aspirava tanto a innovare sui poteri e le facoltà processuali della vittima perché, sul piano dei diritti alla partecipazione processuale, puntava soprattutto a suggerire una certa uniformità negli ordinamenti dei Paesi membri, fermo restando il rispetto dei principi delle legislazioni nazionali.
L’uso del termine generico “vittima” aveva soprattutto lo scopo di prevedere uno statuto che le riconoscesse, a prescindere da un procedimento penale, un complesso di diritti ben descritti nell’art. 9 della direttiva, sintetizzabili nel concetto di “assistenza”.
Qui il legislatore delegante si propone di introdurre una definizione di “vittima” che riproduce integralmente il testo dell’art. 2 della direttiva, salvo che in un punto: secondo la legge di delega, rientra nella nozione di vittima, specificamente, anche «la parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso» che abbia subito un danno in conseguenza della morte, derivata da reato, del partner che, appunto, viene equiparato al famigliare dell’ucciso. L’inciso permette di estendere la tutela della vittima “indiretta” anche a quelle unioni civili in cui difetta la convivenza, che costituisce, invece, un requisito necessario per le relazioni intime. Per queste, infatti, va accertata la stabilità e la continuità della relazione, elementi da cui, invece, si può prescindere quando l’unione sia stata consacrata in un atto pubblico riconosciuto dalla legge.
Con la piena introduzione nel nostro ordinamento della definizione di “vittima” voluta dalla direttiva 2012, avremo certamente delle ripercussioni nell’interpretazione giurisprudenziale dei poteri e delle facoltà attribuite dalla nostra procedura penale, rispettivamente, ai soggetti indicati come persona fisica offesa o alla persona fisica danneggiata, posto che la direttiva 2012 non riconosce uno statuto vittimario alla persona giuridica. Non è questa la sede per un’analisi di queste conseguenze.
Va, tuttavia, sottolineato come questa definizione permetta l’individuazione e il riconoscimento della vittima anche a prescindere dall’esistenza di un procedimento penale (art. 8, comma 5, direttiva 2012) sotto il profilo del diritto all’accesso ai servizi di assistenza. In altri termini, la vittima esiste per il solo fatto che sia stato commesso un reato, anche se la qualificazione giuridica del fatto non sia stata formalizzata neppure attraverso una denuncia. Certamente non è decisiva l’iscrizione della notizia di reato. Non può, peraltro, mancare il collegamento con una fattispecie astrattamente considerata come reato dall’ordinamento nazionale dello Stato nel quale sia avvenuto il fatto. Ovviamente, in assenza di un procedimento penale lo statuto di vittima non interferisce certo con le garanzie del “potenziale” indagato o imputato.
Il riconoscimento del ruolo di vittima anteriormente all’apertura di un procedimento penale – limitatamente ai diritti di assistenza – ha, però, delle conseguenze sul piano della responsabilità dei soggetti preposti alla tutela della vittima e, eventualmente, dello Stato qualora intervengano delle violazioni rilevanti sul piano dell’integrità fisica o psichica della persona, della sua vita personale e famigliare o, addirittura, nell’ipotesi di trattamenti disumani o degradanti.
4. L’accesso ai programmi di giustizia riparativa
La lett. c esclude che possano esserci limitazioni nell’accesso ai programmi di giustizia riparativa in relazione alla fase o allo stato del procedimento penale, e indica al legislatore delegato la possibilità di offrirli anche durante l’esecuzione della pena. L’accesso ai programmi di giustizia riparativa è tuttavia subordinato all’iniziativa dell’autorità giudiziaria competente. È onestamente impensabile, però, che sia l’autorità giudiziaria ad assumere l’iniziativa nell’offerta di questi “programmi”. Saranno, di volta in volta, gli uffici per l’esecuzione penale esterna e i centri di giustizia minorile, l’équipe di trattamento, nell’ambito delle loro rispettive competenze, o gli stessi difensori delle parti a suggerire o sollecitare la loro preparazione e formulazione. Più che assumere l’iniziativa, l’autorità giudiziaria competente avrà il compito di adottare – previa valutazione di ammissibilità, idoneità e congruità – i provvedimenti che contengono programmi di giustizia riparativa.
È interessante notare, invece, come la legge di delega “apra” la giustizia riparativa all’intero universo penale: non sono ammesse preclusioni né sotto il profilo della fattispecie né sotto quello della gravità del reato. In realtà la concreta applicazione di programmi di giustizia riparativa dipenderà essenzialmente dagli istituti processuali che si prestano ad accogliere dei veri e propri “percorsi” riparativi. Saranno, pertanto, le limitazioni nell’accesso a questi istituti che determineranno l’area di effettivo utilizzo della giustizia riparativa quanto a estensione delle fattispecie criminose e gravità del fatto. Non occorre molto acume per prevedere che la sede naturale dell’esercizio riparativo sarà l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova preclusa, appunto, non solo agli accusati di reati puniti con pena superiore ai sei anni di reclusione ma anche per quei delitti che non «si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore» (comma 22, lett. a).
È indubitabile che, rispetto alle proposte della Commissione Lattanzi, la legge di delega abbia decisamente ristretto le maglie della giustizia riparativa: non solo la soglia di ammissibilità della messa alla prova è scesa da dieci a sei anni di reclusione, ma la soppressione della cd. “archiviazione meritata” ha letteralmente affossato un campo estremamente fertile per l’esercizio di una giustizia pacificatoria in una fase procedimentale aperta all’informalità. È vero che l’archiviazione meritata era condizionata da un limite edittale di pena piuttosto basso (quattro anni di reclusione): ma, considerato il numero rilevantissimo di procedimenti per reati puniti entro quella soglia, l’esecuzione di «prestazioni a favore della vittima o della collettività» avrebbe potuto costituire un epilogo ordinario di tutto vantaggio per l’offeso, l’indagato e la collettività nonché nell’interesse della stessa giurisdizione che avrebbe così sensibilmente ridotto il numero di processi spesso destinati alla prescrizione.
Certamente, nella fase dell’esecuzione della pena – come già accade ora sia pure eccezionalmente – possono intervenire esperienze con detenuti condannati anche per reati gravissimi, promosse da “agenzie” (associazioni, cooperative) specializzate nella giustizia riparativa. Si promuovono incontri tra famigliari di vittime “eccellenti” e autori di crimini terribili spesso incarcerati giovanissimi, capaci di un percorso di profondo cambiamento. Si sviluppano incontri con le scuole, con i giornalisti anche all’esterno del carcere. Spesso l’attività teatrale è all’origine di un intenso lavoro riparativo interiore. Gli esempi si possono moltiplicare ma, allo stato attuale, non abbiamo alcun dato che ci permetta di sapere, soprattutto, quante vittime dirette sono state coinvolte in questi programmi, quale esito ha avuto l’invito al coinvolgimento e l’eventuale incontro con il responsabile del fatto. Temo che i dati, se mai vi fossero, sarebbero sconfortanti e che il concetto di giustizia riparativa copra, in realtà, progetti, iniziative, attività con finalità molto diverse tra loro ma tutte rivolte al vissuto carcerario o alla misura alternativa: di stampo rieducativo, risocializzante, di mitigazione della sofferenza carceraria, di analisi introspettiva del singolo o di gruppo. Non necessariamente riparativo per le vittime.
5. La giustizia riparativa nella fase di esecuzione della pena
L’attuazione della delega in materia di giustizia riparativa deve confrontarsi con un primo, non trascurabile, ostacolo di natura assiologica, dato dal modello stesso di pena voluto dalla Costituzione, che orienta l’esecuzione di tutte le pene alla «rieducazione» del reo, con l’obiettivo di creare le condizioni per il suo recupero sociale (art. 27, comma 3, Cost.).
Se guardiamo a un tale modello dalla prospettiva della giustizia riparativa, appare infatti evidente lo squilibrio attualmente sussistente tra la posizione dell’autore di reato e quella della vittima: mentre per il primo soggetto l’ordinamento appronta un percorso esecutivo interamente governato dalla giurisdizione rieducativa, orientata per espresso dettato costituzionale a favorirne il recupero al consesso sociale anche attraverso benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione (la cui concessione è, in alcuni casi, favorita da progetti di inclusione lavorativa o di housing sociale) – e, se incarcerato, gli garantisce, altresì, un fascio di diritti e facoltà tutelabili davanti al giudice[6] –, la seconda resta invece ai margini del processo, e ancora oggi si fatica a identificare un vero e proprio status per l’offeso dal reato.
Da questo punto di vista, il riferimento della legge delega a una «riforma organica» della giustizia riparativa sembra schiudere alla piena realizzazione – almeno nei suoi fondamentali tratti normativi – di quel necessario equilibrio, oggi assente, tra le componenti della “coppia” autore-vittima: tra le ragioni dell’uno sotto il profilo della risocializzazione e le istanze dell’altra per quanto concerne la riparazione[7].
Strettamente correlata a tale prospettiva riformatrice è quella “rivoluzione copernicana” che dovrebbe portare a un nuovo modo di concepire l’esecuzione della pena, passando dall’attuale modello misto di tipo retributivo/rieducativo a quello fondato sul binomio rieducazione/riparazione, quali valori posti in tendenziale rapporto di equipollenza[8]. Dal tenore dei criteri direttivi dettati dalla delega, si configura, in questa prospettiva, un intervento di ampio respiro, che coinvolge modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, alla legge di ordinamento penitenziario e alle leggi complementari collegate.
