Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari
La “riforma Cartabia” investe profondamente la fase delle indagini preliminari, incidendo su snodi fondamentali, quali il momento “genetico” dell’iscrizione della notizia di reato e del nominativo della persona cui esso è da attribuire, e il momento “conclusivo” delle determinazioni sull’esercizio dell’azione penale. Sono attribuiti incisivi poteri al giudice per le indagini preliminari, che obbligano a ripensare non solo la fisionomia e la finalità delle indagini, ma anche l’equilibrio di poteri e di rapporti tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari.
1. Le premesse normative / 2. Una iperbole / 3. Il controllo del giudice sulla tempestività dell’iscrizione / 3.1. La “riforma Orlando” e alcune linee interpretative / 3.2. Il controllo del giudice sull’iscrizione e possibili effetti sul piano della prova / 3.3. Le disposizioni della legge delega / 3.3.1. L’articolo 1, comma 9, lett. r e s / 3.3.2. L’articolo 1, comma 9, lett. p / 3.3.3. L’articolo 1, comma 9, lett. q / 4. La stasi del procedimento / 4.1. L’articolo 1, comma 9, lett. e e f / 4.2. L’articolo 1, comma 9, lett. g e h / 5. I presupposti dell’archiviazione / 5.1. Le preclusioni finte… come finestre dipinte / 6. Una immagine
1. Le premesse normative
La legge 27 settembre 2021, n. 134 abbraccia un ventaglio amplissimo di disposizioni del sistema penale secondo una ispirazione di fondo, apertamente rimarcata nel procedimento di formazione legislativa, di maggiore efficienza nella salvaguardia delle garanzie[1].
Non vi è fase della procedura penale che sia rimasta estranea all’intervento riformatore e ciò riguarda anche le indagini preliminari, in cui nevralgico è il ruolo del pubblico ministero.
L’art. 1, comma 9, incide in alcuni dei gangli fondamentali di questa fase. Per fermarsi solo ad alcuni dei più rilevanti passaggi, vanno evidenziati: i presupposti per la richiesta di archiviazione (lett. a), la durata delle indagini preliminari (lett. c), i presupposti e la durata della proroga (lett. d), i rimedi contro la “stasi” del procedimento (lett. e, f, g, h), i criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato (lett. i), i presupposti dell’iscrizione e il sindacato del giudice sulla iscrizione del nome della persona nel registro di cui all’art. 335 cpp (lett. p, q, r, s), l’individuazione di “criteri più stringenti” per la riapertura delle indagini ai sensi dell’art. 414 cpp (lett. t). Connessa alla fase delle indagini è poi la previsione, contenuta al comma 24, dell’autonoma impugnazione del decreto di perquisizione, cui non abbia fatto seguito il sequestro.
Si tratta di un intervento riformatore che incide in maniera significativa e assai problematica sulla fase delle indagini e sulla posizione del pubblico ministero.
Occorre certamente una spinta in avanti, le esigenze di efficienza non devono essere vanificate; bisogna, tuttavia, essere consapevoli della direzione che si imprime al cambiamento.
Il pubblico ministero è chiamato da tempo a ripensare il proprio ruolo.
Esso non può essere associato, nel contesto attuale, al solo modello della obbligatorietà dell’azione penale. Come è stato autorevolmente sostenuto, l’obbligatorietà dell’azione penale «copre solo una parte dell’agire del Pubblico Ministero». Essa rappresenta l’imprescindibile garanzia della sua indipendenza e il criterio attraverso cui valutarne sul piano processuale (ed eventualmente disciplinare) la correttezza, con il fine sempre di assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Ma non basta. Si avverte sempre più una esigenza di “legittimazione democratica” di questa figura, che ne dilata inevitabilmente i momenti di impegno e i profili di responsabilità[2].
Se ne trovano tracce anche nella legislazione recente. La materia della giustizia riparativa (ampiamente trattata nella l. n. 134/2021) e l’attuazione della direttiva (UE) 2016/343, sulla presunzione di innocenza, pongono questioni nuove, cui il pubblico ministero non deve sottrarsi: il significato della pena (una funzione “risocializzante”?) e il rispetto della posizione dell’imputato nel contesto sociale, di cui chi opera nel processo penale deve farsi carico.
Ci si aspetta, se così può dirsi, un pubblico ministero open minded, che sappia osservare i doveri che discendono dall’applicazione della legge, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, essendo al contempo alimentato da afflato culturale e sensibilità sociale. Un magistrato che sappia cogliere il senso della “consonanza” con la Repubblica[3].
Non sono risposte facili e, soprattutto, non sono risposte che passano (solo) da riforme normative.
La strada che è stata imboccata sembra volere riposizionare la figura del pubblico ministero rispetto al ruolo centrale che, storicamente, ha avuto nella fase delle indagini preliminari, sin dall’entrata in vigore del codice Vassalli, affiancandogli la figura del giudice per le indagini preliminari, che potrebbe assurgere a titolare di poteri decisionali in precedenza appannaggio esclusivo del pubblico ministero.
2. Una iperbole
Il codice del 1930 conosceva la distinzione tra “istruzione sommaria” e “istruzione formale”. La prima era riservata a taluni specifici casi, delineati dall’art. 389: sorpresa in flagranza quando non si poteva procedere a giudizio direttissimo; reato commesso mentre l’imputato era arrestato, detenuto o internato per misura di sicurezza, quando non si poteva procedere con giudizio direttissimo; confessione da parte dell’imputato di aver commesso il reato, sempre che non fossero necessari ulteriori atti di istruzione; evidenza della prova, sempre che l’imputazione non comportasse la pena dell’ergastolo; reati di competenza del pretore. Per tutti gli altri casi la regola era quella dell’istruzione formale.
Come si ebbe a dire, «l’istruzione sommaria si ha nei casi in cui l’indagine è più semplice e più spedita; l’istruzione formale nei casi in cui l’indagine è più complessa e più lunga»[4].
Con una semplificazione non del tutto corretta, ma che aiuta a rendere l’idea, l’istruzione sommaria aveva per presupposti gli stessi che sono oggi alla base dei riti “anticipatori” del dibattimento (il giudizio immediato, quando non si fa corso al giudizio direttissimo, e i procedimenti a citazione diretta).
L’istruzione sommaria era condotta dal pubblico ministero, l’istruzione formale dal giudice istruttore. Da qui un duplice volto del pubblico ministero, che operava di volta in volta quale “agente” o quale “consulente del giudice”[5]. Il governo dell’istruzione formale era infatti nelle mani del giudice istruttore, che veniva investito del procedimento con una richiesta del pubblico ministero, dando impulso all’attività di raccolta delle prove attraverso un contraddittorio “monco e diseguale” (a danno delle parti private), regolato dallo stesso giudice, che ne dettava tempi e cadenze[6].
