Magistratura democratica

Il giudice di cognizione di fronte alla cd. “riforma Cartabia”

di Andrea Natale

La legge delega n. 134 del 2021 contiene poche norme dedicate alla riforma della fase del giudizio dibattimentale. Nondimeno, l’impianto complessivo della riforma incide su molti snodi – “a monte” e “a valle” della fase del giudizio – che finiscono necessariamente con il modificare la fisionomia del giudice di cognizione, chiamato a un nuovo approccio nella relazione con le parti processuali e, financo, con il cuore del suo lavoro: il metodo di ricerca della verità processuale, l’assoluzione del non colpevole e l’imposizione al colpevole della “giusta pena”.

1. Premessa / 2. Il giudice e l’imputato: il processo in assenza / 3. Il giudice e l’imputato: altre questioni / 4. Il giudice e la persona offesa / 5. Il giudice, prima del dibattimento / 6. Il giudice e il dibattimento

 

1. Premessa

La legge delega n. 134 del 2021 sembra contenere solo poche norme dedicate alla riforma della fase del giudizio dibattimentale, soprattutto se queste si paragonano alle numerose previsioni rivolte alla fase delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare e dei giudizi di impugnazione (in particolare al giudizio di appello).

Nondimeno, l’impianto complessivo della riforma incide su molti snodi – “a monte” e “a valle” della fase del giudizio – che finiscono necessariamente con il modificare – in qualche modo – la fisionomia del giudice di cognizione, chiamato a un nuovo approccio nella relazione con le parti processuali e, financo, con il cuore del suo lavoro: la ricerca della verità processuale, l’assoluzione del non colpevole e l’imposizione al colpevole della “giusta pena” (giusta perché non solo retributiva).

 

2. Il giudice e l’imputato: il processo in assenza

Il disegno riformatore prende sul serio la questione del processo in assenza[1]. Il legislatore delegante manifesta infatti di volere assecondare – dandole esplicito riconoscimento normativo – l’idea di fondo che traspare da ripetuti arresti della giurisprudenza della Corte Edu[2], dalla normativa UE (direttiva comunitaria 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio) e dalla stessa giurisprudenza di legittimità[3]: l’art. 1, comma 7, lett. a della legge n. 134/2021 impone infatti al legislatore delegato di introdurre disposizioni con le quali si preveda «che il processo possa svolgersi in assenza dell’imputato solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una sua scelta volontaria e consapevole». 

Ciò che rileva – nella prospettiva del legislatore delegante – deve essere la consapevolezza della pendenza del “processo” e non del “procedimento”, così chiarendo lo scarto semantico che oggi sembra sussistere sul piano testuale tra le previsioni dettate dall’art. 420-bis cpp e la disciplina sovranazionale (scarto testuale che - è bene chiarirlo - è stato limitato con gli interventi della giurisprudenza di legittimità sopra evocati). È in questa prospettiva che i criteri di delega dettati dall’art. 1, comma 7, si soffermano ulteriormente sulle forme di notifica del decreto che dispone il giudizio («a mani proprie, o con altre modalità idonee a garantire che l’imputato venga a conoscenza della data e del luogo del processo» - art. 1, comma 7, lett. b, l. n. 134/2021); sul fatto che si possa procedere in assenza quando «il giudice ritenga provato che l’imputato ha conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una scelta volontaria e consapevole» (art. 1, comma 7, lett. c, l. n. 134/2021).

In questa rinnovata cornice – che evidentemente intende rafforzare i presidi di garanzia dell’imputato in relazione al processo in absentia – il giudice si troverà di fronte a due possibilità: (i) le condizioni per procedere in assenza sussistono; (ii) le condizioni per procedere in assenza non sussistono.

Nel caso in cui non siano soddisfatte le condizioni per procedere in assenza, il giudice pronuncerà sentenza inappellabile dichiarativa dell’improcedibilità dell’azione penale [art. 1, comma 7, lett. e, l. n. 134/2021). 

Il fatto che la sentenza di non doversi procedere sia inappellabile, evidentemente, responsabilizza in modo estremamente significativo il giudice di primo grado, ponendo sulle sue spalle l’osservanza del principio di obbligatorietà della legge penale. Potrebbe suscitare qualche dubbio l’inappellabilità di tale determinazione del giudice di primo grado (che può sempre sbagliarsi…). Ma il tema si sdrammatizza, posto che la sentenza dichiarativa dell’improcedibilità dell’azione penale è revocabile (come accade per altre ipotesi di improcedibilità – cfr. art. 345 cpp).

Dopo la sentenza di “non doversi procedere”, infatti, le ricerche dell’imputato debbono proseguire per un lasso di tempo che deve protrarsi sino al decorso del doppio dei termini di prescrizione (con l’avvertenza che la disciplina della prescrizione, alla luce dell’art. 2 l. n. 134/2021, opera solo in primo grado). 

Il corso della prescrizione – nel periodo successivo alla emissione della sentenza di improcedibilità dell’azione penale per insussistenza dei presupposti per procedere in assenza e nel periodo in cui perdurano le ricerche dell’imputato – è sospeso. Nello stesso periodo, il giudice – su richiesta di parte – potrà assumere «le prove non rinviabili, osservando le forme previste dal dibattimento».

Il tempo dell’oblio – oltre il quale il legislatore delegato dovrà prevedere la definitiva estinzione della pretesa punitiva – è fissato nel doppio dei termini di prescrizione stabiliti dall’art. 157 cp (si noti che non è richiamata la previsione dell’art. 161 cp). Decorso il doppio dei termini di prescrizione, potrà cessare ogni ricerca dell’imputato e la sentenza dichiarativa dell’improcedibilità dell’azione penale potrà dirsi consolidata.

Ove, invece, le ricerche dell’imputato abbiano esito positivo, il sistema immaginato dal legislatore delegante prevede che: l’imputato sia invitato a dichiarare o eleggere domicilio; il giudice revochi la sentenza dichiarativa dell’improcedibilità dell’azione penale, fissando udienza per la prosecuzione del procedimento, con provvedimento che dovrà essere notificato all’imputato in modo tale che sia assicurata la sua effettiva conoscenza della data e luogo del “processo”.

Nel caso in cui il giudice ritenga, viceversa, che le condizioni per procedere in assenza sussistono, la disciplina relativa al giudizio di primo grado non presenta particolari novità. Il giudice potrà procedere – come oggi – in assenza dell’imputato.

Decisamente innovativa risulta, però, la soluzione immaginata dal legislatore per l’ipotesi che l’imputato giudicato in assenza nel corso del giudizio di primo grado sia stato condannato. In questo caso, infatti, la sentenza che condanna l’imputato giudicato in assenza dal giudice di primo grado potrà essere impugnata solo dal diretto interessato personalmente (quando ciò è possibile) o dal difensore dell’imputato assente, in forza di «specifico mandato, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza» (art. 1, comma 7, lett. h, l. n. 134/2021).

L’esistenza di uno specifico mandato rilasciato dopo la sentenza di condanna in primo grado, infatti, costituisce un evidente elemento di conoscenza del processo

L’impossibilità per il difensore di procurarsi uno specifico mandato dopo l’emissione della sentenza di primo grado, viceversa, può porre in discussione la solidità della valutazione fatta dal giudice di primo grado. 

La conseguenza tratteggiata dal legislatore delegante è radicale e “molto forte”, e mira a evitare di impegnare i giudici dei successivi gradi di giudizio in attività processuali che, potenzialmente, potrebbero essere poste nel nulla con il rimedio della rescissione del giudicato (si allude all’odierno art. 629-bis cpp).