5.1. La complessità dei fattori in gioco
Nel momento in cui il legislatore delegato affronterà lo snodo dell’intervento sull’esecuzione penale in chiave di giustizia riparativa, dovrà dunque ricercare la necessaria sintesi tra le prospettive della giustizia riparativa e quelle della risocializzazione del reo nell’ambito delle dinamiche dell’esecuzione penale e penitenziaria, nel tentativo di disinnescare il sempre latente pericolo di trattamenti deteriori per le prospettive di recupero dell’autore di reato che possono originarsi dalla tensione tra l’“effettività della tutela” della vittima e l’impianto costituzionale che vuole, prioritariamente, l’esecuzione della pena volta al recupero sociale dell’offensore.
A fronte di una tuttora insufficiente consapevolezza del significato della giustizia riparativa vi è, infatti, una recrudescenza delle istanze di difesa sociale che promanano da cittadini sempre più impauriti dal rischio criminale, di cui quasi tutti si sentono partecipi e che s’incanala nelle ricorrenti stagioni di politica penale “law and order” senza apparentemente riuscire a produrre delle riforme ispirate ad obiettivi di inclusione e di incontro: soluzioni che vengono sbrigativamente etichettate alla stregua di facili vie di fuga dalla “pena certa” o, piuttosto, dalla “pena esemplare”[9].
Al di là del problema culturale, sta l’esigenza di ripensare il sistema processuale penale nel suo complesso, riequilibrandone l’asse di rotazione rispetto all’attuale focalizzazione sull’imputato/condannato, attorno al quale la vittima assume un ruolo del tutto satellitare, restando sottoposta all’immanente spada di Damocle della vittimizzazione secondaria[10].
In questo scenario manca soprattutto, nella fase dell’esecuzione penale, uno spazio istituzionale che accolga l’ascolto del dolore dell’offeso e che – non limitandosi alla tutela delle mere ragioni risarcitorie – si faccia carico della “cura” del trauma subito dalla personalità della vittima per effetto del reato[11], alla luce di una visione di quest’ultimo come vicenda dinamica che vede coinvolte le relazioni tra le parti e quale evento che ha provocato un danno anche per la società riguardata nel suo complesso.
5.2. La tensione con la finalità rieducativa della pena
L’ingresso della giustizia riparativa nell’esecuzione penale poggia sull’idea che la vittima sia protagonista della vicenda penale, al pari dell’autore del reato. In questo assunto è implicita e – diremmo – naturale la previsione della partecipazione della vittima alla vicenda processuale. E, in effetti, molte fonti extranazionali già prevedono una tale possibilità. Tuttavia, è molto diffusa nella magistratura di sorveglianza la diffidenza verso l’ingresso della vittima nei procedimenti per la decisione sui benefici penitenziari agli autori di reato, per il timore che le istanze degli offesi possano incidere sul pieno sviluppo degli obiettivi di rieducazione e recupero sociale della persona condannata, che potrebbe essere esposta, per l’opposizione della vittima, a fenomeni di vittimizzazione terziaria[12]. Non si tratta certamente di timori infondati e, dunque, la riforma dovrà attentamente disciplinare le forme e le modalità di coinvolgimento dell’offeso o dei suoi congiunti nella fase di esecuzione della pena, così da arginare il rischio che la decisione del giudice relativa al percorso di recupero sociale del reo si trasformi in una sorta di “quarto grado” di giudizio sull’offensore, esposto al bisogno di vendetta della vittima o dei suoi congiunti per l’offesa patita[13].
Da un altro punto di vista occorre, peraltro, osservare che una concezione matura del reato quale vicenda che rappresenta (anche) una relazione tra persone, implica che tale rapporto possa evolversi positivamente nel tempo, soprattutto se i protagonisti sono aiutati a muoversi in questa direzione.
5.3. Quale vittima. La cornice vigente
Nel contesto dell’esecuzione penale appare difficile identificare la “vittima” esclusivamente facendo riferimento al modello della “coppia criminale” victim/offender. Il procedimento di esecuzione penale, infatti, incide non solo sulla persona offesa, ma anche su altre soggettività su cui si esercita la potestà punitiva dello Stato: le donne incarcerate con i figli minori, gli anziani o i malati detenuti, gli immigrati (normalmente privi di quei supporti esterni che consentano l’accesso alle misure alternative), le persone rinchiuse nelle istituzioni segregative psichiatriche[14]. Non possiamo dimenticare, infine, le vittime degli abusi di potere[15].
Come si è già accennato, la Costituzione non menziona espressamente la vittima, il cui status, fino ad oggi, ha trovato piuttosto copertura alla luce degli obblighi internazionali assunti dall’Italia in sede internazionale e della necessaria conformazione del diritto interno a quello eurounitario (art. 117 Cost.).
Il nostro diritto interno, invece, struttura la fase esecutiva scandendo disposizioni in cui la vittima – come si è accennato – assume una posizione ancillare o, addirittura, strumentale alla realizzazione di un interesse pubblico: si pensi, in tema di riabilitazione, alla disposizione dell’art. 179, comma 4, cp, che preclude la concessione della riabilitazione al condannato che non abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato; o all’art. 176, ultimo comma, cp in materia di liberazione condizionale, che espressamente subordina la concessione della misura alla prova dell’assolvimento da parte del condannato delle obbligazioni civili derivanti dal reato e coinvolge il tema del “perdono della persona offesa”, sempre però in chiave di accertamento del requisito legale del «ravvedimento» del condannato[16]. Nell’ordinamento penitenziario, l’art. 27 del regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975, n. 354 (dPR 30 giugno 2000, n. 230) prevede che, nel corso del trattamento penitenziario, gli educatori stimolino nel condannato detenuto «una riflessione (…) sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa».
Recentemente novellato dal d.lgs 2 ottobre 2018, n. 123, l’art. 13, comma 3, l. n. 354/1975 richiama – per la prima volta nell’ordinamento penitenziario – la vittima di reato[17], ma lascia impregiudicata la questione del “come” l’eventuale percorso di giustizia riparativa possa essere valutato in sede di applicazione dei benefici penitenziari. Su tale profilo, l’urgenza di un intervento normativo è evidente alla luce dell’elaborazione della giurisprudenza di vertice che ha già segnalato l’inadeguatezza di prassi riparative non tarate sulla concretezza della vicenda delittuosa (percorsi con vittima a-specifica)[18].
Analoghi profili di incertezza sul piano applicativo si evidenziano nel momento della valutazione finale dell’affidamento in prova del condannato da parte del tribunale di sorveglianza (art. 47, comma 12, ord. penit.), quando il progetto di mediazione sia eventualmente fallito, laddove alcuni orientamenti annettono una valenza negativa all’eventuale insuccesso del percorso di giustizia riparativa. Sotto quest’ultimo aspetto, la riforma dovrà fare chiarezza sui limiti in cui il percorso eventualmente intrapreso potrà essere apprezzato ai fini dell’accertamento del positivo recupero sociale del condannato, soprattutto ponendo attenzione a garantire la libertà della scelta del condannato di accedervi.
Mancando, a tutt’oggi, una cornice normativa entro cui sviluppare le attività di giustizia riparativa, le prassi applicative – anche in sede di esecuzione penale – hanno spesso sofferto di errori o ambiguità nel riferirsi a concetti che possono assumere significati differenti, articolandosi in applicazioni “a macchia di leopardo” e non uniformi sul territorio nazionale. A tali criticità non è riuscita a porre rimedio la circolare del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del 17 maggio 2019, denominata «Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in materia di giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato», la cui applicazione nella fase dell’esecuzione penale ha tuttora carattere sporadico.
5.4. L’affidamento in prova tra “scorciatoie riparatorie” e finalizzazione riparativa
In uno scenario così normativamente scarno dal punto di vista della vittima, la giurisprudenza ha adottato spesso delle “scorciatoie riparatorie”, cercando di valorizzare, con alcune forzature interpretative, la disposizione dell’art. 47, comma 7 dell’ordinamento penitenziario, dettata in tema di affidamento in prova al servizio sociale, che recita, nella formulazione vigente introdotta in seguito alla novella della legge 10 ottobre 1986, n. 663: «nel verbale [delle prescrizioni] deve anche stabilirsi che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato».
È bene premettere subito che tale fenomeno appare più legato a una visione marcatamente retributiva della pena (le misure alternative quali sanzioni vuote di contenuto e “fuga” dalla pena stessa) o, al massimo, a finalità meramente (e impropriamente) “risarcitorie” che alla prospettiva di favorire i percorsi di giustizia riparativa[19].
L’elaborazione nata dalla stagione di “Tangentopoli”, con le condanne ai cd. “tangentisti” che pervenivano ai tribunali di sorveglianza per l’applicazione dell’affidamento al servizio sociale ha, infatti, visto svilupparsi una giurisprudenza spesso animata dall’intento di dare una dimensione concretamente afflittiva all’esecuzione di pena, altrimenti vista come una pena vuota di contenuto.