Gli accostamenti storici vanno condotti con precisione, bisogna evitare sovrapposizioni improprie e confronti grossolani. Il modello processuale del 1930 è troppo distante da quello attuale, strutturalmente e culturalmente, per spingersi oltre.
Vi è da dire, tuttavia, che un sussulto inconscio il modello del passato lo provoca.
A torto o a ragione, la spinta riformatrice sembra tradire una vistosa sfiducia verso la figura del pubblico ministero. Vi sono tante falle nel sistema, si potrebbe arguire da una visione complessiva del progetto, ma nulla incide così negativamente come l’attività che fa perno sulla posizione del pubblico ministero: che poi è alla base di tutto, perché il processo è un edificio che poggia su quanto viene costruito nelle indagini.
Nessuno avrebbe mai posto in dubbio la centralità del pubblico ministero nelle indagini preliminari, nell’assetto del codice del 1989. Due norme ne scolpiscono la funzione, l’art. 326 e l’art. 358, attribuendogli la direzione delle indagini in vista delle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale. La tendenziale impermeabilità del dibattimento al materiale conoscitivo delle indagini costituisce ragione di equilibrio del sistema.
Al giudice è riservata, durante le indagini preliminari, una funzione di controllo meramente incidentale, che trova attuazione nella fase cautelare, rispetto ad alcuni mezzi di ricerca della prova (autorizzazione delle intercettazioni e incidenti sui sequestri), nonché rispetto alla proroga delle indagini e ai presupposti per l’assunzione anticipata della prova, con incidente probatorio. Quello del giudice è un potere tutt’altro che marginale rispetto alle iniziative del pubblico ministero, che sul piano normativo si è andato rafforzando nel corso degli anni. Un potere, va aggiunto, di grande responsabilità, che se non correttamente esercitato può causare pericolose deviazioni nella fase delle indagini: si pensi, solo per fare alcuni esempi, ai casi di rigetto delle richieste di intercettazione o di incidente probatorio, e alle decisioni di incompetenza per territorio ai sensi degli artt. 22 e 27 cpp. Tutti casi in cui, come ben sa qualunque operatore pratico, la possibilità di correttivi o rimedi è tutt’altro che agevole. E tuttavia, siamo sempre nello spettro dei “controlli” incidentali. Un controllo completo da parte del giudice, che ha ad oggetto l’intero compendio indiziario raccolto, si ha soltanto a conclusione delle indagini, rispetto alle determinazioni finali assunte dal pubblico ministero.
Questa fisionomia, va detto senza infingimenti, sembra incrinarsi. La legge delega presenta margini di incertezza e occorre verificare come in concreto il legislatore delegato riempirà gli spazi vuoti. Ma quando si rimette al giudice la possibilità di stabilire il momento in cui si assume la qualifica di indagato o quando si prevede che il giudice, con proprio intervento, “rimedi alla stasi del procedimento”, si infrange il bilanciamento dei rapporti che abbiamo sino ad ora conosciuto. Non vi è più solo un potere di controllo, per quanto pervasivo o più esteso rispetto a quello originariamente congegnato. Vi è una potenziale sovrapposizione rispetto a passaggi qualificanti, che costituiscono (costituivano) l’in sé dell’attività del pubblico ministero.
Non abbiamo più, per riprendere le parole di Giovanni Leone, un pubblico ministero agente: abbiamo, se così può dirsi, un coagente, che certamente preserva fondamentali prerogative, al quale si affianca come alter ego il giudice, con intrecci che possono rivelarsi anche molto problematici.
I profili che verranno affrontati nei capitoli che seguono attengono a tre passaggi della riforma che ha investito la fase delle indagini, per ragioni diverse tra i più complessi e dunque meritevoli di maggiore attenzione: la retrodatazione dell’iscrizione, la stasi del procedimento, i presupposti per la richiesta di archiviazione (con una riflessione aggiuntiva sugli effetti preclusivi del provvedimento di archiviazione e la riapertura delle indagini).
Resta fuori l’altro grande tema che coinvolge le indagini preliminari: la determinazione di priorità nella trattazione delle notizie di reato. Ma tale aspetto, per quanto delicato, presenta risvolti più ordinamentali che processuali, riguardando l’identificazione dell’organo chiamato a stabilire l’ordine delle priorità e la compatibilità di esse con il principio sancito dall’art. 112 Cost.[7].
3. Il controllo del giudice sulla tempestività dell’iscrizione
L’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cpp e, contestualmente o dal momento in cui risulta, del nome della persona cui lo stesso è attribuito, è funzione propria del pubblico ministero. Questi, secondo l’indicazione contenuta nella legge, è chiamato a darvi corso “immediatamente”.
Non è nuovo e più volte si è posto nella giurisprudenza di legittimità il tema del controllo giudiziale sulla tempestiva iscrizione del nome della persona indagata nel registro delle notizie di reato. Questione evidentemente collegata alla definizione dei presupposti sulla base dei quali essa deve avvenire.
La giurisprudenza, pur con alcune oscillazioni, è stata ferma nel tempo nel ribadire la insindacabilità del momento dell’iscrizione, atto che rientra nell’esercizio di un potere rimesso al pubblico ministero, suscettibile di eventuale censura in sede disciplinare, ma non in quella processuale.
Due note sentenze delle sezioni unite penali, a distanza di dieci anni l’una dall’altra, hanno sostenuto questo principio, che ha certamente il merito di avere assicurato stabilità a uno snodo processuale gravido di conseguenze; e questo, nella piena consapevolezza della rilevanza della questione e della estrema delicatezza degli interessi in gioco[8].
Le ragioni poste a fondamento dell’esclusione del sindacato giurisdizionale sul momento dell’iscrizione sono molteplici e risultano approfondite, in particolare nella sentenza Lattanzi, con riflessioni ancora oggi di grande attualità. La Corte di cassazione afferma che tale atto costituisce un «dovere» in capo al pubblico ministero, rispetto alla violazione del quale sono configurabili conseguenze disciplinari e finanche penali. Ma tale dovere si colloca in un quadro “fluido”, rappresentando l’iscrizione un’attività “complessa”, nella quale convergono una pluralità di considerazioni relative alla configurazione storica del fatto, alla sua qualificazione giuridica, all’attribuibilità di esso a una determinata persona. Alla base di essa vi è una valutazione che deve basarsi non su meri sospetti, ma su specifici elementi indizianti. Tale valutazione sconta sovente, sul piano temporale, lo scarto rispetto al momento in cui la notizia di reato è stata trasmessa al pubblico ministero, oltre allo spatium deliberandi che deve ragionevolmente essergli concesso. Un potenziale intervento del giudice, che la Corte qualifica nei termini di “controllo sostitutivo” e altrove come potere surrogatorio rispetto al pubblico ministero, si esporrebbe a queste variabili. Per quanto rappresenti un atto dovuto, il momento in cui scatta il dovere di iscrizione non è facile a definirsi e ciò rende oltremodo incerti i confini di un eventuale controllo. «Manca una struttura normativa di riferimento», sostengono i giudici di legittimità. «Non esiste, infatti, nel sistema, né un principio generale di “sindacabilità” degli atti del pubblico ministero, né un altrettanto generalizzato compito di “garanzia” affidato al giudice per le indagini preliminari. Si tratta, infatti, di un giudice “per” le indagini, e non “delle” indagini preliminari, il quale – proprio per impedire la riproduzione di funzioni lato sensu “istruttorie” – non governa l’attività di indagine né è chiamato a controllarla, svolgendo funzioni, si è detto, “intermittenti”, che sono soltanto quelle previste dall’ordinamento. Stabilisce, infatti, l’art. 328 cod. proc. pen., che il giudice per le indagini preliminari provvede sulle richieste del pubblico ministero, delle parti private e della persona offesa “nei casi previsti dalla legge”. Compiti, dunque, non soltanto limitati, ma anche tassativamente tipizzati».