Si prevede infatti che la decisione di condanna emessa in primo grado in assenza dell’imputato – ove non vi sia uno specifico mandato a impugnare successivo alla sentenza – sia destinata a diventare irrevocabile e, tendenzialmente, a essere posta in esecuzione. 

Il legislatore, però, ha inteso assicurare un recupero di garanzie, demandando al legislatore delegato l’individuazione del catalogo di «rimedi successivi a favore dell’imputato e del condannato giudicato in assenza senza avere avuto effettiva conoscenza della celebrazione del processo» (art. 1, comma 7, lett. g, l. n. 134/2021). Il criterio di delega evoca esplicitamente le previsioni dell’art. 9 della direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali[4]. Il contenuto del diritto stabilito dalla fonte nazionale – che gli Stati membri debbono assicurare – è delineato come «il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria». È presto per dire la direzione che prenderà il decreto delegato, molti essendo i punti su cui dovrà esercitarsi il legislatore delegato: (i) la sede in cui “riesaminare” la sussistenza del presupposto per procedere in assenza (incidente di esecuzione? Altro rimedio rescissorio? Ad opera di quale autorità giudiziaria?); (ii) la delimitazione dei termini entro i quali esperire il rimedio; (iii) nel caso in cui l’esecuzione della condanna sia già in atto, le modalità con cui decidere sullo status libertatis; (iv) il riparto dell’onere probatorio in ordine alla questione della sussistenza/insussistenza di presupposti per procedere in assenza. Molto, dunque, dipenderà dal come verrà esercitata la delega.

Qui ci si può solo limitare a dire che le previsioni dell’art. 1, comma 7, l. n. 134/2021 imporranno al giudice della cognizione di prendere estremamente sul serio la questione del giudizio in assenza. 

Le conseguenze delle decisioni sul punto, infatti, saranno estremamente serie: vuoi per il rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale; vuoi per il rispetto delle garanzie che debbono essere assicurate all’imputato (si allude non solo al diritto di difesa, ma anche alla libertà personale, ove la sentenza venga posta in esecuzione).

Ma non solo: con l’esercizio della delega dettata dall’art. 1, comma 7, lett. h, si limiterà il numero di giudizi di appello, con evidente effetto deflativo sulle corti di appello; tuttavia, tale effetto deflativo potrebbe essere comunque frustrato da un approccio superficiale alla delibazione sulla sussistenza dei presupposti per procedere in assenza, non potendosi comunque escludere che – una volta esperiti con successo i rimedi rescissori che saranno introdotti – si possa determinare una moltiplicazione delle rescissioni di giudicati e, conseguentemente, una ripetuta duplicazione dell’attività dei giudici di primo grado; il dispendio di attività giudiziaria sarà minore, ma non potrà dirsi escluso.

 

3. Il giudice e l’imputato: altre questioni

Tornando alla fisiologia e ipotizzando dunque un processo con imputato in presenza (o con un assente autenticamente consapevole), occorre dire che il disegno riformatore sembra implicare una serie di ulteriori trasformazioni nella relazione processuale tra giudice e imputato.

Il legislatore delegato prevede l’ampliamento del catalogo di reati per cui è possibile disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova (istituto da estendere «a ulteriori specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto» – art. 1, comma 22, l. n. 134/2021).

Ciò imporrà al giudice – ma prima ancora a tutto il sistema giudiziario e agli uffici di esecuzione penale esterna – di immaginare un sistema di misure di comunità capaci di dare corpo effettivo alle indicazioni del legislatore delegante; è, cioè, necessario che si assicuri – nel recepimento della delega, ma (in futuro) anche nel comportamento degli organi giurisdizionali – che il riferimento ai «percorsi risocializzanti o riparatori» non si risolva in una elegante formula che ci riconcilia – ma solo sulla carta – con l’art. 27, comma 3, della Costituzione. E il recepimento di tale criterio di delega imporrà ovviamente al giudice di soffermarsi con maggior cura sulla personalità dell’imputato, al quale potrà essere proposto un percorso risocializzante anche per reati che – potenzialmente – hanno una dimensione non necessariamente bagatellare. Calibrare quei percorsi risocializzanti (o riparatori) richiederà occhio attento da parte del giudice; sul reato, ma anche sull’imputato.

Ancora: la legge delega propone una nuova concezione della pena da irrogare all’imputato. L’art. 1, comma 17 della legge n. 134/2021 prevede che il legislatore delegato introduca una nuova disciplina delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi. Il tema è oggetto di altro contributo pubblicato in questo fascicolo[5]. Oltre a far rinvio alle considerazioni ivi sviluppate, qui ci si limita a evidenziare come il complessivo ripensamento del sistema sanzionatorio delineato dalla riforma sembra voler privilegiare in modo forte l’applicazione di misure sanzionatorie diverse dalla detenzione in carcere – l’art. 1, comma 17, lett. e, l. n. 134/2021 prevede che le pene detentive brevi possano essere sostituite: con la pena pecuniaria (in sostituzione della pena detentiva sino a un anno); con il lavoro di pubblica utilità (in sostituzione di condanne sino a tre anni di pena detentiva); con la semilibertà o la detenzione domiciliare (in sostituzione di condanne sino a tre anni di pena detentiva). 

Con l’ampliamento delle ipotesi di applicazione delle sanzioni sostitutive della pena detentiva (fino a quattro anni di reclusione) e dello stesso catalogo di misure sanzionatorie cui il giudice della cognizione potrà attingere per applicare all’imputato “la giusta pena”, al giudice della cognizione sarà richiesto un deciso mutamento di approccio alla questione sanzionatoria. 

Il giudice potrà applicare «le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (…) solo quando il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato» e solo ove il giudice ritenga che esse «assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati» (art. 1, comma 17, lett. c, l. n. 134/2021).

Il recepimento della delega imporrà al giudice di estendere ulteriormente il campo della sua indagine: «l’oggetto del processo penale si dovrà per forza di cose ampliare per ricomprendere una più approfondita indagine sulla personalità dell’imputato e la formulazione di ipotesi trattamentali dei condannati»[6]; il che imporrà al giudice della cognizione di prendere sul serio l’art. 27, comma 3, Cost. e di prendere altrettanto sul serio quanto, già oggi, dispone l’art. 187 cpp per cui sono oggetto di prova anche i fatti che si riferiscono alla determinazione della pena. E ciò imporrà al giudice di «dismettere gli abiti dello storico e di volgere lo sguardo al futuro delle persone giudicate»[7]

Non è dato sapere ora come il legislatore delegato darà corpo ai criteri di delega dettati dall’art. 1, comma 17, molte essendo le soluzioni ipotizzabili: si costruirà un modello in cui le sanzioni sostitutive verranno “riempite di contenuti” in sede esecutiva dalla magistratura di sorveglianza, ovvero, si tenterà di costruire un modello processuale in cui i contenuti delle sanzioni sostitutive saranno delineati dal giudice della cognizione? E quali saranno gli strumenti processuali messi a disposizione del giudice per compiere tali valutazioni? Si declinerà una procedura in cui si separerà l’affermazione di responsabilità dall’imposizione della sanzione (all’esito di opportuni accertamenti), sul modello del sentencing di matrice anglosassone? O si deciderà su responsabilità e sanzione in un unico momento? E quale sarà il coinvolgimento dell’imputato nell’elaborazione di tali alternative alla sanzione detentiva (coinvolgimento che è da ritenere necessario soprattutto per il caso della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, applicabile solo se il condannato “non si oppone” e che potrebbe addirittura determinare - ex art. 1, comma 13, lett. e, l. n. 134/2021 - l’inappellabilità della sentenza)? E quale sarà il ruolo degli uffici di esecuzione penale esterna (e quanto sarà sostenibile per questi uffici un eventuale coinvolgimento in tali indagini, prima dell’irrogazione di una condanna a pena sostitutiva, considerato il loro impegno in materia di MAP e di misure alternative alla detenzione?).