La casistica relativa ai white collars ha generato parametri specifici per valutare la concedibilità delle misure alternative alla detenzione[20], procedendo da soluzioni di tipo “contrappassistico”, quasi a collegare la prestazione riparatoria imposta al condannato affidato al servizio sociale al reato commesso, così assecondando le istanze di riprovazione sociale, particolarmente avvertite in quel particolare momento storico, a valutazioni sulla resipiscenza rispetto al reato commesso[21] o sul profilo risarcitorio[22].
Se la nomofilachia della Cassazione ha da tempo sancito l’illegittimità di indirizzi orientati alla finalità meramente retributivo/risarcitoria, affermando che la concedibilità della misura non presuppone affatto né la resipiscenza del condannato rispetto ai reati commessi né alcuna forma di risarcimento, essendo sufficiente che il tribunale accerti che la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale possa svolgere meglio che la detenzione in carcere la funzione rieducativa della pena stabilita dall’art. 27 della Costituzione[23], ciò non ha impedito che sia tuttora diffusa nella prassi di merito l’idea che la concessione dell’affidamento sociale debba passare per la prova dell’avvenuto risarcimento dei danni (o della formale assunzione dell’impegno a farlo, resa a verbale). Altri orientamenti, all’opposto, disapplicano la disposizione penitenziaria o stabiliscono l’effettuazione di attività di volontariato sociale “a titolo riparativo” nel caso di accertata impossidenza economica del condannato o di delitti privi di vittima (per esempio, in materia di stupefacenti).
La situazione di vuoto normativo ha portato, in definitiva, la giurisprudenza a indirizzarsi verso obiettivi essenzialmente di tipo retributivo e risarcitorio, trascurando quasi del tutto le potenzialità autenticamente riparative dell’esecuzione della pena, dimenticando – si potrebbe dire – l’ammonimento di un’autorevole dottrina che osservava come il risarcimento del danno non ripara integralmente «perché l’offesa non è solo il danno, c’è anche il disvalore dell’azione, l’offesa è più complessa, quindi il mero risarcimento non ripara integralmente, risarcisce ma non ripara integralmente l’offesa»[24].
Nel momento in cui – a normativa vigente – si vogliano esaminare gli spazi che concretamente si rendono disponibili per l’inserimento dei progetti di giustizia riparativa, si deve riflettere su quali obblighi prescrittivi possano essere legittimamente posti a carico dei condannati ammessi all’affidamento in prova, in rapporto alla garanzia costituzionale di cui all’art. 23 della Costituzione (pericolo di vittimizzazione terziaria), alla luce del principio che il corredo prescrizionale non può essere contrario alla legge, non deve rivestire carattere immotivatamente afflittivo e deve essere finalizzato alla rieducazione del reo e/o a evitare il pericolo di una sua recidiva[25].
Una possibile limitazione all’espansione delle forme di giustizia riparativa nell’alveo dell’esecuzione penitenziaria è, altresì, costituita dall’orientamento – recentemente ribadito – della Cassazione circa la inidoneità, ai fini del giudizio sul recupero sociale del reo, di percorsi riparativi con vittima a-specifica[26].
Una risposta si può desumere dal coordinato disposto delle già ricordate disposizioni di cui agli artt. 13, comma 3, ord. penit., e 27 reg. esec., nel senso che tali norme risulterebbero prive di senso se non fossero sistematicamente orientate a fornire il sostrato a un’esecuzione penale extramuraria fondata su un avviato percorso di revisione critica da parte del condannato, che inevitabilmente – come ci sembra – implica l’accettazione, il “riconoscimento” della vittima in quanto tale da parte del condannato.
Su tale premessa, l’affidamento in prova sembra un “contenitore” potenzialmente idoneo a sostenere percorsi di giustizia riparativa, beninteso “in quanto possibile” (art. 47, comma 7, ord. penit.). Come è stato correttamente osservato[27], in una prospettiva ispirata alla riparazione ciò deve valere sia dal punto di vista del reo che di quello della vittima. Per il condannato, l’“in quanto possibile” non dovrebbe intendersi come riferito al solo aspetto delle possibilità economiche del reo, bensì a qualsiasi forma di sostegno morale o materiale in concreto realizzabile in favore della vittima.
L’apprezzamento di tale delicato profilo (e della eventuale inesigibilità), affidato al giudice di sorveglianza, si fonda essenzialmente sugli atti osservativi o sulla relazione sociale redatta dall’UEPE. L’attuazione della delega comporterà, dunque, la necessaria integrazione di tali fondamentali atti istruttori con l’indicazione degli elementi utili all’accertamento della disponibilità del condannato alla riparazione, al percorso di elaborazione interiore, al riconoscimento della vittima inteso anche come contributo a quel “diritto alla verità” già affermato in molte fonti extranazionali, a evitare che la riparazione si traduca in una mera apparenza o in un rapporto contrattualistico ispirato a una logica sinallagmatica del do ut des, dove il percorso di mediazione è ridotto a pratica burocratica strumentalmente finalizzata alla positiva “chiusura della pratica”[28].
Come si è visto, l’esperienza maturata con riguardo alle misure alternative applicate ai white collars è indicativa di tale fenomeno di marginalizzazione del profilo più autenticamente riparativo, che lascia spazio a prescrizioni restitutorie di tipo risarcitorio (anche nella forma di dazioni pecuniarie in favore di enti o istituzioni pubbliche) ovvero riparatorie (quali la prestazione di volontariato), calibrate sull’accertamento della concreta praticabilità di taluna di esse.
Questioni altrettanto problematiche riguardano le misure alternative applicate ai soggetti condannati per crimini sessuali, per maltrattamenti e stalking[29]. In questi casi, gli ostacoli a un percorso di mediazione sono legati sia alla difficoltà che spesso si incontra nell’ottenere la disponibilità della vittima (che comprensibilmente vive ogni occasione di contatto con l’agente in modo traumatico), sia alla relativa carenza di precedenti o prassi consolidate[30].
Se ci si pone dall’angolo visuale della vittima, la progettualità riparatoria è condizionata dallo sforzo che l’offeso deve compiere – spesso a molti anni di distanza dai fatti e dopo avere affrontato la sofferenza del processo (ed essersi magari sentito solo un mezzo per l’accertamento della verità processuale) – per accedere a un ulteriore coinvolgimento con il sistema giudiziario, sia pure per finalità riparative.
Sotto tale profilo, è necessario che la riforma strutturi la presa in carico istituzionale della vittima, nei cui confronti è necessaria un’attività di informazione, ma anche di attenta e sensibile “formazione”, in preparazione del percorso riparativo.
Tale servizio pubblico dovrà farsi carico del contatto con la vittima secondo protocolli idonei anche a verificare la libertà e consapevolezza dell’eventuale adesione dell’offeso ad accettare un percorso riparativo e, per altro verso, a consapevolizzare l’offeso sul significato e i contenuti della mediazione, anche a evitare i pur sempre latenti rischi di vittimizzazione terziaria che potrebbero sorgere per la strumentalizzazione del percorso riparativo da parte della vittima sulla base del possibile intento vendicativo rispetto all’imputato/condannato.
5.5. Giustizia riparativa e gravi reati
Sempre sul versante dell’esecuzione penale, un profilo di estrema delicatezza è, inoltre, costituito dal tenore della direttiva di delega che destina i percorsi di giustizia riparativa alla generalità degli imputati e dei condannati, senza alcuna preclusione con riguardo alla tipologia e gravità dei reati commessi[31]. Si tratta, naturalmente, di un principio ineccepibile sul piano astratto, ma di complessa articolazione sul terreno operativo, soprattutto con riguardo a particolari reati – in primo luogo, i delitti di mafia e criminalità organizzata – ove occorre predisporre modelli e protocolli operativi che assicurino la genuinità del consenso prestato da tutte le parti al progetto riparativo e minimizzino il rischio di vittimizzazione reiterata e secondaria.
Per gli autori di reati connessi al fenomeno mafioso si pone, in particolare, l’esigenza di contemperare la praticabilità di percorsi riparativi con il contenuto della già evocata direttiva 2012, che – tra le altre condizioni – prevede, all’art. 12, lett. c, che l’autore del reato abbia «riconosciuto i fatti essenziali del caso», senza contare che esiste ed è stato affermato nell’ambito delle Nazioni Unite il “diritto alla verità” spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali. L’impegno di contribuire alla realizzazione del diritto alla verità posto quale precondizione ai percorsi di giustizia riparativa si pone, evidentemente, in termini fortemente dialettici rispetto alle problematiche poste dal dictum affermato dalla sentenza costituzionale n. 253/2019, che – superando un precedente orientamento – ha scollegato la possibilità di accesso ai benefici penitenziari (quali, in primo luogo, i permessi premio) dei condannati per delitti “ostativi” (art. 4-bis ord. penit.) dal requisito della positiva collaborazione con la giustizia (art. 58-ter ord. penit.), salva la ricorrenza delle ipotesi di collaborazione impossibile o “inesigibile”[32].
5.6. Brevi riflessioni de jure condendo
Sul piano generale, è possibile riflettere sull’opzione di introdurre – magari solo per talune specifiche tipologie di reati – nuove tipologie di sanzioni penali quali “modalità di esecuzione della condanna alternativa” sia alla pena tradizionalmente intesa, sia alle stesse misure alternative disciplinate dalla legge di ordinamento penitenziario, così modellando una tipologia di pena che rappresenti una concreta alternativa ai profili retribuzionistici della pena detentiva e a quelli correzionalistico-rieducativi delle misure alternative per massimizzare, invece, la finalità riparativa.