Vi è il richiamo, nella sentenza Lattanzi, alla necessità di un intervento normativo, se davvero si vuole attribuire un sindacato giurisdizionale di tal fatta: un intervento accorto e prudente, che tenga conto delle conseguenze che ne possono scaturire. La retrodatazione dell’iscrizione comporta l’inutilizzabilità degli atti di indagine che risultino compiuti dopo che sia spirato il termine derivante dalla rettifica compiuta dal giudice. I rischi sulla dispersione del materiale investigativo sono sotto gli occhi di tutti.
3.1. La “riforma Orlando” e alcune linee interpretative
Poco più di quattro anni fa, prima dello spirare della passata legislatura, un importante intervento di modifica aveva investito il processo penale e in particolare la fase conclusiva delle indagini preliminari. Si tratta della legge 23 giugno 2017, n. 103, la cd. “riforma Orlando”.
Si registrava già allora l’esistenza di rischi di stasi, connessi alla non puntuale adozione da parte del pubblico ministero delle determinazioni conclusive. Sul reticolo di disposizioni processuali emanate nel 2017 si tornerà in seguito, perché esse si intrecciano in maniera potenzialmente molto confusa con quelle che potranno derivare dall’attuazione della legge delega.
Occorre qui soffermarsi, invece, sulle modifiche dell’ordinamento giudiziario attuate con la riforma Orlando, rilevanti proprio ai fini del controllo sulla tempestiva iscrizione delle notizie di reato e del nominativo della persona cui il reato deve essere attribuito. Il riferimento è all’art. 1, comma 75 della legge n. 103/2017, che ha modificato l’art. 1, comma 2 d.lgs n. 106/2006. Tale disposizione, definendo le attribuzioni del procuratore della Repubblica, così prescrive(va): «Il Procuratore della Repubblica assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio». Dopo l’espressione «azione penale», è stato introdotto dalla legge n. 103/2017 l’inciso «l’osservanza delle disposizioni relative alla iscrizione delle notizie di reato». Una riaffermazione sul piano ordinamentale, si potrebbe arguire, dell’attribuzione all’ufficio del pubblico ministero delle incombenze di cui all’art. 335 cpp e della correlativa responsabilità che su di esso grava.
A seguito dell’emanazione della suddetta legge, è stata adottata dal procuratore della Repubblica di Roma la circolare n 3225 del 2 ottobre 2017, che contiene indicazioni estremamente rilevanti, oltre che esemplari per chiarezza espositiva, sui presupposti della iscrizione. La suddetta circolare muove dalla disposizione di cui all’art. 109 disp. att. cpp, a mente del quale «La segreteria della Procura della Repubblica annota sugli atti che possono contenere notizia di reato la data e l’ora in cui sono pervenuti in ufficio e li sottopone immediatamente al Procuratore della Repubblica per l’eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato». L’uso della locuzione «eventuale» rimanda a un’attività necessaria di valutazione sia in ordine all’esistenza dei presupposti per l’iscrizione, sia in ordine alla scelta del registro (Mod. 45, Mod. 44, Mod. 21, che corrispondono rispettivamente ai registri relativi ai fatti non costituenti notizia di reato, fatti di reato a carico di indagati ignoti, fatti di reato a carico di indagati noti). Sulla base di queste premesse normative, nel documento della Procura di Roma è sviluppato questo ragionamento:
«Il presupposto è una considerazione ovvia: per procedere ad attività di indagine, alla richiesta di archiviazione o all’esercizio dell’azione penale, è indispensabile che il procedimento possa avere ad oggetto un “fatto”, vale a dire un accadimento suscettibile di una sia pure sommaria descrizione, sia perché sufficientemente delineata nello spazio e nel tempo, sia perché i suoi contorni materiali siano tali da consentirne l’astratta sussunzione in un titolo di reato. Prima di questo livello minimo di specificazione e qualificazione di un “fatto” è possibile solo procedere ad iscrivere l’atto in questione nel registro degli atti non costituenti notizia di reato (Mod. 45) (…). La scelta di iscrizione a Mod. 44 o a Mod. 21 è, a sua volta, assai delicata e andrà effettuata sulla base di un attento scrutinio degli atti: alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità (che sul punto si è espressa a più riprese anche a Sezioni Unite) si procederà ad iscrizione a Mod. 21 solo nei casi in cui a carico di un soggetto identificato emergano non meri sospetti ma “specifici elementi indizianti”, ovverosia una piattaforma cognitiva che consente l’individuazione, a suo carico, degli elementi essenziali di un fatto astrattamente qualificabile come reato e l’indicazione di fonti di prova. Si sottolinea, in proposito l’esigenza di non procedere ad iscrizione a Mod. 21 in modo affrettato ed in assenza dei necessari presupposti. Se invero è evidente la funzione di garanzia che riveste l’iscrizione all’interno del procedimento, non può essere trascurato che la condizione di indagato è connotata altresì da aspetti innegabilmente negativi, tanto da giustificare – secondo la Corte Costituzionale, sent. 174/1992 – la previsione di un termine delle indagini preliminari. Non può essere infatti trascurato che dall’iscrizione – e dai fisiologici atti processuali che ne conseguono – si dispiegano, per la persona indagata, effetti pregiudizievoli non indifferenti sia sotto il profilo professionale sia in termini di reputazione (…). Queste considerazioni impongono di abbandonare una concezione formalistica imperniata sull’approccio ispirato ad una sorta di favor iscritionis, criterio non formalizzato ed estraneo al sistema».
3.2. Il controllo del giudice sull’iscrizione e possibili effetti sul piano della prova
Negare al giudice il sindacato sulla “tempestività” dell’iscrizione non ha impedito, nel sistema attuale, la possibilità per il giudice stesso di valutare la necessità di iscrizione della notizia di reato nei confronti di un determinato soggetto o, a determinati fini, stabilirne la qualifica soggettiva di indagato. Siamo su piani diversi.