Ma, al netto di tutte queste incertezze (che dipendono da come verrà esercitata la delega), un dato è certo: la riforma intende imprimere al sistema sanzionatorio un mutamento di prospettiva, fortemente informato alle istanze di risocializzazione. Del resto, «il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie»[8]

Conseguentemente, al giudice penale sarà richiesto di prendere estremamente sul serio la questione sanzionatoria, guardando anche – e, forse, soprattutto – all’imputato. Il giudice penale dovrà interrogarsi – a fondo e autenticamente – su quali possano essere i percorsi sanzionatori maggiormente funzionali alla rieducazione dell’imputato; ciò richiederà un mutamento di approccio culturale rispetto alla tradizionale istanza retributiva e una accresciuta sensibilità culturale del giudice rispetto alla possibilità che – con la condanna – possa instaurarsi un autentico percorso di risocializzazione. Perché – come ha ricordato più volte la Consulta – il «volto costituzionale della pena»[9] esige che le istanze retributive e special-preventive debbano essere comunque «coerenti con il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»[10]. La realizzazione di tale principio costituzionale – giustamente definito dalla Consulta «impegnativo»[11] – potrà forse acquisire nuova forza con il recepimento della delega dettata dall’art. 1, comma 17, legge n. 134 del 2021. Ma molto dipenderà dalla cultura dei giudici.

Se i giudici non si approprieranno di questa nuova visione della pena, il sistema giudiziario finirà con l’offrire alternative rieducative e risocializzanti soltanto a chi è già pienamente integrato in società, offrendo viceversa alle persone socialmente svantaggiate la solita risposta: il carcere.

Il mutamento di approccio e relazione tra giudice e imputato sarà anche imposto dal fatto che il legislatore delegato dovrà introdurre una disciplina che assicuri – «in ogni stato e grado del procedimento penale» – la possibilità di «accesso ai programmi di giustizia riparativa». Il tema della giustizia riparativa è oggetto di altro contributo, pubblicato in questo fascicolo[12]. Rimandando a quelle profonde e articolate riflessioni, qui ci si limita a evidenziare che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa – che devono coinvolgere imputato e vittima di reato, su base consensuale e nel rispetto della particolare posizione della vittima di reato – potrà avvenire anche «su iniziativa dell’autorità giudiziaria».

E anche sul terreno della giustizia riparativa, evidentemente, il giudice della cognizione dovrà impegnare una nuova sensibilità e una nuova intelligenza (anche organizzativa): il lavoro del giudice della cognizione non potrà risolversi solo nella verifica della fondatezza/infondatezza dell’ipotesi d’accusa, ma si dovrà spingere un passo oltre: per verificare se – e in che termini e con quale rilievo nel giudizio – sia possibile una ricomposizione della lacerazione sociale prodottasi con il reato.

 

4. Il giudice e la persona offesa

Il tema della giustizia riparativa, appena introdotto in chiusura del paragrafo che precede, chiaramente chiamerà il giudice a entrare in relazione anche con la persona offesa. Se la legge delega prevede che il giudice possa – anche di propria iniziativa – proporre alle parti l’accesso a «programmi di giustizia riparativa» (art. 1, comma 18, lett. c, l. n. 134/2021), occorre non trascurare che la valutazione sull’opportunità di formulare tale proposta dovrà essere illuminata dalla luce – non di una, ma – di due stelle polari: l’interesse della vittima di reato; l’interesse dell’autore di reato (art. 1, comma 18, lett. a, l. n. 134/2021).

Il giudice – domani più di ieri – dovrà dunque guardare non solo all’imputato, ma anche alla vittima di reato. 

Questo sguardo, questa comprensione dell’interesse della vittima di reato costituirà un ulteriore terreno d’impegno per il giudice, che, sino ad oggi, è stato culturalmente formato per governare un processo in cui il principale fuoco di interesse è l’imputato (l’assicurazione del rispetto delle garanzie; l’accertamento della sua responsabilità; la meritevolezza di pena).

Ma sul tema non si può indugiare oltre, pena un eccesso di superficialità. Qui è sufficiente – rimandando per il resto al contributo di Bouchard e Fiorentin pubblicato in questo fascicolo – segnalare il dato: l’avvento della giustizia riparativa all’interno del processo penale (anche all’interno, posto che la giustizia riparativa non si esaurisce nel processo) imporrà al giudice un nuovo sguardo sugli attori processuali; gli imporrà l’acquisizione di una diversa sensibilità culturale; gli imporrà l’acquisizione di nuovi saperi, non solo “giudiziari”.

Ma lo sguardo del giudice sulla persona offesa non potrà fermarsi alla giustizia riparativa. 

Se è immaginabile che i percorsi di giustizia riparativa quantitativamente non rappresenteranno la consuetudine, è, viceversa, immaginabile che la riparazione dei torti subiti dalla persona offesa assumerà un rilievo sempre maggiore nel processo penale che (forse) prenderà corpo: (i) perché si amplia il catalogo dei reati per cui è possibile esperire percorsi di messa alla prova che si prestino a percorsi risocializzanti, ma anche riparatori (art. 1, comma 22, lett. a, l. n. 134/2021); (ii) perché si amplia il perimetro di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, stabilendo che – nella valutazione della particolare tenuità dell’offesa – si possa tenere conto anche della condotta susseguente al reato; riferimento – quello relativo alla condotta susseguente al reato – che evoca anzitutto (sebbene non solo) il rilievo da attribuire a condotte riparatorie (art. 1, comma 21, lett. b, l. n. 134/2021)[13]; (iii) perché – nell’ampliare il catalogo dei reati per cui si può applicare la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto – si esclude che detta causa di non punibilità possa essere applicata a reati che rientrano nel perimetro di applicazione della cd. “Convenzione di Istanbul” «sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica» (il che imporrà al giudice di avere una particolare considerazione della posizione della vittima, soffermandosi anche sulle relazioni tra vittima e autore di reato e sui motivi a delinquere che hanno animato l’imputato)[14]; (iv) perché – con l’ampliamento delle ipotesi di perseguibilità a querela (art. 1, comma 15, l. n. 134/2021) – assumerà maggior rilievo la causa di estinzione del reato oggi codificata dall’art. 162-ter cp.

L’ultimo riferimento – relativo all’estinzione del reato in materia di reati perseguibili a querela – introduce un ulteriore tema di riflessione. L’art. 1, comma 15, lett. d, l. n. 134/2021 prevede che «l’ingiustificata mancata comparizione del querelante all’udienza alla quale sia stato citato in qualità di testimone» comporti la remissione tacita della querela. Non sappiamo – mentre si scrive – se il legislatore delegato intenderà tipizzare le ipotesi di mancata giustificazione della comparizione; né sappiamo se il legislatore delegato declinerà una procedura incidentale per accertare il carattere ingiustificato della mancata comparizione. 