Al netto di tale prospettiva riformatrice, è possibile pensare anche all’assetto della disciplina esecutiva tradizionale imperniata sul binomio carcere/misure alternative, come a un ambiente favorevole allo sviluppo della restorative justice[33].
Nell’ambito dell’esecuzione in forma alternativa alla detenzione, si potrebbero infatti introdurre prescrizioni riparative, quantomeno nell’affidamento in prova e nella liberazione condizionale[34], restando fermo che la valutazione sull’esito delle misure deve avvenire esclusivamente sulla base del grado di reinserimento sociale del reo, non certo dell’esito della eventuale mediazione o del percorso riparativo.
Tale possibilità dovrebbe, in ogni caso, rispettare il principio del libero accesso delle parti al percorso di mediazione (così che non sarebbe conforme allo spirito della giustizia riparativa un intervento sull’art. 47, comma 7, ord. penit. che imponesse come obbligatorio l’esperimento di percorsi di mediazione); né si può pensare che tali esperienze possano estendersi con le medesime modalità applicative a tutti i tipi di reato e a tutte le fattispecie concrete[35], restando indispensabile che la gestione dei percorsi e delle dinamiche che ad essi sono correlate sia affidato a soggetti adeguatamente formati, in grado di valutare con la necessaria professionalità le molteplici peculiarità del singolo caso.
6. Il consenso libero e informato
Il programma di giustizia riparativa presuppone il consenso libero e informato tanto della vittima quanto dell’autore. Questo è, probabilmente, uno dei punti più delicati che dovrà essere affrontato dai decreti legislativi nella definizione dei requisiti essenziali del programma stesso.
I programmi di giustizia riparativa sono noti e applicati da tempo anche in Italia: prima nella giustizia minorile e poi, con una crescente estensione, nella giustizia degli adulti a partire dal 2014, con l’introduzione della messa alla prova.
Non è un mistero, però, che gli operatori dei servizi per l’esecuzione penale esterna – oltre ai problemi organizzativi e di personale che li affliggono – trovano estrema difficoltà a contattare le vittime, mentre il coinvolgimento libero e informato dell’accusato (o, più raramente, del condannato) è agevolato da un suo preciso interesse: il percorso riparativo gli offre sempre, in prospettiva, un qualche beneficio. Le difficoltà nel contattare le vittime dipendono proprio dal fatto che, almeno allo stato attuale dell’arte, i dispositivi in grado di attivare un programma riparativo sono tutti interni al procedimento penale, normalmente sollecitati dalla difesa in vista di misure alternative o, soprattutto, di una dichiarazione di estinzione del reato stesso. Non è previsto un dispositivo che favorisca un’attivazione della vittima nel richiedere riparazione o, comunque, un comportamento riparativo da parte del responsabile del fatto.
Era stato salutato con favore l’istituto dell’archiviazione meritata[36], proposta dalla Commissione Lattanzi, perché avrebbe permesso una risposta immediata alle istanze riparatorie delle vittime anche attraverso il coinvolgimento di servizi dedicati alla loro assistenza, purché strutturati e diffusi, come avviene nella maggior parte dei Paesi europei. In quel contesto, la ricerca del coinvolgimento della vittima avrebbe certamente potuto dare ottimi frutti. Purtroppo il Governo – ostaggio di una concezione della giustizia “mite” come sintomo di debolezza – ha fatto la scelta di depennare questo istituto chiave per una funzione riparatoria delle vittime, relegando i programmi riparativi nell’alveo della messa alla prova e dell’eventuale fase esecutiva.
7. Il diritto all’informazione sulla giustizia riparativa
Secondo la lett. d, i decreti legislativi dovranno prevedere specifiche garanzie per l’accesso ai programmi di giustizia riparativa.
Tra queste garanzie si indica la completa, tempestiva ed effettiva informazione tanto verso l’autore quanto verso la vittima circa «i servizi di giustizia riparativa disponibili», ovviamente, con tanto di assistenza linguistica per le persone alloglotte. Su come realizzare un’informazione completa, tempestiva ed effettiva il sistema giudiziario è maestro nel trovare soluzioni tanto formalmente rispettose del dettato legale quanto inefficaci. Completezza ed effettività dipendono esclusivamente dalla possibilità che autore e vittima possano contare su un colloquio con un operatore competente. Mentre nell’incontro generico tra cittadino/utente e sistema giudiziario molto dipende dalla cura dei siti internet e dall’organizzazione dell’URP, in questo caso la vera garanzia per un’informazione efficace è data, per l’autore, dalla competenza del personale giudiziario, degli UEPE, dell’avvocatura (art. 19 raccomandazione 2018) e, per la vittima, dall’esistenza di servizi specifici per la loro assistenza: servizi che, al momento attuale, sono una rarità.
Sempre secondo la raccomandazione 2018, è il facilitatore che informa compiutamente le parti sui loro diritti, la natura del percorso di giustizia riparativa, le possibili conseguenze della loro decisione di partecipare e i dettagli delle procedure di reclamo.
8. I programmi di giustizia riparativa
I decreti legislativi dovranno descrivere programmi rispondenti all’interesse della vittima, dell’autore e della comunità.
Credo che questa sia la parte più difficile del lavoro che impegnerà il Governo.
Per fare una seria riflessione occorre prendere le mosse dal lavoro di Grazia Mannozzi[37], già coordinatrice del Tavolo 13 degli Stati generali dell’esecuzione penale e membro della Commissione Lattanzi.
Secondo Mannozzi, il catalogo di questi programmi dipende molto dalla concezione e dalla definizione di “giustizia riparativa” che si vuole assumere. Il criterio migliore per stabilire l’appartenenza alla “classe riparativa” del programma dovrebbe essere ispirato alla proposta di Joanna M. Shapland[38], secondo cui devono essere soddisfatti quattro requisiti:
- carattere inclusivo-partecipatorio, derivato soprattutto dall’esperienza anglosassone dei restorative circles e dei peacemaking circles;
- gestione delle emozioni e delle conseguenze del conflitto o del reato indipendentemente dalla gravità oggettiva del fatto in base a scale sanzionatorie formalizzate;
- orientamento alla soluzione del conflitto e alla gestione del futuro;
- costruzione del capitale sociale nelle forme della reintegrazione del reo.
Il modello riparativo trova la sua massima espressione nei programmi che generano effettivamente il dialogo tra le parti, eventualmente allargato alla cerchia dei più prossimi o, addirittura, a esponenti della società civile e delle istituzioni.
È da rilevare come le esperienze fin qui condotte in applicazione dei principi della giustizia riparativa facciano dubitare della fondatezza di uno dei capisaldi del modo riparativo di rispondere al crimine: si intende dire che l’aspirazione a coinvolgere le parti per una loro partecipazione nel percorso riparativo è condizionata da una lettura sociologica del reato che non è convincente. Certamente, la giustizia riparativa ha avuto il merito di squarciare il velo dell’astrattezza delle fattispecie, delle logiche procedurali e della contabilità punitiva, proponendo la dovuta attenzione alle dinamiche relazionali e alla necessità di concepire anche un’opera ricostruttiva delle fratture sociali e interpersonali. In questa prospettiva si è, però, finito per sviluppare un’equazione tra reato e conflitto che tende a ricreare un nuovo velo sulla realtà dell’offesa. Il reato può certamente essere l’esito di un conflitto così come può essere all’origine di uno sviluppo conflittuale. Ma non è un conflitto. Il reato è sempre un atto che determina un’asimmetria: vittima e autore non riposano su uno stesso piano né sullo stesso piano va collocata quella che, con troppa enfasi, viene indicata con il nome di “comunità”.
Forse è più corretto – come, d’altra parte, suggerisce sempre Mannozzi[39] – ipotizzare una “scala progressiva” di programmi riparativi anziché dei modelli puri. In altri termini, bisognerebbe pensare a programmi che sviluppano componenti riparative adattabili all’istituto processuale, alla fase e, eventualmente, anche al tipo di sanzione. Le Linee di indirizzo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità fanno proprio questo schema ed equiparano i programmi agli strumenti di giustizia riparativa per suddividerli in quattro gruppi:
a) mediazione autore-vittima; qualora non sia possibile un incontro diretto tra le parti per l’indisponibilità della vittima – osservano le Linee di indirizzo – si ricorre a un sostituto (vittima aspecifica o surrogata, ovvero di un altro reato lesivo del medesimo bene giuridico);
b) scuse formali, spesso contenute in uno scritto;
c) incontri tra vittime e autori di reati analoghi a quello subito attraverso forum guidato da un facilitatore: incontri «all’interno dei quali un gruppo ristretto di vittime aspecifiche (4 o 5 al massimo) rappresenta ad un piccolo gruppo di autori di reato (dello stesso tipo) – diversi da coloro che hanno commesso i reati nei loro confronti – gli effetti dannosi ed i riflessi sulla loro esistenza e su quella dei famigliari o anche della comunità di appartenenza derivanti dalla commissione del reato»[40];
d) incontri di mediazione allargata / gruppi di discussione: anche qui un facilitatore/mediatore guida un dialogo esteso ai gruppi parentali e/o del territorio nella prospettiva di un governo collettivo del conflitto.