È noto nella prassi giudiziaria come, a seguito della richiesta di archiviazione, il giudice possa ordinare l’iscrizione dell’indagato nel registro di cui all’art. 335 cpp (ma non ordinare la formulazione dell’imputazione nei confronti di chi non risulti iscritto o non sia identificato, incorrendosi altrimenti in un atto abnorme)[9].
Un diverso tipo di controllo attiene al procedimento di formazione della prova. Pur avendo negato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che disciplinano il procedimento di iscrizione e la sua insindacabilità da parte del giudice, la Corte costituzionale ha preso posizione sulla utilizzabilità degli elementi di prova assunti quando il soggetto era già gravato da quegli elementi indizianti che avrebbero reso dovuta l’iscrizione e, ciò nonostante, tale iscrizione non vi sia stata. Con l’ordinanza n. 307/2005 la Corte costituzionale, sia pure nell’ambito di una motivazione assai sintetica e solo in un passaggio incidentale, sostiene che l’iscrizione assolva una funzione meramente ricognitiva di uno status che ha basi sostanziali, poggiando sulla direzione soggettiva impressa alle indagini. Ne deriva che «le garanzie difensive che la legge accorda alla persona sottoposta alle indagini, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione: con la conseguenza che il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa». Siamo, a ben vedere, su un piano molto diverso dal sindacato sul termine di iscrizione e sulla potenziale retrodatazione di esso. Ancorché con formule ellittiche, la Corte costituzionale sembra richiamare il principio di cui all’art. 63, comma 2, cpp, che sul piano della prova dichiarativa prevede l’inutilizzabilità non solo contra se, ma addirittura erga alios, delle dichiarazioni rese da chi sin dall’inizio avrebbe dovuto essere esaminato nella veste di indagato. Una patologia che attiene all’assunzione della singola prova, in funzione di garanzia dell’indagato ed eventualmente anche dei terzi, ma certamente non in grado di travolgere tutta l’indagine o parte di essa.
3.3. Le disposizioni della legge delega
Le disposizioni della legge delega che riguardano l’iscrizione sono contenute all’art. 1, comma 9, lett. p, q, r e s.
La lettera p prevede che debbano essere precisati i presupposti per l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 cpp della notizia di reato e del nome della persona cui lo stesso è attribuito, in modo da soddisfare esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni.
La lettera q prevede un meccanismo di controllo sulla tempestività dell’iscrizione, promosso dall’indagato, con un termine di decadenza decorrente dal momento in cui lo stesso ha facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l’anticipazione della iscrizione e con un onere di allegazione a suo carico.
La lettera r prevede che il giudice per le indagini preliminari, anche d’ufficio, quando ritiene che il reato sia da attribuire a persona individuata, ne ordini l’iscrizione nel registro di cui all’art. 335 cpp, se il pubblico ministero non vi ha provveduto.
La lettera s dispone che la mera iscrizione del nome della persona nel registro di cui all’art. 335 cpp non determini effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo.
Siamo dunque al cospetto di diverse disposizioni, dal contenuto eterogeneo e dai confini non chiari.
3.3.1. L’articolo 1, comma 9, lett. r e s
Appaiono definiti i contorni delle lettere r e s.
Nel primo caso, si riconosce al giudice per le indagini preliminari un potere, da esercitare incidentalmente nel corso delle indagini, che si esplica nell’ordine indirizzato al pubblico ministero di iscrizione del nominativo di una persona individuata. Con un parallelismo rispetto a quanto già ora si verifica in sede di delibazione della richiesta di archiviazione – allorché il giudice, respingendo la richiesta di archiviazione ordina al pubblico ministero l’iscrizione della persona nel registro degli indagati –, può dirsi che questa previsione determini una potenziale anticipazione del momento in cui questo tipo di potere viene di norma esercitato. Sono molteplici le ipotesi in cui ciò può avvenire, pressoché tutti i casi in cui vi sia un intervento incidentale del giudice (intercettazioni, misure cautelari, proroghe d’indagine, incidente probatorio).
Nel secondo, si declina un principio di garanzia: la non idoneità dell’iscrizione, in quanto tale, a generare effetti pregiudizievoli su un piano extrapenale.
Molto più complesse e gravide di problemi applicativi le questioni che scaturiscono dalle due ulteriori previsioni.
3.3.2. L’articolo 1, comma 9, lett. p
Con la lettera p, la legge di delegazione rimette al legislatore delegato di «precisare» i presupposti dell’iscrizione, in modo da soddisfare esigenze di garanzia, certezza e uniformità. Vi è da chiedersi, anzitutto, se una formulazione di questo tipo soddisfi i requisiti stabiliti dall’art. 76 Cost. Se è vero che «[l]’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi», nel caso di specie tali principi e criteri direttivi mancano del tutto. L’espressione «precisare i presupposti dell’iscrizione» si risolve stilisticamente in una formulazione tautologica, perfettamente sovrapponibile al principio affermato dalla Costituzione, ma del tutto priva di contenuto. Quali sono, vi è da chiedersi, i «principi e criteri direttivi» sulla base dei quali precisare i presupposti della iscrizione? Non certo «le esigenze di garanzia, uniformità e certezza», perché questi sono semmai gli effetti auspicabilmente derivanti dall’intervento normativo, non un valido criterio informatore per definirli.
La “precisazione dei presupposti” è dunque integralmente rimessa al legislatore delegato. E i termini della questione – lo si è visto nel richiamo al contenuto della sentenza Lattanzi – sono tutt’altro che semplici. Vi è da ritenere che lo sforzo di definizione compiuto dal Procuratore di Roma nel 2017 sia difficilmente superabile. Ma anche attenendosi ai principi delineati in questa circolare, i margini di incertezza restano ampi, in ambiti tutt’altro che infrequenti.
Si possono ipotizzare alcuni esempi, ma la prassi sarà certamente più ricca.
Vi sono le ipotesi del concorso di persone e di cooperazione colposa nel reato, laddove spesso è tutt’altro che agevole definire i termini del contributo rilevante (si pensi, nei casi di reati commessi in seno ad organi collegiali, all’insorgere dei cd. “segnali di allarme”; o ancora, nei reati colposi, ai lavori in équipe).
Si consideri l’ipotesi dei reati a condotta frazionata, ove non è agevole comprendere se si tratti di più reati unificati dal vincolo della continuazione o di un unico reato caratterizzato da una condotta diluita nel tempo.
Si pensi poi alle ipotesi, decisamente ricorrenti nella micro- come nella macrocriminalità, di reati commessi a catena, dove l’aggiornamento delle notizie di reato rischia di esporsi a variabili in fatto non facilmente controllabili.