Ciò che qui preme sottolineare è il fatto che – anche ove il legislatore delegato si limitasse a riprodurre nel decreto delegato la formula dettata dal criterio di delega – il giudice avrebbe il dovere di domandarsi se la mancata comparizione sia – o meno – «ingiustificata». Un simile accertamento – cadendo su un tema rilevante per il giudizio (l’estinzione del reato) – deve necessariamente essere esperibile anche d’ufficio. Il giudice dovrà dunque farsi carico di valutare il carattere ingiustificato della mancata comparizione della persona offesa; tale accertamento non è certo teso a scongiurare il rischio che vengano dichiarati estinti reati per cui la mancata comparizione del querelante è legata a situazioni di manifesto disinteresse della persona offesa per l’esito di un procedimento per reato perseguibile a querela di parte (situazione purtroppo ricorrente); la doverosa attenzione del giudice alle ragioni della mancata comparizione sarà, piuttosto, necessaria nei casi in cui emergano elementi suggestivi del fatto che la mancata comparizione del querelante possa essere legata a gravi intimidazioni che la persona offesa potrebbe aver subìto ad opera dell’autore di reato (situazione che - come insegna l’esperienza - non è mai possibile escludere con riguardo a determinate tipologie di reato).

 

5. Il giudice, prima del dibattimento

Il dibattimento è una risorsa scarsa. La scarsità di filtri collocati a monte della fase dibattimentale – talora giustificata con la necessità di prestare ossequio al dettato dell’art. 112 Cost., talaltra legata a pigre prassi giurisprudenziali – ha determinato effetti paradossali: una invasione delle aule dibattimentali; un allungamento dei tempi processuali; una scarsa adesione ai riti alternativi; un tasso allarmante di assoluzioni all’esito dei giudizi dibattimentali: allarmante, ovviamente, non per l’esito assolutorio verificatosi nei processi, ma per il fatto che un tasso elevato di assoluzioni – quando si scosta da livelli fisiologici, difficilmente determinabili – segnala una disfunzione, legata a un esercizio dell’azione penale che riesce a essere poco selettivo; con buona pace dell’ossequio che si intende prestare al principio di obbligatorietà dell’azione penale e con buona pace dell’idea che – per l’imputato innocente – lo stesso processo è una pena “in sé”[15].

Per rispondere al fallimento del sistema dei filtri di accesso al giudizio dibattimentale (e, segnatamente, al fallimento dell’udienza preliminare) – che è un oggettivo problema del processo penale accusatorio di matrice italiana –, il legislatore delegante, ricalcando alcuni suggerimenti proposti dalla “Commissione Lattanzi”, immagina di agire su più fronti.

Da un lato, si immagina di rafforzare il vaglio che deve essere operato dal gup, modificando la regola di giudizio da utilizzare in udienza preliminare. Il legislatore delegante prevede sia introdotta una regola di giudizio in base alla quale il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere «quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna» (art. 1, comma 9, lett. m, l. n. 134/2021). Con il che il legislatore delegante preconizza l’abbandono del criterio oggi dettato dall’art. 425, comma 3, cpp, per cui il gup pronuncia sentenza di non luogo a procedere «anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio». Il mutamento della regola di giudizio, evidentemente, intende restringere il numero di casi che giungeranno all’esame del giudice dibattimentale. Il tema sarà oggetto di qualche ulteriore riflessione in conclusione di questo lavoro.

Dall’altro lato, si immagina di rinunciare alla celebrazione dell’udienza preliminare, estendendo il catalogo di reati per cui il pubblico ministero può disporre la citazione diretta a giudizio dell’imputato (per i reati «puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento»; art. 1, comma 9, lett. l, l. n. 134/2021).

Ma, anche nei casi in cui si prevede di poter rinunciare all’intervento del gup, il legislatore delegante ha ritenuto indispensabile conservare un controllo selettivo dei flussi di processi, necessario a impedire che la rinuncia al filtro dell’udienza preliminare finisca con lo spostare il problema solo a valle, scaricandolo sul giudice del dibattimento; sicché – all’ampliamento del catalogo di reati per cui è possibile procedere a citazione diretta a giudizio ad opera del pm – si accompagna la previsione di introdurre (in sede pre-dibattimentale) un’udienza in camera di consiglio, che nelle aspettative dovrebbe avere la funzione di effettuare un forte filtro, capace di selezionare l’accesso dei processi alle aule dibattimentali. 

In quell’udienza filtro, il giudice dovrà: (i) vigilare sulla corretta formulazione delle imputazioni, dichiarando – nel caso il pm non provveda alle modifiche necessarie – la nullità dell’imputazione con restituzione degli atti al pm (art. 1, comma 12, lett. b e c, l. n. 134/2021); (ii) emettere sentenze di non luogo a procedere allorché gli elementi acquisiti «non consentono una ragionevole previsione di condanna» (art. 1, comma 12, lett. d, l. n. 134/2021), non essendo escluso che all’interno di tale prognosi rientrino anche le valutazioni sulla particolare tenuità del fatto, il cui ambito applicativo verrà significativamente ampliato, con estensione della portata di tale causa di non punibilità ai reati punibili con la pena detentiva non superiore – nel minimo – a due anni di reclusione (cfr. art. 1, comma 21, lett. a, l. n. 134/2021, ove si limita l’estensione della portata applicativa della causa di non punibilità ai reati non rientranti nel perimetro di reati considerati dalla Convenzione di Istanbul)[16]; (iii) delibare sulle richieste di definizione del processo con riti alternativi (art. 1, comma 12, lett. e, l. n. 134/2021), ivi compresa – evidentemente – la possibilità di disporre la sospensione del processo con messa alla prova (che - giova evidenziare per inciso - dovrebbe trovare un più esteso ambito di applicazione alla luce del criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 22, l. n. 134/2021)[17]; (iv) verificare se – prima del giudizio – non sia maturata qualche causa di estinzione del reato, eventualmente legata a condotte riparatorie (e, al riguardo, si segnala il maggior rilievo che potrebbe assumere la disciplina dell’art. 162-ter cp, in conseguenza dell’estensione del catalogo dei reati contro il patrimonio e contro la persona che il legislatore delegato è chiamato a declinare, in adempimento del criterio di delega contenuto nell’art. 1, comma 15, l. n. 134/2021).

Si tratta, almeno in astratto, di una griglia selettiva molto rilevante, chiaramente indicativa della volontà del legislatore di impegnare la risorsa del dibattimento in un numero di casi decisamente inferiore a quello che si registra oggi. 

Ne è riprova il fatto che nella legge delega si prefigura altresì l’introduzione di meccanismi tesi a incentivare significativamente l’adesione ai riti alternativi: prevedendo che – nel decreto penale di condanna – il tasso di sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria[18] sia di maggior favore (art. 1, comma 17, lett. l, l. n. 134/2021), così da disincentivare le opposizioni a decreto penale di condanna; rafforzando il carattere premiale del patteggiamento (art. 1, comma 10, lett. a e comma 17, lett. i, l. n. 134/2021); prevedendo alcune significative novità in materia di giudizio abbreviato.

Le previsioni in tema di giudizio abbreviato meritano qualche ulteriore riflessione. 

Da un lato, si prevede che – in caso di mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa all’esito del giudizio abbreviato – la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto (art. 1, comma 10, lett. b, n. 2, l. n. 134/2021); si tratta di un evidente incentivo per l’accesso al rito abbreviato (e di un altrettanto evidente incentivo a non proporre impugnazioni puramente dilatorie). 