In realtà, questa catalogazione fa coincidere i programmi di giustizia riparativa con una logica dialogante perché alla base dei quattro strumenti-tipo vi è, appunto, l’incontro tra le parti, vere o fittizie, di un conflitto la cui veste giuridica appartiene a una fattispecie penalmente rilevante. Purtroppo, è lo stesso schema a denunciare il limite del suo fondamento: perché ricorrere a vittime surrogate se non per ammettere che la giustizia riparativa concepita solo come dispositivo dialogico – risvolto negativo del reato come conflitto – non raggiunge proprio il soggetto che, invece, si vorrebbe valorizzare?
Sarebbe forse molto più utile – e anche più semplice, in una prospettiva legislativa – fare ricorso, almeno in Italia, a tre modelli riparativi fondamentali: quello del dare, attraverso la riparazione materiale delle restituzioni e del risarcimento; quello reintegrativo, attraverso il fare, l’attività socialmente utile, il lavoro di pubblica utilità, e il dire, attraverso il dialogo, l’incontro anche a distanza delle parti. Ognuno di questi tre modelli si articolerà in programmi il cui contenuto riparativo sarà più o meno efficace in ragione della capacità riparativa dei soggetti coinvolti.
In ogni caso, il contenuto proprio della giustizia riparativa dipenderà dal lavoro in profondità degli operatori tanto sul lato dell’autore quanto sul lato della vittima. Tuttavia, difficilmente potremo parlare di una giustizia riparativa senza garantire alle vittime il riparo che deriva dall’assicurare loro informazione, assistenza, protezione.
9. Riconoscimento dei fatti
Sempre secondo la lett. d, rientrano tra le garanzie la possibilità di ritirare il consenso al percorso riparativo e, soprattutto, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale e nel corso dell’esecuzione. Ovviamente viene fatto salvo il diverso consenso delle parti o la necessità di evitare la commissione di reati o, addirittura, il caso in cui la dichiarazione integri di per sé reato.
Qui si contrappongono due esigenze che riguardano principalmente l’accusato e, in misura minore, il condannato. Il percorso riparativo deve essere in qualche modo uno spazio “franco”, esterno al processo, idoneo a garantire senza rischi la manifestazione delle emozioni, la piena e genuina narrazione dei fatti e delle circostanze che le parti ritengono meritevoli di condividere. È solo in un ambiente intimo e confidenziale che le parti possono liberamente esprimere la propria verità ed, eventualmente, ricostruire una comune verità, accettabile per entrambi. D’altra parte, la ricerca della parresia espone la voce narrante a un successivo uso svantaggioso delle dichiarazioni se non addirittura del comportamento tenuto nello spazio riparativo. Per questo il legislatore delegato dovrà prevedere l’inutilizzabilità nel procedimento penale e nella fase esecutiva di tutte le dichiarazioni rese nel corso del programma riparativo.
La legge delega non affronta, però, la questione fondamentale del rapporto tra procedimento penale e percorso riparativo: secondo la raccomandazione 2018, il «punto di partenza per un percorso di giustizia riparativa dovrebbe essere generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda» (art. 30)[41]. Non vi è dubbio che la partecipazione al programma riparativo non può essere utilizzata come prova dell’ammissione di colpevolezza. E, tuttavia, è del tutto in contrasto con la prospettiva riparativa una strategia processuale fondata sulla negazione dei fatti o su un’affermazione di estraneità da parte del presunto autore o del condannato. Il lessico utilizzato dalla raccomandazione 2018 è certamente molto generico e, in ogni caso, l’introduzione del “riconoscimento dei fatti principali” tra i requisiti di ammissione al percorso riparativo è esposta all’eccezione di incostituzionalità per eccesso di delega. Sarà, pertanto, l’agire concreto degli operatori e della magistratura in particolare a garantire coerenza e ad evitare strumentalizzazioni delle misure riparative.
Quali sono le conseguenze sul processo e sulle parti degli esiti del programma riparativo? L’esito favorevole deve poter essere valutato (si osservi: «positivamente») sia nel procedimento penale sia nel corso dell’esecuzione della pena. Per contro, l’impossibilità della sua attuazione o il fallimento non devono ritorcersi contro gli interessi della vittima o dell’autore. In altri termini, l’attività riparativa può incidere sul processo solo a favore delle parti. La raccomandazione 2018 precisa che i rapporti del «facilitatore» (così viene chiamato l’operatore preposto al programma riparativo) «non dovrebbero rivelare i contenuti delle discussioni tra le parti, né esprimere alcun giudizio sul comportamento delle parti durante il percorso di giustizia riparativa» (art. 53). Fin dagli albori dell’uso della mediazione penale nella giustizia minorile si è affrontato questo spinoso argomento. I mediatori sono sempre stati gelosi della loro estraneità alla logica processuale e hanno storicamente rivendicato la necessità di non pregiudicare la loro funzione con incarichi valutativi – se non addirittura giudicanti – della condotta delle parti. Per contro, i giudici minorili hanno spesso rivendicato, a loro volta, la loro missione istituzionale, tesa ad accertare non solo dei fatti ma anche la personalità dei giovani individui. Pare fuor di dubbio che, nel processo penale ordinario, la valutazione del mediatore (o del facilitatore) debba attenersi rigorosamente all’indicazione dell’esito – positivo o negativo – del programma riparativo. Per l’adulto, infatti, non v’è alcuno spazio per l’indagine personologica penale: a meno che si tratti di patologie incidenti sulla capacità d’intendere e di volere dell’accusato.
Una disciplina organica della giustizia riparativa dovrà affrontare lo scoglio dell’esecuzione penale. Se, da un lato, in quella fase è escluso il latente conflitto con la presunzione d’innocenza che deve connotare la cognizione, dall’altra le istanze riparative rivolte o proposte al condannato rischiano di presentarsi come un supplemento di afflittività anziché come apertura verso una riduzione dei sentimenti d’ingiustizia.
I decreti legislativi dovranno, pertanto, chiarire gli esatti confini dei programmi riparativi e in quale misura l’esito positivo influirà sui benefici penitenziari, dovendosi fin d’ora escludere che l’esito negativo (tanto più per fatto non rimproverabile al richiedente) possa, per contro, danneggiare il condannato poiché la finalità riparativa deve essere disgiunta da quella rieducativa.
10. La formazione
La lett. f affronta il nodo della formazione del mediatore nonché dei requisiti e dei criteri per l’esercizio dell’attività professionale del mediatore, nonché le modalità del loro accreditamento.
Ancora una volta va osservato come la legge di delega non abbia tenuto conto della raccomandazione 2018, che non prende in considerazione la figura del mediatore. Nella raccomandazione non compare il termine “mediatore”, ma quello di “facilitatore”. Il «facilitatore» – così recita il documento europeo – è «un soggetto terzo e imparziale» che aiuta le persone che subiscono un pregiudizio a seguito di un reato e i responsabili del pregiudizio stesso a «partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito» (art. 3). È il facilitatore che informa le parti dei loro diritti, della natura del percorso riparativo, delle conseguenze che derivano dalla loro partecipazione e dei dettagli delle procedure di reclamo (art. 25). Nel trattare il caso, il facilitatore dovrebbe essere informato di tutti i fatti rilevanti della vicenda (art. 33); dovrebbe, addirittura, «essere in grado di intercettare la vulnerabilità» delle parti e interrompere eventualmente il percorso al fine di evitare loro un possibile pregiudizio.
Nei lavori preparatori e, in particolare, nella «Relazione finale» della Commissione Lattanzi, non vengono citate le «Linee di indirizzo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità in materia di Giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato»[42], pubblicate nel 2019. In esse troviamo una distinzione tra il «facilitatore della Giustizia», vale a dire una figura professionale che ha maturato un alto profilo d’esperienza nel contesto dei servizi minorili e/o dell’esecuzione penale adulti, e il «mediatore», intesa come figura competente in materie socio-umanistiche, pedagogiche e psicologiche con conoscenze in area giuridica, specificamente formata nella materia della risoluzione dei conflitti in area penale, con adeguata esperienza nel trattamento di casi. Molti anni fa, senza umorismo alcuno, il mediatore veniva paragonato ad Arlecchino per la molteplicità delle conoscenze richieste.
Questa distinzione viene fatta per precisare che l’attività di mediazione vera e propria – che implica il contatto diretto con la vittima e l’autore – è riservata a mediatori penali. Il facilitatore realizza ogni altro programma riparativo e ha funzioni essenzialmente socio-educative. Le Linee di indirizzo sembrano escludere che il ruolo di mediatore posse essere affidato a «operatori della giustizia» e, proprio per questo, i programmi di giustizia riparativa «possono essere gestiti anche in convenzione con enti terzi»[43]. Il personale dei servizi della giustizia minorile e dell’esecuzione penale esterna potrà essere impegnato per tutti quei programmi riparativi che non contemplino la mediazione autore-vittima: si fa espresso riferimento alla «riparazione rivolta alla comunità, ai programmi di sostegno alle vittime e ai testimoni, ai percorsi di sensibilizzazione rivolti agli autori di reato, ai circoli di supporto e di responsabilità, ai progetti che coinvolgono le famiglie degli autori di reato o altre vittime di reati».