E questo, ovviamente, senza nulla aggiungere alle considerazioni già svolte sull’area grigia che avvolge sempre una valutazione embrionale di indizi e la direzione delle indagini.
Il rischio, come condivisibilmente è stato affermato, è che si tornerà indietro nel tempo, con una regressione culturale, alla concezione della iscrizione come “atto dovuto” e alla distorta applicazione del “tutti e tutto” subito. Per un pubblico ministero sarà molto più tranquillizzante, per non incorrere in patologie processuali e inutilizzabilità di atti, procedere a iscrizioni massive. Con l’effetto di raggiungere un risultato opposto a quello dichiarato dal legislatore delegante: non una maggiore efficienza, ma una proliferazione di iscrizioni, l’esposizione di tanti cittadini alle traversie del procedimento penale, un complessivo appesantimento del sistema[10].
3.3.3. L’articolo 1, comma 9, lett. q
La legge pone questioni, se possibile, ancora più complesse per quanto riguarda il procedimento di retrodatazione. Sembra certo che il giudice non possa disporre d’ufficio la retrodatazione dell’iscrizione, ma solo su istanza motivata di parte. La legge parla di «interessato», ma non sembrerebbe esservi dubbio sul fatto che la legittimazione a formulare la richiesta competa al solo indagato, considerato che viene previsto un termine di decadenza decorrente «dalla data in cui l’interessato ha facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l’anticipazione dell’iscrizione della notizia a suo carico».
Viene specificato che la retrodatazione possa essere disposta solo in caso di «ingiustificato ed inequivocabile ritardo» e forse questa formula, se rigidamente applicata, può spuntare le armi di chi tenta di utilizzare strumentalmente questo rimedio e assicurare così stabilità al sistema.
Per il resto, la legge non chiarisce se il controllo debba avvenire cartolarmente o in udienza e nel contraddittorio tra le parti (quali parti poi? Gli altri indagati? Le persone offese? Il solo pubblico ministero?). Esigenze di semplificazione suggerirebbero una verifica cartolare, accompagnata da un’interlocuzione con il pubblico ministero, che sarebbe chiamato a rilasciare un parere. Un contraddittorio in udienza, soprattutto se nella fase delle indagini preliminari e quindi con la necessità di fissare un’udienza ad hoc, finirebbe per appesantire la procedura, senza probabilmente fornire contributi accrescitivi.
Complessa rischia di rivelarsi anche la determinazione del momento a partire dal quale scatta il termine di decadenza. Si tratta infatti di un termine connesso al realizzarsi di un momento conoscitivo, che nella procedura penale si collega ad una almeno parziale discovery. Il punto è che tale presupposto si realizza sempre, di norma, con la chiusura delle indagini, ma può ricorrere anche in altre fasi, ad esempio in sede cautelare o a fronte di altre situazioni che rendano necessario un almeno parziale deposito degli atti. Non vi è dunque una data certa, ma un momento variabile, inevitabilmente legato allo sviluppo e alle cadenze dell’indagine. Non pare, peraltro, revocabile in dubbio che il momento finale debba essere identificato con la chiusura delle indagini, o comunque con il diverso momento in cui l’interessato abbia la piena disponibilità degli atti di indagine (l’avviso ex art. 415-bis cpp ovvero l’atto di esercizio dell’azione penale nei procedimenti che non contemplano la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini).
Gli effetti della retrodatazione, lo si è visto, sono quelli dell’inutilizzabilità degli atti di indagine che dovessero risultare compiuti fuori termine. Il tipo di patologia che discende da questa situazione presenta indubbie peculiarità. Si sarebbe infatti in presenza di una «inutilizzabilità patologica», per richiamarsi alle categorie concettuali della sentenza Tammaro sopra citata, per sua natura rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi dell’art. 191 cpp. Nel caso di specie, lo si è visto, la questione deve essere dedotta su istanza di parte, senza esercizio di poteri d’ufficio da parte del giudice, e questo appare un primo significativo scostamento rispetto alla regola generale.
Occorre poi verificare se e in che termini la decisione del giudice possa essere oggetto di impugnazione o di una qualche forma di emenda. La legge non contiene alcuna indicazione sul punto, ma è evidente l’interesse per le parti coinvolte, incluso ovviamente il pubblico ministero. Da un lato, la possibilità di controvertere sulla retrodatazione dell’iscrizione introduce pericolosi elementi di incertezza sulla tenuta del giudizio, che viene così appesantito da una variabile ulteriore, nelle varie fasi in cui è destinato a svilupparsi. Vi è peraltro da dire, in senso contrario, che un controllo rispetto a un tema così delicato appare assolutamente necessario. Nella prospettiva di accusa, una decisione sbagliata da parte del giudice per le indagini preliminari si risolve in un’amputazione del fascicolo del pubblico ministero, con intuibili ripercussioni sul merito del giudizio. Si pensi, solo a titolo di esempio, a un’ordinanza che, disponendo la retrodatazione, escluda l’utilizzabilità di intercettazioni o di verbali di sommarie informazioni testimoniali assunte dopo lo spirare del termine ricalcolato. In una eventuale fase dibattimentale, nulla dovrebbe ostare a una rivisitazione della decisione da parte del giudice di merito, chiamato in sede di ammissione delle prove a delibare una richiesta, ai sensi degli artt. 190 e 493 cpp, di trascrizione delle intercettazioni o di esame dei testimoni che erano stati fatti in precedenza cadere sotto la scure di una erronea retrodatazione.
L’auspicio, che sembrerebbe trovare conferma nel disposto normativo, è in ogni caso che di questa disciplina si dia una lettura fortemente restrittiva. Se la legge consente la retrodatazione solo nel caso di «ingiustificato ed inequivocabile ritardo», la valutazione del giudice non potrà essere di tipo meramente sostitutivo rispetto a quella affidata al pubblico ministero. La retrodatazione, per intenderci, dovrà riguardare i soli casi in cui gli elementi indizianti siano non solo «specifici» (per usare i riferimenti giurisprudenziali, richiamati anche nella circolare del Procuratore di Roma), ma anche “autoevidenti”. Vi è un di più nel perimetro di valutazione del giudice. Non è facile a definirsi, ma dalla legge delega sembra trasparire in maniera chiara. I poteri di pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari non devono sovrapporsi. Per assicurare stabilità al sistema, la valutazione del giudice non potrà fondarsi sugli stessi parametri rimessi al pubblico ministero, perché troppo ampie sono le zone d’ombra. Il giudice dovrà censurare sul piano processuale le sole patologie evidenti, intervenendo laddove la mancata iscrizione si collochi in un quadro di emergenze indiziarie che non consentono letture alternative e rendano per ciò solo ingiustificabile il ritardo. Non dovranno trovare spazio, perché fonte di grande incertezza, decisioni assunte sulla base di un semplice dissenso o di una diversa lettura della rilevanza indiziaria degli atti.