Dall’altro lato, va considerata la previsione dell’art. 1, comma 10, lett. b, n. 1, l. n. 134/2021: con tale criterio di delega si ipotizza che le condizioni di ammissibilità del giudizio abbreviato condizionato ad acquisizioni probatorie debbano essere meno stringenti: fermo il requisito della necessità dell’integrazione probatoria, l’ulteriore criterio di valutazione per la decisione sul giudizio abbreviato condizionato non sarà più rappresentato dalla compatibilità «con le finalità di economia processuale proprie del procedimento»; per valutare l’ammissibilità del giudizio abbreviato condizionato, il giudice dovrà invece chiedersi «se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale». È di tutta evidenza che un simile intervento normativo amplia significativamente il perimetro di casi in cui potrà essere ammessa una richiesta di giudizio abbreviato condizionato; tanto più nei casi in cui – come nel procedimento a citazione diretta – tale valutazione sarà richiesta a un giudice del settore dibattimentale[19]; ciò che potrebbe addirittura condurre tale rito speciale a rappresentare la scelta processuale maggiormente coltivata dagli imputati[20], che avrebbero maggiore interesse a coltivare la – e maggiore facilità di accesso alla – cd. «alternativa inquisitoria»[21].

Nel caso in cui nessuna di queste possibili definizioni alternative abbia arrestato l’incedere del procedimento (nessun vizio nell’accusa; nessuna richiesta di definizione con riti alternativi; sussistenza di una ragionevole prognosi di condanna), il giudice di questa nuova udienza pre-dibattimentale dovrà fissare la data per la celebrazione del dibattimento. La legge delega chiarisce che il dibattimento dovrà essere celebrato, però, da un giudice diverso da quello dell’udienza filtro (art. 1, comma 12, lett. a ed e, l. n. 134/2021).

Il reticolo di incompatibilità tra giudice dell’udienza pre-dibattimentale e giudice dell’istruzione dibattimentale che determinerà il recepimento della delega farà sorgere – soprattutto nei tribunali di piccole dimensioni – serie criticità sotto il profilo organizzativo. Esse sono state efficacemente e crudamente messe in luce in altro contributo pubblicato in questo fascicolo[22] e dovranno essere tenute in serissima considerazione dal legislatore delegato (prima), da chi ha la responsabilità di disegnare le piante organiche (poi) e da chi – dovendo distribuire le risorse all’interno dei tribunali – ha la responsabilità di dirigere gli uffici giudiziari (sempre).

Ma – al netto di tali criticità (evidenti e difficilmente fronteggiabili) – resta un dato: con l’avvento della riforma, si immagina di dare una risposta al problema dell’inflazione dei giudizi dibattimentali e di assicurare un più accorto impiego di una risorsa che risulta tremendamente preziosa, quanto scarsa: il tempo da impegnare nella celebrazione del dibattimento penale. 

 

6. Il giudice e il dibattimento

Superate le forche caudine dell’udienza preliminare (o dell’udienza filtro in camera di consiglio), può finalmente avere inizio l’avventura dibattimentale.

Gli interventi che il legislatore delegante immagina di introdurre relativamente alla fase dibattimentale sono relativamente pochi. Essi non incidono sulle strutture portanti del giudizio dibattimentale e si limitano a pochi ritocchi, apparentemente di dettaglio.

Una prima previsione intende formalizzare sul piano normativo una prassi che – laddove i carichi di lavoro e i ruoli di udienza lo rendono possibile – è già positivamente sperimentata: esaurita la fase introduttiva del dibattimento, il giudice dovrà provvedere alla predisposizione di un calendario di udienze per l’istruzione dibattimentale, laddove il processo non possa essere definito in una sola seduta. Il positivo impatto di una simile previsione (salutabile con favore) sull’efficienza processuale è però condizionato da alcuni fattori difficilmente governabili dal magistrato (si allude ai succitati carichi di lavoro). 

Una seconda modifica dell’attuale impianto del giudizio dibattimentale prevede che, nella fase relativa alle decisioni sulle prove, «le parti illustrino le rispettive richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell’ammissibilità delle prove ai sensi dell’articolo 190 del codice di procedura penale» (art. 1, comma 11, lett. b, l. n. 134/2021). Si tratta di un criterio di delega di cui è possibile dare una lettura per certi versi ancipite: da un lato, con l’enfasi posta sulla necessità che le richieste di prova siano oggetto di “illustrazione”, il legislatore delegante sembra voler offrire al giudice la possibilità di effettuare un vaglio maggiormente penetrante sull’ammissione delle prove, rinunciando a un’idea di verginità che era stata, viceversa, coltivata dalla cd. “legge Carotti” con la soppressione dell’esposizione introduttiva, originariamente codificata dall’art. 493 cpp; dall’altro lato, però, il criterio di delega pone enfasi sul fatto che l’illustrazione delle parti deve limitarsi a quanto attenga all’ammissibilità della prova e «nei limiti strettamente necessari» a tale valutazione[23]. L’impatto di tale criterio di delega sulla possibilità – per il giudice – di acquisire un più consapevole “governo” dell’istruzione dibattimentale (e sulla possibilità di “gestire” in modo più efficiente il processo) dipenderà, dunque, dal come verrà attuato il criterio di delega in parola.

Una terza previsione lambisce il tema della prova scientifica. L’art. 1, comma 11, lett. c, l. n. 134/2021 declina un criterio di delega per cui si dovrà prevedere che il giudice – prima di procedere all’esame incrociato di consulenti tecnici e/o periti – abbia la possibilità di esaminare gli elaborati scritti predisposti dagli ausiliari del giudice o delle parti[24]. Secondo taluni si tratta di una novità criticabile, che rischia di pregiudicare la “verginità” del giudice e, al tempo stesso, di snaturare il momento dell’esame di periti e consulenti (che - nella sistematica del codice - è una prova orale, esposta ai tentativi di falsificabilità connaturali alla cross-examination)[25]. Vi sono, però, forti ragioni di segno contrario che portano a guardare con favore a tale previsione. In primo luogo, una simile previsione non impedirà – a chi sappia farlo e ne abbia gli argomenti – di procedere, durante la successiva cross-examination, alla falsificazione della ricostruzione scientifica proposta negli elaborati scritti, di cui sia stato anticipato il deposito. In secondo luogo, è necessario abbandonare un’idea eccessivamente ingenua sul cosa debba essere la “verginità” del giudice: è fin troppo noto che, oramai, viviamo in un mondo sempre più complesso in cui l’accertamento giudiziario impone di accedere a saperi specialistici a elevato tasso di specializzazione, con approdi scientifici sempre più spesso esposti a controversia (non sempre disinteressata); in questo scenario, è inimmaginabile che l’organo che deve presiedere a un dibattimento – valutando l’ammissibilità di domande, ponendone a sua volta, in funzione di una decisione che graverà sulle sue stesse spalle – debba assistere all’esame di periti e consulenti senza aver avuto la preliminare possibilità di giungere adeguatamente informato delle prospettazioni (anche scientifiche) delle parti.