In conclusione: la raccomandazione 2018 prevede e disciplina la figura del facilitatore come comprensiva di quella, più specialistica, del mediatore. Le Linee di indirizzo del 2019 del Dipartimento di giustizia minorile e di comunità distinguono le due figure. La legge delega “riconosce” solo la figura del mediatore. E questo è un bel problema, di cui dovrà occuparsi il legislatore delegato: quali saranno i tratti caratteristici dell’operatore impegnato nei programmi di giustizia riparativa, i suoi requisiti, la sua formazione, le discipline scientifiche che gli verranno impartite, la sua esperienza di base?
11. I limiti della giustizia riparativa: la vittima surrogata
L’impostazione del legislatore delegante – concentrata sul ruolo del mediatore – rivela un equivoco ricorrente nei cultori della giustizia riparativa: che il reato sia in fondo la rappresentazione legale di un conflitto di rilevanza penale. In realtà, il reato in sé è sempre un evento/condotta asimmetrico che, certamente, può essere originato da un conflitto o può esitare in una dinamica conflittuale. Ma a volte il conflitto è del tutto estraneo al reato, soprattutto quando non ci sono vittime in senso stretto o le vittime sono del tutto interscambiabili, come nei fatti di terrorismo o nei crimini d’odio.
Il rischio più grave sta, in realtà, nella difficoltà – ben nota agli operatori che praticano la giustizia riparativa – di intercettare le vittime dirette e nel rimedio che viene proposto. La giustizia riparativa – si sostiene – si realizzerebbe, innanzitutto, grazie alla mediazione e all’incontro volontario tra le parti. In caso di rifiuto della vittima, sostengono autorevolmente Mannozzi e Lodigiani[44], è possibile attivare «un percorso di mediazione anche con una vittima aspecifica o surrogata. Questo consente all’autore di reato di avviare comunque un percorso di mediazione e non di rado porta benefici per entrambe le parti».
Nella pratica, queste affermazioni si traducono nella possibilità di qualificare come espressione della giustizia riparativa programmi e misure che prescindono completamente dall’incontro e dal dialogo tra le parti. E poiché sappiamo che questo incontro è del tutto marginale ed eccezionale nella realtà, proprio perché manca completamente il supporto alle vittime che possa valorizzarne la disponibilità, diventa estremamente complicato stabilire quali caratteristiche qualifichino come “riparativi” i programmi e le misure che vengono adottati nella giustizia penale.
Non pare, però, che si possa parlare di giustizia riparativa per le vittime quando si faccia ricorso alle vittime cd. “aspecifiche” o “surrogate”. Questi dispositivi ripropongono una dinamica “sostitutiva” tipica della giustizia tradizionale – dove il ruolo di offeso è sostituito dall’accusa pubblica – e rivelano una cultura fondamentalmente “reocentrica”, che contrasta con la filosofia riparativa. La costituzione di parte civile e il limitato ruolo riconosciuto alla persona offesa in quanto tale non restituiscono alla vittima la piena rappresentazione di sé (né è augurabile che vi sia) in un processo che poggia su un delicato equilibrio tra potere punitivo e sistema di garanzie per l’accusato. Ma qui il ruolo sostitutivo ha una logica precisa: garantire al potere statale il monopolio della violenza legittima e interrompere la spirale vendicativa.
I dispositivi sostituivi ammessi nella giustizia riparativa rivelano, invece, un limite che contraddice la sua ragion d’essere: un approccio ideologico che antepone l’auspicabile prospettiva del dialogo all’esigenza primaria del riconoscimento dell’offesa e, soprattutto, dell’offeso. Non è concepibile un dialogo fondato sul disconoscimento dell’una e dell’altro.
La vittima aspecifica o surrogata non fa che confermare la vittima nel suo ruolo più antico e tragico, proprio della dinamica sostitutiva del sacrificio. Si prende una vittima disponibile – dunque sacrificabile e complice – per mettere a tacere il sentimento d’ingiustizia espresso dalla vittima reale e per permettere al responsabile di guadagnare il beneficio promesso dal dispositivo riparativo. Possiamo ancora riconoscere in una tale dinamica sostituiva una funzione riparativa? Può essere riparativo ciò che non è stato per nulla riparato? Una riparazione unilaterale non è un’aperta violazione del principio affermato in sede di definizione della giustizia riparativa?
Una delle norme di diretta applicazione della direttiva 2012 (art. 12) stabilisce che le misure che garantiscono la protezione delle vittime dalla vittimizzazione secondaria si applicano anche nel caso in cui la vittima scelga di partecipare a procedimenti di giustizia riparativa. La norma precisa che una delle condizioni di accesso ai servizi di giustizia riparativa consiste proprio nel fatto che tale accesso sia effettuato nell’interesse della vittima e sulla base del suo consenso libero e informato. Ma se manca il suo consenso siamo ancora nel campo della giustizia riparativa? È giustizia riparativa un percorso nel quale l’adesione della vittima non è stata ottenuta o – il che è lo stesso – sia frutto di una coercizione o di un vizio nella manifestazione della sua volontà?
Non sarebbe equo un processo che accerti una verità giudiziaria senza tener conto o, addirittura, senza assumere la parola dell’offeso.
Occorre allora una maggior consapevolezza sui rischi di vittimizzazione secondaria, che non sono esorcizzati dalla sola buona volontà di perseguire obiettivi di riscatto sociale. La vittimizzazione secondaria è il rischio tipico cui l’offeso si espone, nel tentativo di ridurre i propri sentimenti d’impotenza, rivolgendosi proprio a coloro che – famigliari, associazioni, istituzioni – hanno per natura, vocazione o compito legale lo scopo di proteggere o, quantomeno, di occuparsi della vittima.
12. L’organizzazione della giustizia riparativa
La questione delle figure professionali chiamate a predisporre e realizzare i programmi di giustizia riparativa introduce quella del “governo” dei relativi servizi. La lett. g affida quel governo a «strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia», una – almeno – per ogni distretto di corte d’appello. Per lo svolgimento dei programmi, queste strutture potranno avvalersi di mediatori esperti accreditati presso il Ministero della giustizia.
La scelta di individuare la regia dei programmi di giustizia riparativa nelle «strutture pubbliche facenti capo agli enti locali» mette in discussione le indicazioni attuali del Ministero, che attribuiscono al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità un potente ruolo direttivo che si esprime attraverso compiti di indirizzo, coordinamento, monitoraggio e valutazione di dati, protocolli e progettualità territoriali (vds. p. 7 delle Linee). Il raccordo con l’amministrazione centrale, nelle Linee d’indirizzo, è rafforzato dalla rete dei «referenti» nominati – non dagli enti locali ma – dai centri di giustizia minorile e dagli uffici interdistrettuali dell’esecuzione penale esterna. In particolare, sono i «referenti regionali-interdistrettuali» che attuano a livello locale le direttive del Dipartimento.
Per quanto la legge delega mantenga una certa indeterminatezza (e la relazione della Commissione Lattanzi non è d’aiuto sul punto – vds. p. 73), sembra abbastanza evidente che si fronteggiano due culture organizzative della giustizia riparativa: l’una valorizza, attraverso l’ente locale, il territorio, la prospettiva reintegrativa dell’autore nella comunità e – si potrebbe aggiungere – una seria attenzione verso le vittime; l’altra predilige la ricerca dell’uniformità dei programmi a livello nazionale e valorizza la struttura esistente dei servizi di giustizia minorile e degli uffici dell’esecuzione penale esterna, da tempo sensibilizzati alla giustizia riparativa.
È da ritenere che non si possa prescindere da un coordinamento e, se vogliamo, anche dall’impulso da parte dell’amministrazione centrale. Il Ministero della giustizia, attraverso le esperienze maturate nella giustizia minorile e i suoi rapporti con l’estero, ha ormai una buona cognizione della giustizia riparativa e non è mancata una discreta attività formativa piuttosto diffusa tra gli operatori sul valore della riparazione e sul rispetto della vittima. Per contro, gli enti locali hanno minore dimestichezza con i percorsi giudiziari che ospitano programmi di giustizia riparativa. Hanno incombenze istituzionali prevalenti sul versante dell’educativa per i minorenni autori di reato, del reinserimento sociale dei detenuti o nell’offrire opportunità lavorative agli accusati sottoposti a una messa alla prova. Ma non hanno, ovviamente, alcuna competenza nella predisposizione di programmi di utilità sociale innestati su procedimenti giudiziari. Tutt’al più, si tratta di una competenza condivisa con le articolazioni periferiche del Dipartimento di giustizia minorile e di comunità.
A livello locale, però, il terzo settore e i servizi socio-sanitari conoscono bene le esigenze riparative delle vittime che a loro si rivolgono per le cure fisiche e psichiche dei danni derivanti da fatti illeciti.
Una disciplina organica della giustizia riparativa non può prescindere da un disegno organizzativo che unisca servizi di cura e servizi giudiziari, pubblico e privato, centro e periferia.