4. La stasi del procedimento
Sino ad ora si è affrontato il tema della tardiva iscrizione della notizia di reato e, soprattutto, del nome della persona cui lo stesso deve essere attribuito. Una patologia che attiene alla fase “genetica” del procedimento.
Ora la prospettiva cambia, ci si deve spostare in avanti, alla fase “conclusiva” delle indagini, anch’essa al centro da tempo di tensioni applicative, perché sovente fonte di un rilevante rallentamento del procedimento.
Il tema della definizione delle indagini, che nel suo naturale epilogo avviene con l’esercizio dell’azione penale o con la richiesta di archiviazione, aveva conosciuto un importante intervento riformatore con la già citata riforma Orlando, nel 2017. Occorreva porre un argine a una stasi del procedimento, registrata in tutti i casi in cui, nonostante fosse decorso il termine delle indagini, il pubblico ministero non avesse proceduto ad adottare le proprie determinazioni finali. La strada intrapresa allora faceva leva sul controllo gerarchico, interno alla procura generale presso la corte d’appello, destinataria di doveri informativi da parte delle procure della Repubblica del rispettivo distretto (art. 407, comma 3-bis, cpp) e titolare di un potere di avocazione (art. 412 cpp). L’inerzia del pubblico ministero trovava risposta nell’esercizio di un potere sostitutivo da parte del procuratore generale presso la corte d’appello.
Questo assetto non sembra destinato a venire meno con la riforma Cartabia, attraverso la quale, tuttavia, vengono introdotte nuove disposizioni, che si andranno a sovrapporre a quelle preesistenti, con lo scopo di imprimere una definizione sicura e temporalmente controllabile del procedimento. Tale scelta di politica legislativa trae probabilmente origine dalla idea di inadeguatezza delle precedenti misure.
Anche in questo caso, come rispetto alla fase dell’iscrizione, sono ampliati i poteri del giudice per le indagini preliminari, secondo forme peraltro tutte ancora da definire.
La legge delega disciplina la materia all’art. 1, comma 9, lettere e, f, g e h. Più lineari a un primo giudizio, si può dire, le previsioni contenute nelle lettere e e f. Molto più complessa l’interpretazione delle lettere g e h.
4.1. L’articolo 1, comma 9, lett. e e f
La lettera e prevede che, decorsi i termini di durata delle indagini, il pubblico ministero sia tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro un termine fissato in misura diversa, in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari. La disposizione si pone nel solco di analoga previsione già contenuta nella riforma Orlando (art. 407, comma 3-bis, cpp), che voleva riconoscere al pubblico ministero, fuori dal termine delle indagini, un “momento di riflessione” o, altrimenti detto, uno spatium deliberandi funzionale a una consapevole adozione delle proprie determinazioni. Certo è che questo arco di tempo non può essere lasciato alla mercé del caso, e i ripetuti rallentamenti registrati nella prassi rendono effettivamente opportuna una più rigida scansione degli adempimenti.
Il tema, come sempre, è vedere come.
La lettera f prevede che siano predisposti idonei meccanismi procedurali volti a consentire alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa di prendere cognizione degli atti di indagine quando, scaduto il termine di cui alla lett. e, il pubblico ministero non abbia assunto le proprie determinazioni in ordine all’azione penale, nel rispetto della tutela del segreto investigativo nelle indagini sui reati di cui all’art. 407 cpp e di eventuali ulteriori esigenze di cui all’art. 7, par. 4 della direttiva (UE) 2012/13. Si tratta di disposizione che sembrerebbe legittimare una discovery degli atti, su richiesta degli interessati (indagato e persona offesa), una volta infruttuosamente spirato il termine per le determinazioni conclusive da parte del pubblico ministero. Si tratta, peraltro, di un diritto “temperato”, avuto riguardo alle limitazioni che la stessa legge delega pone. In particolare, il riferimento all’art. 407 cpp introduce un ampio ventaglio di ipotesi in cui l’accesso agli atti potrebbe essere precluso: se si pone mente alle previsioni di cui al comma 2, lett. b e d dell’art. 407, riferite rispettivamente ai casi di particolare complessità delle investigazioni e di collegamento con altre indagini ai sensi dell’art. 371 cpp (pendenti cioè presso altri uffici del pubblico ministero), si comprende bene come il rifiuto di accesso agli atti possa trovare ampie ragioni, interne come esterne allo stesso procedimento nel quale la richiesta viene presentata. E di ragioni “esterne” al procedimento si può parlare anche con riferimento alla previsione di cui all’art. 7, par. 4 della direttiva (UE) 2012/13, che pone una limitazione all’accesso agli atti del procedimento penale, laddove «l’accesso a parte della documentazione relativa all’indagine possa comportare una grave minaccia per la vita o per i diritti fondamentali di un’altra persona o se tale rifiuto è strettamente necessario per la salvaguardia di interessi pubblici importanti, come in casi in cui l’accesso possa mettere a repentaglio le indagini in corso, o qualora possa minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato membro in cui si svolge il procedimento penale».
4.2. L’articolo 1, comma 9, lett. g e h
Estremamente problematica si rivela la lettura delle successive lettere g e h.
La lettera g dispone che sia prevista «una disciplina che, in ogni caso, rimedi alla stasi del procedimento, mediante un intervento del giudice per le indagini preliminari». Si tratta, tra le tante, della disposizione che maggiormente si espone a dubbi di costituzionalità per violazione dell’art. 76 Cost. Non solo non è definita la fase in cui tale «stasi» si verrebbe a creare (iniziale, finale, intermedia?), ma neppure i presupposti di essa: si ha stasi perché il pubblico ministero non ha assunto determinate iniziative investigative (o non ne ha assunta alcuna, facendo decorrere il termine di indagine senza il compimento di alcun atto, se non la ricezione della notizia di reato)? O, addirittura, si ha stasi perché il pubblico ministero ha omesso di adottare iniziative cautelari? Oppure deve intendersi la stasi confinata alla sola fase conclusiva, quando vi è ritardo nella scelta tra azione e inazione?
E, ancora, chi ha titolo per dolersi di questa stasi, sollecitando l’intervento del giudice? La persona offesa dal reato, che non si sente tutelata e pretende venga impresso al procedimento un impulso più deciso? O la polizia giudiziaria, magari frustrata da incomprensioni nella direzione delle indagini decisa dal pubblico ministero?
Sono tutte domande senza risposta e, per questo, tale previsione è davvero esposta al denunciato dubbio di incostituzionalità: si tratta di legge delega che non contiene i principi e i criteri direttivi cui deve uniformarsi il legislatore delegato.
La vaghezza è tale che parrebbe potersi mettere in discussione anche un principio cardine della procedura penale, quale il ne procedat iudex ex officio.