Una terza previsione – che può avere un qualche impatto sulla fisionomia del giudizio dibattimentale – è legata al possibile recepimento del criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 8, con cui si immagina la possibilità che – in alcuni casi e con il consenso delle parti – la partecipazione all’udienza possa avvenire a distanza. Il criterio di delega non offre ulteriori indicazioni che, pure, sarebbero preziose: se, cioè, si intenda alludere alla partecipazione a distanza delle sole parti; ovvero se il recepimento della delega possa spingersi perfino a ipotizzare l’assunzione “a distanza” di prove testimoniali; e, ancora, se – oltre al necessario consenso delle parti – residuino spazi d’intervento da parte del giudice (che potrebbe, nonostante un ipotetico consenso delle parti, ritenere funzionale alle esigenze del giudizio la celebrazione in presenza dell’atto). Molto, dunque, dipenderà da come verrà recepita la delega. Qui è sufficiente dire che il riferimento alla necessità di consenso delle parti sdrammatizza molte delle grida di allarme sollevate – soprattutto in ambienti dell’avvocatura – contro il processo a distanza (che può semplicemente rappresentare un elemento di semplificazione di alcuni momenti processuali; a patto che al sistema giudiziario siano forniti adeguati strumenti tecnologici per supportare tale novità e, soprattutto, a patto che ciò avvenga in casi davvero limitati, posto che il processo a distanza non può rappresentare la normalità)[26].

Il legislatore delegante dedica poi attenzione a un tema che – con il recepimento della delega – avrà un sicuro impatto pratico sul sistema giudiziario, e sulla fase dibattimentale in particolare. Si allude alla disciplina dettata per i casi di «mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio». 

Sono noti gli assetti raggiunti sul punto – nel sistema oggi vigente – dalla giurisprudenza di legittimità a seguito della cd. “sentenza Bajrami[27]. In questo assetto giurisprudenziale s’innesta la legge delega (art. 1, comma 11, lett. d, l. n. 134/2021), in parte recependo e in parte superando gli equilibri individuati dalla giurisprudenza di legittimità. In linea con la giurisprudenza sopra evocata, si prevede che la riassunzione della prova dichiarativa debba avvenire su richiesta di parte. Tuttavia, il legislatore delegante sembra delineare un diverso assetto dei poteri del (“nuovo”) giudice sulla valutazione dell’ammissibilità di tale richiesta di prova: tale valutazione – in assenza di indicazioni di segno diverso nella legge delega – sembrerebbe dover essere operata alla stregua degli ordinari criteri di ammissione delle prove; il che sembra allargare – rispetto agli approdi giurisprudenziali raggiunti nella sentenza Bajrami – il perimetro del diritto delle parti a ottenere la riassunzione della prova[28]; la portata di tale intervento è però limitata nei casi in cui la prova dichiarativa di cui si chiede la riassunzione sia stata precedentemente assunta – nel contraddittorio con le stesse parti – e documentata con videoregistrazione; in questo caso, il diritto alla riassunzione della prova è più limitato, potendo il giudice ammettere la reiterazione dell’atto istruttorio «solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze» (che, evidentemente, sarà onere della parte allegare)[29]

Nulla viene detto nella legge delega sulla utilizzabilità degli atti dichiarativi assunti davanti al giudice diversamente composto. Ciò sembrerebbe consentire – salve diverse previsioni da parte del legislatore delegato – di ritenere confermato il principio di diritto affermato in giurisprudenza a ordinamento oggi vigente, per cui tali atti possano e debbano essere utilizzati[30]. D’altra parte, si tratta di atti non affetti da vizi di nullità; sicché la loro espunzione dal compendio probatorio – ove il legislatore delegante volesse disporre una simile causa di inutilizzabilità – rischierebbe di risolversi in un eccesso di delega. E che il legislatore delegante non abbia inteso introdurre alcuna inutilizzabilità in ordine alle prove precedentemente assunte è conclusione che risulta avvalorata da due dati: in primo luogo, il silenzio del legislatore delegante (in un sistema in cui, salve le prove “incostituzionali”, l’inutilizzabilità attiene alle sole prove acquisite «in violazione dei divieti stabiliti dalla legge» – art. 191, comma 1, cpp); in secondo luogo, il fatto che il legislatore delegante faccia riferimento alla mera «riassunzione» e non alla «rinnovazione» dell’atto di assunzione della prova dichiarativa (posto che solo la «rinnovazione» evoca la categoria della rinnovazione degli atti affetti da patologie, considerata dall’art. 185, comma 2, cpp).

Prima di concludere questa rapida ricognizione sulle trasformazioni che la riforma imprimerà al lavoro del giudice di cognizione, è però ineludibile confrontarsi con una domanda: con il mutamento della regola di giudizio (la ragionevole previsione di condanna), il dibattimento sarà ancora il luogo ove «difendersi provando», o diventerà il luogo ove «provare a difendersi»?

È un timore che trapela dalle opinioni di diversi accademici sentiti nel corso delle audizioni parlamentari svoltesi a partire dal deposito del ddl Bonafede; il mutamento della regola di giudizio – di cui si censura anche l’ambiguità semantica – costituirebbe infatti per l’imputato giunto a dibattimento «un’ipoteca molto seria»[31], perché caricherebbe il decreto che dispone il giudizio «di un significato accusatorio enorme», in conseguenza del quale l’imputato giungerebbe a dibattimento «con un macigno sulle spalle», con il rischio di porre in discussione la stessa presunzione di innocenza, costituzionalmente presidiata dall’art. 27 Cost.[32]. Ma le critiche non si fermano a questo aspetto: il mutamento della regola di giudizio, infatti, finirebbe anche con lo svilire l’idea del contraddittorio nella formazione della prova come tecnica di accertamento del fatto che la stessa Costituzione, all’art. 111, ha inteso identificare come la tecnica di accertamento «più affidabile»[33].

Si tratta, evidentemente, di osservazioni estremamente acute e da prendere in seria considerazione. Tuttavia, ogni analisi e valutazione della novella che si intende introdurre sarebbe riduttiva senza offrirsi al confronto con la realtà. 

E la realtà è che la regola di giudizio oggi vigente – quella della “sostenibilità dell’accusa in giudizio” – ha sostanzialmente fallito nella sua funzione di filtro di accesso al giudizio dibattimentale. 

La fotografia che la relazione illustrativa redatta per la presentazione del progetto della Commissione Lattanzi tratteggia è un’immagine in cui, a prevalere, sono le tinte fosche; ivi si constata «l’inefficacia dell’udienza preliminare a svolgere il ruolo filtro attribuitole dalla sistematica del codice del 1988»; così prosegue la Relazione: «nonostante i plurimi interventi di modifica, dopo trent’anni i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio (ossia nel 63% dei casi), essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 gg. Complessivamente, l’udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento. Va segnalato che, anche in Inghilterra, dove è nata come sbarramento delle imputazioni azzardate del privato, essa è stata trasformata in contraddittorio cartolare e alfine abbandonata, in favore di un filtro, a richiesta, davanti allo stesso giudice del trial». 

Su tale fallimento ha, evidentemente, inciso l’interpretazione estremamente riduttiva che la prassi giurisprudenziale ha dato del dettato dell’art. 425, comma 3, cpp; interpretazione che postula che il proscioglimento in udienza preliminare possa trovare giustificazione solo all’esito di una valutazione che – ammonisce oggi la giurisprudenza di legittimità – deve soffermarsi su valutazioni di ordine processuale (la sostenibilità dell’accusa) e non di merito (la plausibilità o meno dell’ipotesi accusatoria). 

Si tratta di un orientamento giurisprudenziale consolidato e solo raramente messo in discussione[34]. E della persistenza di tale diritto vivente il legislatore ha inteso prendere atto, provando a farsi carico – per ovviarvi – delle disfunzioni che, da esso, discendono.