Nelle proposte della Commissione Lattanzi (art. 9-quinquies, comma 1, lett. c) si prevedeva un’organizzazione dei servizi di giustizia riparativa articolata in centri coordinati da un Tavolo interistituzionale dedicato presso il Ministero della giustizia. Nella legge di delega, il Tavolo è sparito per privilegiare un sistema – come si è detto – incentrato su «strutture pubbliche facenti capo agli enti locali e convenzionate con il Ministero della giustizia». Sarebbe preferibile non abbandonare il progetto di un organismo nazionale con funzioni di coordinamento e, in sede di emanazione dei decreti legislativi, occorrerebbe rimettere mano alle attuali funzioni del «Tavolo di coordinamento per la creazione di una rete integrata di servizi di assistenza alle vittime di reato», istituito presso il Ministero della giustizia il 6 dicembre 2018, in modo che i programmi di giustizia riparativa si combinino con i servizi di assistenza alle vittime affinché cura e giustizia procedano nel rispetto reciproco.
La necessità di un organismo nazionale di coordinamento è consigliata dalla raccomandazione 2018 per evidenti ragioni di condivisione di «informazioni, materiali e competenze con gli Stati membri, o con le autorità locali e organizzazioni competenti ivi presenti» (art. 64). Ma, soprattutto, è imposta dalla direttiva 2012 sia per la dovuta cooperazione nello scambio delle migliori prassi, la consultazione di singoli casi e l’assistenza tra reti europee (art. 26), sia perché, ogni tre anni, gli Stati membri devono trasmettere alla Commissione europea i dati disponibili relativi al modo e alla misura in cui le vittime hanno avuto accesso ai diritti previsti dalla direttiva, compreso quello alla giustizia riparativa (art. 28).
L’organismo nazionale è, inoltre, indispensabile per l’accreditamento delle figure di mediatore e/o facilitatore secondo i criteri che verranno stabiliti dai decreti legislativi.
Alla luce di queste due fonti normative europee e della compenetrazione tra giustizia riparativa e assistenza alle vittime, non è revocabile in dubbio l’istituzione di un organismo nazionale unitario: l’Italia costituirebbe davvero un modello d’avanguardia per la giustizia riparativa e recupererebbe un grave ritardo rispetto agli altri Paesi europei sul fronte dell’assistenza alle vittime.
Diversamente a livello locale, ove è forse soluzione obbligata una differenziazione tra servizi di assistenza alle vittime e servizi di giustizia riparativa: peraltro i decreti legislativi non sono chiamati a disciplinare i primi, salvo ovviamente tener conto della loro esistenza e delle loro funzioni.
Quale assetto periferico, dunque, auspicare per i secondi?
Da alcuni anni, la Cassa ammende stanzia dei fondi per la realizzazione di progetti di giustizia riparativa e di assistenza alle vittime. I progetti sono presentati dalle Regioni vuoi su base partecipata vuoi mediante bandi. In generale, questi progetti vedono il coinvolgimento dei provveditorati dell’amministrazione penitenziaria, degli UIEPE, dei centri per la giustizia minorile, degli enti locali e del terzo settore. Purtroppo non è mai stato pubblicato un monitoraggio di questi progetti, ma sarebbe indispensabile anche in vista dell’emanazione dei decreti legislativi. Questa esperienza potrebbe essere una valida base per disegnare – anche sulla base di convenzioni, come prevede la legge delega – organismi locali permanenti, così da evitare ogni anno accordi temporanei di partenariato.
13. Il finanziamento della giustizia riparativa
La legge delega prevede, per il 2022, uno stanziamento di euro 4.438.524 per l’attuazione di tutte le disposizioni relative alla giustizia riparativa. Se si tien conto degli attuali stanziamenti da parte della Cassa ammende, dei centri di giustizia minorile e di alcune Regioni, probabilmente non si supera la cifra di un milione di euro annui. Il finanziamento ha, pertanto, una consistenza tale da garantire la predisposizione delle strutture base dell’organizzazione necessaria al funzionamento dei servizi di giustizia riparativa: formazione degli operatori, costituzione degli organismi centrali e periferici, procedure di accreditamento dei mediatori/facilitatori, supervisione, creazione del data base/gestionale, carta dei servizi, valutazione di un’agenzia esterna.
Tutto dipenderà dalla strategia che si vorrà perseguire: valorizzare le risorse e le autorità locali, come sembra indicare la legge delega? Mantenere un impianto centralizzato, come cercherà di realizzare il Ministero della giustizia? O, come speriamo, un intelligente coordinamento tra centro e periferia, tra Regioni, ministeri competenti, università e terzo settore?
* Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 23 novembre 2021 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/sulla-giustizia-riparativa).
1. M. Cartabia, Linee programmatiche sulla giustizia, 18 marzo 2021, p. 15 (https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANI_VERTICALI/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2021/03/19/Cartabia%20Linee%20programmatiche%20marzo%202021%20totale%2018_03%20Senato.pdf).
2. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page?contentId=SPS322404&previsiousPage=mg_2_5_11.
3. www.minori.gov.it/it/notizia/mediazione-penale-e-giustizia-riparativa-volume-della-garante-linfanzia.
4. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS333721&previsiousPage=mg_1_36.
5. La raccomandazione 2018 è ampiamente richiamata nel testo della Relazione illustrativa della Commissione Lattanzi.
6. Cfr. la previsione dell’art. 35-bis l. n. 354/75. Vds. anche, con una sfumatura paradossale, G. Galli, La politica criminale in Italia negli anni 1974-77, Raffaello Cortina, Milano, 1978, p. 28, per cui la riforma penitenziaria rappresenta «il solenne riconoscimento che lo status di detenuto o di internato non solo non fa venir meno la posizione di lui come titolare di diritti soggettivi connessi a tale status, ma, anzi, altri gliene attribuisce».
7. Per una prospettiva riformatrice della fase esecutiva cfr., tra i molti, A. Ceretti e G. Mannozzi, Giustizia riparativa, in G. Giostra e P. Bronzo (a cura di), Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, Università La Sapienza, Roma, 2017, pp. 195 ss.
8. M. Bouchard, Giustizia riparativa, vittime e riforma penale. Osservazioni alle proposte della Commissione Lattanzi, in questa Rivista online, 23 giugno 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-riparativa-vittime-e-riforma-penale-osservazioni-alle-proposte-della-commissione-lattanzi, ravvisa nella riforma in tema di giustizia riparativa «una vera rivoluzione culturale».
9. «In una società spinta in modo sempre più sfrenato verso forme comportamentali individualistiche c’è, davvero, il pericolo che la vittimizzazione si decomponga in vero e proprio infantilismo»: così M. Bouchard, già nel 2010, nella relazione all’incontro di studio organizzato dalla Scuola superiore della magistratura sul tema: «Giustizia riparativa e processo penale: esperienze applicative nazionali ed internazionali. Le prospettive della mediazione penale nell’ordinamento italiano» Roma, 1-3 marzo 2010. Sulla normativa securitaria vds., tra i molti, A.P. Della Bella, Three strikes and you’re out: la guerra al recidivo in California e i suoi echi in Italia, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2-3/2007, p. 832.
10. Emblematica, su tale doloroso aspetto, è la condanna della Corte Edu, il 27 maggio scorso (J.L. c. Italia), nei confronti dell’Italia per la violazione dell’art. 8 della Cedu, con la quale la Corte di Strasburgo ha censurato le modalità – giudicate fortemente inappropriate – con cui la persona offesa è stata sottoposta a esame dibattimentale (si trattava di un processo per violenza sessuale), tali da integrare, appunto, una vittimizzazione secondaria.
11. Cfr. G. Mannozzi, Sapienza del diritto e saggezza della giustizia: l’attenzione alle emozioni nella normativa sovranazionale in materia di restorative justice, in disCrimen, 23 aprile 2020 (https://discrimen.it/wp-content/uploads/Mannozzi-Sapienza-del-diritto.pdf).
12. In questa prospettiva, commentando l’importante pronuncia costituzionale del 21 giugno 2018, n. 149, un’autorevole dottrina rimarca la primazia della funzione rieducativa delle pene, quale «unica finalità della pena enunciata nella Costituzione» (E. Dolcini, Dalla Corte costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo e di rieducazione del condannato, in Dir. pen. cont., n. 7-8/2018, p. 147).
13. Si rinvia, per alcune interessanti riflessioni, a M. Bouchard, Sul protagonismo delle vittime. Dialogo con Tamar Pitch e Andrea Pugiotto, in Diritto penale e uomo, 2 aprile 2019.
14. Sul problema della definizione del concetto di “vittima” vds. Claudia Mazzucato, “Direttiva Vittime” e giustizia riparativa: problemi, sfide, prospettive, in A. Ceretti (a cura di), La giustizia riparativa nelle politiche educative del Comune di Milano, atti del convegno svoltosi a Milano il 16 maggio 2018, Comune di Milano, 2019, pp. 197 ss.
15. Secondo la risoluzione n. 40/34 del 28 novembre 1985 (cd. “Dichiarazione di Vienna”), adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, «Victims means persons who, individually or collectively, have suffered harm, including physical or mental injury, emotional suffering, economic loss or substantial impairment of their fundamental rights, through acts or omissions that are in violation of criminal laws operative within Member States, including those laws proscribing criminal abuse of power» (www.ohchr.org/EN/ProfessionalInterest/Pages/VictimsOfCrimeAndAbuseOfPower.aspx).