Si potrebbe supporre, anche per la lettura congiunta con la precedente lett. e e la successiva lett. h, che il legislatore delegante abbia avuto a mente la stasi che si consuma nella sola fase conclusiva delle indagini[11]: questa potrebbe essere una lettura che dà coerenza alla norma e ne restringe l’ambito di applicazione. Restano, tuttavia, indefiniti le modalità di intervento del giudice e lo sviluppo dei rapporti con il pubblico ministero per lo “sblocco” della stasi.
La lett. h sembra porsi in rapporto di specialità rispetto alla previsione della lett. g, investendo le ipotesi in cui l’inerzia del pubblico ministero sia a valle della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, quando la discovery vi è stata e deve assumersi la decisione sull’esercizio dell’azione penale, dopo un eventuale contraddittorio interno con indagato e difensore. Anche questa previsione soffre delle stesse limitazioni registrate rispetto alla lett. g: non sono disciplinate le modalità di intervento del giudice per le indagini preliminari, neanche nelle linee generali che dovrebbe contenere una legge di delegazione legislativa, né sono delineate le forme di raccordo rispetto alle prerogative del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale.
5. I presupposti dell’archiviazione
Secondo un insegnamento mai messo in discussione da alcuno, le indagini preliminari sono funzionali alle determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale. Mai la formulazione della imputazione reca lo stigma della colpevolezza, che discende solo da una sentenza di condanna, pronunciata all’esito di un processo condotto nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 Cedu. Non è un vago parlare, anche il legislatore a noi più vicino nel tempo fa appello a questi principi. La recente attuazione della direttiva sulla presunzione di innocenza, richiamata nella premessa di questo lavoro, ammonisce gli operatori processuali a rispettare il principio di non colpevolezza anche nell’uso del linguaggio, astenendosi dall’utilizzo di espressioni improprie, all’interno come all’esterno del procedimento penale.
La scelta della legge delega di ancorare la richiesta di archiviazione a una valutazione che non consenta una ragionevole previsione di condanna appare distonica rispetto a una tradizione culturale e di sistema che dovrebbe essere interiorizzata e patrimonio di tutti.
Si potrebbe obiettare che la riforma mira ad ampliare il ventaglio dell’archiviazione, ritenendo insufficiente il concreto operare di questo istituto. E, in questo senso, si dovrebbe leggere anche la riformulazione dell’art. 425 cpp.
Si tratta di obiezioni molto discutibili, che non tengono adeguatamente in considerazione la chiave di lettura che, sin dal 1991, la Corte costituzionale ha dato della disposizione che nel nostro codice definisce il presupposto dell’archiviazione per infondatezza della notizia di reato, l’art. 125 disp. att. cpp. La sentenza n. 88/1991 trae origine da una questione di costituzionalità per eccesso di delega: il giudice rimettente dubitava della legittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 2 direttiva n. 50 della legge delega, che prevedeva il «potere-dovere del giudice di disporre su richiesta del Pubblico Ministero l’archiviazione per manifesta infondatezza della notizia di reato». Come conciliare il riferimento alla «manifesta infondatezza» con una locuzione normativa che definisce il presupposto dell’archiviazione in termini di «inidoneità degli atti a sostenere l’accusa in giudizio»? L’incostituzionalità venne esclusa sulla base di un percorso argomentativo articolato. La Corte affermò come «limite implicito alla obbligatorietà dell’azione penale, razionalmente intesa, (…) che il processo non debba essere instaurato quando si appalesa oggettivamente superfluo» e appunto «il problema dell’archiviazione sta nell’evitare il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’inazione». Una valutazione di questo tipo richiede la completezza delle indagini preliminari, posto che dal combinato disposto degli artt. 326 e 358 cpp emerge che il pubblico ministero deve compiere «ogni attività necessaria» ai fini delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, ivi compresi «gli accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona assoggettata alle indagini»[12].
Non si comprende dove il sistema, almeno nel suo impianto teorico, sia in questo senso inadeguato. La disciplina attuale rispetta anzitutto la duplicità di fasi che connota la procedura penale, indagini preliminari e processo; delinea un ragionevole meccanismo di raccordo, incentrato sulla necessità di evitare processi “superflui”; riconduce il presupposto dell’archiviazione al compimento di indagini “complete”, in grado quindi di assicurare un giudizio prognostico munito di attendibilità e storicamente verificabile.
Tutto ciò è o dovrebbe essere in grado di “evitare processi inutili” e assicurare un adeguato effetto deflattivo, senza necessità di ricorrere a formule diverse.
La conseguenza che, per contro, si può attendere dall’attuazione della legge delega è quella di imbrigliare e forse “burocratizzare” la fase delle indagini preliminari. Il principio di completezza delle indagini, di fronte a una formula di archiviazione che si avvicina sempre più a una delle tipiche formule di proscioglimento nel merito, richiederà controlli ancora più pervasivi da parte del giudice. E potrebbe allargarsi, almeno nella prassi, il raggio di azione della persona offesa, che con l’atto di opposizione avrebbe buon gioco a pretendere un ventaglio di attività incisivo, prima che si escluda un giudizio prognostico di colpevolezza. Non dovrebbe sorprendere, nel futuro, un accrescimento e una maggiore difficoltà nella gestione del contraddittorio con le persone offese.
5.1. Le preclusioni finte… come finestre dipinte
L’art. 1, comma 9, lett. t della legge delega dispone che siano previsti «criteri più stringenti ai fini dell’adozione del decreto di riapertura delle indagini di cui all’art. 414 c.p.p.». Ancora una volta una norma dai confini quanto mai incerti: la legge pretende «criteri più stringenti» ma non ne chiarisce in alcun modo la portata, affidandosi integralmente al legislatore delegato e incorrendo in una possibile violazione dell’art. 76 Cost.
In sé, peraltro, la previsione non deve sorprendere. L’art. 414 cpp introduce nell’ordinamento un effetto preclusivo connesso all’adozione del provvedimento di archiviazione. Un effetto preclusivo limitato, può ben dirsi, che tuttavia sottostà a un controllo giudiziale[13]. È chiaro che, se la linea del legislatore è di assimilare l’archiviazione a un “quasi proscioglimento” nel merito, la relativa decisione deve essere munita di un effetto espansivo più forte, anche rispetto al rischio (per l’indagato) di una riapertura delle indagini. Non una preclusione assoluta, come nel caso dell’art. 649 cpp, ma una preclusione più seria, come nell’ipotesi intermedia della sentenza di non luogo a procedere, revocabile solo nei casi previsti dall’art. 434 cpp.