Del resto – a richiedere un intervento sull’efficacia del filtro che seleziona l’accesso ai giudizi dibattimentali – sono esigenze di primario rilievo, anche costituzionale: altrimenti, oltre all’ingolfamento dei dibattimenti e al numero elevato di assoluzioni (che, oltre certi limiti, è sintomatico o di innocenti mandati a giudizio o di azioni penali male esercitate) si finirebbe – in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale – con il favorire un elevato tasso di assoluzioni dibattimentali (destinate a diventare irrevocabili), in luogo di sentenze di non luogo a procedere in udienza preliminare (potenzialmente suscettibili di revoca, ove emergano nuovi elementi utili a corroborare ipotesi accusatorie). 

Ma non ci si può sottrarre alle due questioni sollevate da chi critica la modifica della regola di giudizio nei termini ora in esame.

Prima questione: davvero il mutamento della regola di giudizio imprime una trasformazione del sistema processuale, marginalizzando il dibattimento fino a porsi in frizione con l’art. 111 Cost.?

Non credo. Il sistema che si intende introdurre mi sembra voglia perseguire un risultato: il contraddittorio nella formazione della prova è – e deve restare – il metodo ottimale per l’accertamento del fatto; esso tuttavia – come tutte le risorse scarse – deve essere utilizzato nei casi in cui esso sia davvero necessario e in grado di accrescere il livello di conoscenze (tant’è che si tratta di un metodo - che è anche una garanzia - che è rinunciabile con il consenso dell’imputato). 

Anche in ambito scientifico, determinati esperimenti di laboratorio – che hanno dei costi (in termini di denaro, tempo, anni di studio e mesi di preparazione) – vengono effettuati solo nel caso in cui le ipotesi scientifiche da sottoporre a sperimentazione siano connotate da una certa plausibilità. 

Così nel giudiziario: a fronti di ipotesi accusatorie che – all’esito di indagini preliminari informate al principio di completezza – risultano già intrinsecamente deboli, appare poco ragionevole esporre l’imputato alla sofferenza del processo, impegnando al tempo stesso una risorsa scarsa che rappresenta – e deve poter rappresentare efficacemente – un bene comune per il Paese.

Seconda questione: davvero il mutamento della regola di giudizio porrà un macigno sulle spalle dell’imputato? Davvero si introduce un’ipoteca seria, che pone a repentaglio la presunzione di innocenza dell’accusato?

La risposta è: dipende. Dipende dalla professionalità (e dalla deontologia) del giudice; dipende dalla professionalità di pubblico ministero e difensori. Anche dopo l’approvazione della riforma, le parti – ad onta di ciò che è stato deciso a monte (dal pm, dal gup o dal giudice dell’udienza filtro) – conservano, nel giudizio dibattimentale, la piena possibilità di confutare ipotesi accusatorie, introdurre elementi di prova, suggerire argomentazioni che spostino la iniziale prognosi di successo della prospettazione accusatoria sino alla soglia del dubbio ragionevole. 

Non è un’impresa impossibile e, alle parti, non sono sottratti gli strumenti per “giocare il gioco”.

È certamente innegabile la difficoltà di definire con esattezza i momenti del giudizio; la semantica non sempre è una scienza esatta. Sarà allora (e inevitabilmente) l’esperienza giudiziaria – la viva prassi giurisprudenziale – a dare corpo e interpretazione alla mutata regola di giudizio[35]; di cui – qui ed ora – è però importante cogliere il segno e la direzione.

 

 

1. Questione di cui questa Rivista si è più volte occupata. Per tutti, in ordine di pubblicazione: L. Vignale, Domicilio dichiarato o eletto e processo in absentia, in Questione giustizia online, 26 giugno 2014, Domicilio dichiarato o eletto e processo in absentia (questionegiustizia.it); Id., Processo in assenza ed elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio. L’art. 162 comma 4-bis cpp e le ragioni di una riforma, ivi, 26 settembre 2017, Processo in assenza ed elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio. L’art. 162 comma 4-bis cpp e le ragioni di una riforma (questionegiustizia.it); L. Fidelio, Il processo in assenza preso sul serio, ivi, 20 ottobre 2020, Il processo in assenza preso sul serio (questionegiustizia.it); L. Vignale, Processo in assenza: ancora tanti i nodi problematici irrisolti, ivi, 12 ottobre 2021, Processo in assenza: ancora tanti i nodi problematici irrisolti (questionegiustizia.it); F. Filice, I “finti inconsapevoli” alla prova del caso Regeni: una questione centrale per il contemperamento delle garanzie dell’imputato e dei diritti delle vittime, ivi, 15 dicembre 2021, I “finti inconsapevoli” alla prova del caso Regeni: una questione centrale per il contemperamento delle garanzie dell’imputato e dei diritti delle vittime (questionegiustizia.it).

2. Tra esse, in particolare, cfr. Corte Edu: Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985; Somogyi c. Italia, 18 maggio 2004; Sejdovic c. Italia, 10 novembre 2004; Cat Berro c. Italia, 25 novembre 2008. 

3. Cfr. per tutte: sez. unite, 28 novembre 2019 (dep. 17 agosto 2020), Rv. 279420 - 0; sez. unite, 28 febbraio 2019, n. 28912 (dep. 3 luglio 2019), Rv. 275716 - 0.

4. Art. 9 direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016: «Gli Stati membri assicurano che, laddove gli indagati o imputati non siano stati presenti al processo e non siano state soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 8, paragrafo 2, questi abbiano il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria. In tale contesto, gli Stati membri assicurano che tali indagati o imputati abbiano il diritto di presenziare, di partecipare in modo efficace, in conformità delle procedure previste dal diritto nazionale e di esercitare i diritti della difesa».

5. Cfr. R. De Vito, Fuori dal carcere? La “riforma Cartabia”, le sanzioni sostitutive e il ripensamento del sistema sanzionatorio.

6. Così R. De Vito, op. ult. cit.

7. Ibid.

8. Così, superando una precedente giurisprudenza, in cui si tendeva a circoscrivere la valenza del principio rieducativo alla sola fase trattamentale, Corte cost., n. 313/1990.

9. Corte cost., n. 50/1980.

10. Cfr. Corte cost., n. 149/2018 (in materia di limitazione ai benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo per i delitti di cui all’art. 630 cp e 289-bis cp aggravati).

11. Corte cost., n. 40/2019 (considerato in diritto 5.2).

12. Cfr. M. Bouchard e F. Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, anticipato su Questione giustizia online il 23 novembre 2021, Sulla giustizia riparativa (questionegiustizia.it).

13. L’art. 1, comma 21, lett. b della legge delega non vincola il legislatore delegato ad attribuire rilievo alle sole condotte riparatorie per valutare positivamente la condotta susseguente al reato. È, però, di intuitiva evidenza che una condotta riparatoria sarà uno dei principali elementi di valutazione che il giudice si troverà a prendere in considerazione.

14. Cfr. «Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica», approvata a Istanbul l’11 maggio 2011 e resa esecutiva in Italia con legge n. 77 del 2013. L’art. 1, comma 21 della legge n. 134/2021 prevede infatti che l’estensione delle ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto non si estenda ai reati tutelati dalla Convenzione di Istanbul. Quest’ultima prescrive infatti agli Stati aderenti di perseguire e punire i reati ad essa riconducibili, e tale dovere statuale è alla base della clausola di esclusione (art. 5, § 2 della Convenzione); il che, ragionevolmente, porta a limitare la portata applicativa dell’art. 131-bis cp, in ossequio al dovere di rispettare gli obblighi internazionali. Da notare che la Convenzione identifica il novero dei reati ad essa riconducibili utilizzando una duplice tecnica normativa: da un lato, declina un catalogo di reati ad essa esplicitamente riconducibili (artt. 32 ss.); dall’altro, con una norma definitoria di portata generale, riconduce al proprio perimetro ogni possibile fattispecie che sia riconducibile a una delle situazioni considerate dall’art. 3 della Convenzione. Anche in questo caso, occorrerà vedere come verrà recepita la delega. Qui basti dire che il criterio di delega imporrà – al legislatore delegato prima, ma, verosimilmente, al giudice penale, poi – una particolare considerazione della posizione della vittima, delle relazioni tra vittima e autore di reato e dei motivi a delinquere che hanno animato l’imputato; motivi a delinquere che risultano ampiamente valorizzati dall’art. 3 della Convenzione di Istanbul: «Articolo 3 – Definizioni. Ai fini della presente Convenzione: (a) con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; (b) l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; (c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; (d) l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; (e) per “vittima” si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui ai precedenti commi (a) e (b); (f) con il termine “donne” sono da intendersi anche le ragazze di meno di 18 anni».