16. Analoga dizione reca l’art. 16-nonies dl 15 gennaio 1991, n. 8, conv. dalla l. 15 marzo 1991, n. 82, in materia di liberazione condizionale per i collaboratori di giustizia. Il presupposto del «ravvedimento» del condannato, previsto dall’art. 16-nonies, deve essere accertato dal giudice in termini di rilevante probabilità confinante con la certezza dell’emenda (Cass., sez. I, 9 marzo 2009, n. 10421, Antonuccio, CED). Tra gli elementi valutabili ai fini dell’acquisizione della prova del ravvedimento può essere anche considerato il grado di interesse e di concreta disponibilità del condannato a fornire alla vittima del reato ogni possibile assistenza, compatibile con il doveroso rispetto della riservatezza e delle autonome decisioni di questa (Cass., sez. I, 6 novembre 1989, Malizia, in Giust. pen., n. 2/1990, c. 257).
17. «Nell’ambito dell’osservazione è offerta all’interessato l’opportunità di una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze prodotte, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione».
18. Cfr. Cass., sez. I, 23 marzo 2021, n. 19818, Vallanzasca (rinvenibile sulla banca dati DeJure – https://dejure.it/#/home), che, nel confermare la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva respinto la domanda di liberazione condizionale, rileva che: «l’avviato percorso di mediazione penale ha un carattere piuttosto astratto e a-specifico, in quanto caratterizzato da manifestazioni formali e senza un reale, pur possibile, confronto con le vittime dei reati, che è stato raccolto dall’équipe con eccessiva accondiscendenza alla prospettazione del condannato che, in realtà, allo scopo di non confrontarsi con la dolorosa realtà del male arrecato, si è trincerato dietro il timore che la tardiva ricerca di un effettivo contatto con le persone offese potesse essere strumentalizzata».
19. Cfr. F. Della Casa, Misure alternative ed effettività della pena tra realtà e prospettive, in Giust. pen., n. 2/2001, cc. 65-83.
20. Cfr. L. Scomparin, Quale giustizia riparativa dopo la conclusione del processo?, in Leg. pen., n. 2/2004, p. 406, che attribuisce la «reviviscenza» sul piano applicativo della prescrizione di cui al comma 7 dell’art. 47 ord. penit. alla «crisi di identità e di ruolo delle misure alternative alla detenzione», dovuta anche al notevole incremento della criminalità dei white collars a partire dalla metà degli anni novanta.
21. Trib. sorv. Milano: ord. 3 aprile 1997, Pillitteri; ord. 27 maggio 1997, Tassan Din; ord. 23 luglio 1997, Cusani.
22. Trib. sorv. Milano: ord. 23 febbraio 1998, Ligresti; ord. 11 febbraio 1998, Schemmari.
23. Cass., sez. I, 5 febbraio 1998, n. 688, Cusani, CED n. 21355. La successiva giurisprudenza di legittimità si è costantemente espressa nei medesimi termini: vds., da ultimo, Cass., sez. I, 21 settembre 2004, Zampolini, CED n. 37049. In dottrina, cfr. F. Della Casa, Affidamento al servizio sociale o (pura e semplice) “pay-back sanction”? Equivoci sul significato dell’art. 47 co. 7 OP, in Leg. pen., n. 2/2004, pp. 380 ss., e A. Ceretti e Francesco Di Ciò, Giustizia riparativa e mediazione penale a Milano. Un’indagine quantitativa e qualitativa, in Rass. pen. crim., vol. VI, n. 3/2002, pp. 99-137.
24. M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Dir. pen. cont., n. 2/2015, pp. 236 ss.
25. Cass., sez. I, 4 maggio 2001, Muccio, CED; Cass., sez. I, 7 giugno 2001, n. 23218, Brighel, CED.
26. Cass., sez. I, 23 marzo 2021, n. 19818, Vallanzasca, cit.
27. Vds. sul profilo in esame, estesamente, G. Rossi, Esperienze di giustizia riparativa nel procedimento di sorveglianza, relazione tenuta al corso «Giustizia riparativa e processo penale: esperienze applicative nazionali e internazionali. Le prospettive della mediazione penale nell’ordinamento italiano», organizzato dal Csm, Roma, 1-3 marzo 2010.
28. G. Rossi, ivi.
29. Cfr. S. Corti, Giustizia riparativa e violenza domestica in Italia: quali prospettive applicative?, in Dir. pen. cont., n. 9/2018 (26 settembre 2018, www.penalecontemporaneo.it/upload/1209-corti2018a.pdf).
30. La casistica è particolarmente ricca: le prescrizioni di alcuni tribunali di sorveglianza impongono dazioni a carattere pecuniario (mirando a rendere effettivo il risarcimento già statuito nella sentenza di condanna ovvero nel giudizio civile); prevedono progetti di inserimento lavorativo o scolastico della vittima a spese del condannato; autorizzano attività di volontariato presso enti o istituzioni pubbliche qualora la vittima rifiuti ogni proposta risarcitoria; prescrivono l’effettuazione per la persona affidata di percorsi o programmi per soggetti maltrattanti. Qualora dagli atti del procedimento emerga la circostanza che il reato è stato originato, anche solo in parte, dalla sussistenza di problematiche della sfera psichica, spesso viene altresì imposta all’affidato la frequenza presso centri di psichiatria in grado di intervenire con gli strumenti diagnostici e terapeutici idonei a prevenire la recidiva e a favorirne il reinserimento sociale.
31. Già nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale, istituiti dal Ministro della giustizia nel 2015, il Tavolo 13 («Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato») aveva elaborato una serie di proposte per allineare l’ordinamento penale italiano alle previsioni della direttiva 2012/29/UE e, in particolare, per promuovere l’accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento. Quest’ultima indicazione è presente ora anche nella raccomandazione CM/Rec (2018)8 (parr. 6 e 19). La ratio è ravvisabile nel fatto che la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa dovrebbe essere offerta a tutte le vittime, senza distinzione in relazione al titolo di reato commesso.
32. La risoluzione ECOSOC 2002/12 prevede, alla regola n. 8, che la vittima e l’autore debbano normalmente raggiungere un accordo sui fatti essenziali del caso per la loro partecipazione al processo riparativo, in sintonia con quanto disposto dalla raccomandazione 2018/8 al punto 30, ove si individua come «[p]unto di partenza per un percorso si giustizia riparativa» il «riconoscimento ad opera delle parti dei fatti principali della vicenda».
33. In questa direzione pare, invero, andare anche la raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec (2018)8, laddove rileva l’importanza di incoraggiare il senso di responsabilità degli autori dell’illecito e di offrire loro l’opportunità di riconoscere i propri torti, ciò che potrebbe favorire il loro reinserimento, consentire la riparazione e la comprensione reciproca e promuovere la rinuncia a delinquere (8° del considerando).
34. In sede di attuazione della riforma, si dovrebbe pervenire alla trasformazione delle attuali, variegate ipotesi di detenzione domiciliare in misure alternative dalla valenza anche riparativa; funzionalità, quest’ultima, a legislazione vigente difficilmente praticabile, così che s’imporrebbe un intervento di modifica dell’attuale art. 47-ter ord. penit., volta in particolare al superamento del troppo limitativo riferimento all’art. 284 cpp.
35. Esprime tali riserve anche L. Scomparin, Quale giustizia riparativa, op. cit., p. 412, soprattutto con riguardo ai reati di natura sessuale o ai gravi reati contro la persona, ovvero nel caso di condizioni soggettive particolari, quali la tossicodipendenza o l’appartenenza del reo a nazionalità e cultura molto diverse da quelle della vittima.
36. M. Bouchard, Giustizia riparativa, vittime e riforma penale, op. cit.
37. G. Mannozzi e G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Giappichelli, Torino, 2017. Mi riferisco, in particolare, al capitolo dedicato ai principali programmi di giustizia riparativa – vds. pp. 217 ss.
38. J.M. Shapland - G. Robinson - A. Sorsby, Restorative Justice in Practice: Evaluating what works for victims and offenders, Routledge, London, 2011.
39. Ivi, p. 220
40. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page?facetNode_1=0_10_3_2&facetNode_2=0_10&facetNode_3=0_6_4_1&contentId=SPS322404&previsiousPage=mg_1_12. Vds. pp. 4 e 5.
41. Ad esempio, la legge francese n. 2014-896 del 15 agosto 2014 ha modificato l’art. 10.1 del codice di procedura penale nel senso che vittima e autore, in ogni stato e grado del procedimento penale, compresa la fase di esecuzione della pena, possono vedersi proposta una misura di giustizia riparativa, a condizione che i fatti siano stati riconosciuti: «À l’occasion de toute procédure pénale et à tous les stades de la procédure, y compris lors de l’exécution de la peine, la victime et l’auteur d’une infraction, sous réserve que les faits aient été reconnus, peuvent se voir proposer une mesure de justice restaurative».
42. www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page?facetNode_1=0_10_3_2&facetNode_2=0_10&facetNode_3=0_6_4_1&contentId=SPS322404&previsiousPage=mg_1_12.
43. Ivi, p. 9.
44. G. Mannozzi e G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, op. cit., p. 142.