Non era questo, è tuttavia importante tenerlo a mente, quello che pensavano i grandi processualisti del nostro tempo. Le parole di Cordero: «Ed ecco una simmetria falsa come le finestre dipinte: il Pubblico Ministero chiede un provvedimento che lo autorizzi a non agire; idem nel caso inverso, quando voglia riesumare l’affare archiviato. Sono ipotesi molto diverse: l’inazione esige un controllo, essendo obbligatorio l’impulso al processo; quando indaga su possibili reati, il Pubblico Ministero adempie degli obblighi. Considerata a parte iudicis, la situazione appare ancora più stravagante: il Pubblico Ministero gli chiede una riapertura delle indagini motivata dalla esigenza di nuove investigazioni: o è gratuito ossequio formale, non essendo possibili dinieghi; o il giudice vuol sapere perché quel caso debba essere riesumato, e magari esercita una supervisione sul nuovo piano sottopostogli, posando a giudice superistruttore»[14]. Sfiducia verso i pubblici ministeri, diffidenza nei confronti di figure che si presentano – ancora nelle parole di Cordero – come «orchi quarentes quem devorent»[15]. E così, tuttavia, si erode la logica delle indagini, si appesantiscono i meccanismi procedurali, si altera ancora di più il sistema.
6. Una immagine
Campeggia lungo tutta la facciata, di fronte allo sguardo delle parti e alle spalle dei giudici. Nell’aula della prima sezione penale del Tribunale di Milano, al terzo piano del Palazzo di giustizia, un affresco richiama tutti noi al senso e al valore della storia.
Si staglia al centro una imponente figura maschile che impugna una spada e tende con l’altra mano un ampio telo, a protezione di un vecchio appoggiato a un bastone e di una donna con un bambino. A sinistra, sullo sfondo, si intravedono il Colosseo e l’arco di Costantino; a destra l’Acropoli e il Partenone. Una immagine centrale che evoca un’idea di giustizia veterotestamentaria e, a fianco, figure simboliche del mondo romano e di quello greco.
Siamo i discendenti, sembra ammonirci questa immagine, di civiltà portatrici di valori imperituri, che il tempo non ha fatto venire meno.
Cova nel profondo la ricerca di invarianti, l’onda lunga del pensiero che si sedimenta nel tempo, l’esigenza di stabilità.
Nel diritto la stabilità è un valore, non un limite, ad essa è associata la garanzia della prevedibilità, delle decisioni come dei meccanismi che ne sono alla base.
Volgiamo lo sguardo in avanti, identifichiamo strategie di progresso. Ma, come gli affluenti, non ci separiamo mai del tutto dal letto del fiume, che continua ad alimentare il nostro corso e nel quale, prima o poi, siamo destinati a rifluire.
1. M. Cartabia, Ridurre del 25% i tempi del giudizio penale: un’impresa per la tutela dei diritti e un impegno con l’Europa, per la ripresa del Paese, in Sistema penale, 31 maggio 2021; G. Canzio, Le linee del modello “Cartabia”. Una prima lettura, ivi, 25 agosto 2021.
2. G. Salvi, Discrezionalità, responsabilità, legittimazione democratica del Pubblico Ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/934/2-2021_qg_salvi.pdf.
3. P.L. Zanchetta, La legittimazione e il suo doppio (Magistrati e consonanza con la Repubblica), in questa Rivista trimestrale, n. 4/2016, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/381/qg_2016-4_07.pdf.
4. G. Leone, Diritto processuale penale, Iovene, Napoli, 1968, p. 313.
5. G. Leone, op. ult. cit., p. 63.
6. F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 1979, p. 440.
7. Vds. F. Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR, in questa Rivista online, 13 ottobre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligatorieta-dell-azione-penale-efficiente-ai-tempi-del-pnrr; N. Rossi, I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene «il Parlamento con legge», ivi, 8 novembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/i-criteri-di-esercizio-dell-azione-penale-interviene-il-parlamento-con-legge; A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la Legge 27 settembre 2021, n.134, ivi, 20 dicembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/la-selezione-delle-priorita; S. Panizza, Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio… nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, ivi, 5 gennaio 2022, www.questionegiustizia.it/articolo/se-l-esercizio-dell-azione-penale. Tutti i contributi sopra citati, pubblicati in anteprima su Questione giustizia online, fanno parte di questo fascicolo (ivi compresa la rielaborazione dello scritto di N. Rossi: I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure).
8. Cass., sez. unite, 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro: «Quanto all’eccepita inutilizzabilità della prova in conseguenza della denunziata iscrizione tardiva nel registro degli indagati, eseguita solo dopo il deposito della relazione del consulente, deve ribadirsi il principio giurisprudenziale ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale l’omessa annotazione della notitia criminis sul registro previsto dall’articolo 335 Cpp, con l’indicazione del nome della persona raggiunta da indizi di colpevolezza e sottoposta ad indagini “contestualmente ovvero dal momento in cui esso risulta”, non determina l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti fino al momento dell’effettiva iscrizione nel registro, poiché, in tal caso, il termine di durata massima delle indagini preliminari, previsto dall’articolo 407 Cpp, al cui scadere consegue l’inutilizzabilità degli atti di indagine successivi, decorre per l’indagato dalla data in cui il nome è effettivamente iscritto nel registro delle notizie di reato, e non dalla presunta data nella quale il pubblico ministero avrebbe dovuto iscriverla. Presupponendo l’obbligo d’iscrizione che a carico di una persona emerga l’esistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti, ne consegue che l’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero ed è comunque sottratto, in ordine all’an e al quando, al sindacato del giudice, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del p.m. negligente (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. V, 27 marzo 1999, rv. 214866, Sez. I 11 marzo 1999, rv. 213827, Sez. V, 26 maggio 1998, rv. 211968; Sez. I, 27 marzo 1998, rv. 210545, e numerose altre conformi)»; Cass., sez. unite, 24 settembre 2009, n. 40538, Lattanzi, sopra richiamata nei passaggi più rilevanti.
9. Cass., sez. V pen., 4 aprile 2019 – 6 agosto 2019, n. 36160, PMT c. ignoti.
10. N. Rossi, Iscrivere tempestivamente le notizie di reato. Il pm in bilico tra precetti virtuosi e potenti remore?, in questa Rivista online, 18 giugno 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/iscrivere-tempestivamente-le-notizie-di-reato-il-pm-in-bilico-tra-precetti-virtuosi-e-potenti-remore.
11. G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della “legge Cartabia”, in Sistema penale, 15 ottobre 2021; L. D’Ancona, Riforma del processo penale e giudice per le indagini preliminari, in questa Rivista online, 9 novembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/riforma-del-processo-penale-e-giudice-per-le-indagini-preliminari, pubblicato in anteprima su Questione giustizia online, ora in questo fascicolo.
12. G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, Torino, 2020, p. 109.
13. Cass., sez. II penale, 14 maggio 2019, n. 37479, Costanzo.
14. F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2000, p. 424.
15. Ivi, p. 428.