15. Si potrebbe giungere – con un paradosso un po’ estremo – a dire che qualsiasi sentenza di assoluzione è un errore giudiziario: errore (del giudice) quando si assolve un colpevole; errore (di chi non ha “filtrato”, si chiami pm o gup) quando si è mandato a giudizio un innocente. Ma, evidentemente, si tratta di un paradosso…

16. Cfr. Convenzione di Istanbul (vds. nota 14).

17. Con una complicazione (che impegnerà prima il legislatore delegato e, poi, anche i giudici chiamati a delibare richieste di MAP: i reati per cui si estende la possibile applicazione della MAP dovranno essere reati «che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori da parte dell’autore, compatibili con l’istituto». Si tratterà, dunque, da parte dei giudici e da parte dell’UEPE, di elaborare percorsi di MAP coerenti con una simile indicazione normativa.

18. Anche se occorrerà verificare se il sopravvenire della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 53 l. n. 689/1981 modificherà il quadro – cfr. Corte cost., n. 28/2022.

19. Commentando l’analogo – seppur non identico – meccanismo immaginato dalla Commissione Lattanzi, è stato osservato come «l’accesso premiale al rito abbreviato condizionato si prospetta come una opportunità da valutare con attenzione anche perché non può escludersi, per intuibili ragioni, una certa disponibilità del giudice del dibattimento a concederlo» – G. Spangher, Il rito abbreviato condizionato ovvero l’ultima chiamata, in Giustizia insieme, 8 luglio 2021, Il rito abbreviato condizionato ovvero l’ultima chiamata - Giustizia Insieme.

20. Anche G. Spangher, op. ult. cit., ritiene che vari elementi possano «far assurgere a rito privilegiato» il giudizio abbreviato condizionato ad acquisizioni probatorie.

21. Per tale efficace terminologia, vds. A. Nappi, Guida al Codice di Procedura Penale, Giuffrè, Milano, 2007 (10ª ed.).

22. Cfr. R. Ianniello, Osservazioni critiche in merito alla udienza filtro per i procedimenti a citazione diretta, già anticipato su Questione giustizia online il 21 gennaio 2022, Osservazioni critiche in merito alla udienza filtro per i procedimenti a citazione diretta (questionegiustizia.it).

23. Nella relazione introduttiva all’emendamento governativo formulato sul ddl Bonafede, al riguardo si richiama un passaggio della relazione illustrativa predisposta dalla Commissione Lattanzi: «la previsione di un momento dialettico che accompagni le richieste di prova delle parti, lungi dal voler riesumare istituti già abbandonati per loro evidenti difetti, si propone come strumento di aiuto al giudice nello svolgimento del complesso onere di applicazione dell’art. 190 c.p.p.: seppur rivolta all’esclusione delle sole prove che siano manifestamente superflue o irrilevanti, la regola dell’art. 190 c.p.p. è applicata da un giudice che ha limitatissima conoscenza del fascicolo, il quale può trarre significativo vantaggio da una illustrazione mirata ad opera della parte che richiede la prova».

24. Art. 1, comma 11, lett. c, l. n. 134/2021: «prevedere, ai fini dell’esame del consulente o del perito, il deposito delle consulenze tecniche e della perizia entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame del consulente o del perito, ferma restando la disciplina delle letture e dell’indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione».

25. Si è concentrata sul secondo aspetto S. Quattrocolo, nel corso dell’audizione del 5 novembre 2020 davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati in relazione all’analoga previsione già presente nel ddl Bonafede (AC 2435) – resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it). La Relatrice ha, per esempio, rimarcato che la perizia e la consulenza tecnica nell’attuale codice di rito sono prove orali, non scritte, che si formano nell’escussione dibattimentale del perito e del consulente tecnico; la “prova”, dunque, non sarebbe la relazione dell’esperto, bensì l’esame dibattimentale dell’esperto. In definitiva – pur reputando utile il deposito anticipato degli elaborati – Quattrocolo ha evidenziato il rischio di trasformare le perizie e la consulenza tecnica in una prova scritta.

26. Sul tema, si rimanda a M. Guglielmi e R. De Vito, Lontano dagli occhi, lontano dal cuore? Il remoto e la giustizia, in Questione giustizia online, 24 aprile 2020, Lontano dagli occhi, lontano dal cuore? Il remoto e la giustizia (questionegiustizia.it), ove sono raccolti altri contributi non solo penalistici. Nella loro riflessione, Guglielmi e De Vito, muovendo dal postulato per cui il «recupero di efficienza e di qualità» della giurisdizione non possa essere «mai indifferente ai suoi valori», ricordano che «in alcuni snodi essenziali della giurisdizione sia indispensabile “guardare in faccia” le persone, guardarsi in faccia tra diversi protagonisti della scienza giudiziaria».

27. Sez. unite, 30 maggio 2019, n. 41736 (dep. 10 ottobre 2019), Rv. 276754.

28. Infatti, secondo sez. unite, sent. ult. cit., Rv. 276754 - 02, «l’intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle già assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli artt. 190 e 495 cod. proc. pen. anche con riguardo alla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa». Si allude – nel testo – a un allargamento del perimetro del diritto alla rinnovazione perché, stando al criterio di delega, non sussisterebbe un dovere delle parti di indicare specificamente le ragioni della richiesta di rinnovazione; né sussisterebbe – per il giudice – il potere di ammettere solo le prove che risultino non manifestamente superflue.

29. Le scelte operate dal legislatore delegante trovano – nella relazione illustrativa del maxi-emendamento proposto dal Governo – la seguente spiegazione (che ricalca la relazione illustrativa della Commissione Lattanzi): «Di particolare rilevanza la previsione legata al non infrequente problema della modifica della composizione del giudice o del collegio, che, alla stregua della nullità prevista nell’art. 525 comma 2 c.p.p., imporrebbe la necessaria rinnovazione delle prove già assunte. È ben noto, tuttavia, come la recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità abbia inciso, restrittivamente, su tale garanzia di immediatezza. La Commissione ha ribadito unanimemente la necessità che si agisca su tali, frequenti, situazioni – determinate spesso (seppur non esclusivamente) dal trasferimento dei magistrati interno all’ufficio o da un ufficio all’altro – attraverso regole ordinamentali che riducano gli effetti più evidenti e prevedibili di un trasferimento di ufficio: per la verità, sono già previsti spazi organizzativi – tanto da norme primarie che secondarie – per ridurre le disfunzioni collegate al mutamento del giudice; se utilizzati in modo rigoroso ridurrebbero la rilevanza del problema. Sul piano processuale, una plausibile soluzione è quella di sfruttare la previsione della necessaria videoregistrazione dell’assunzione di prove dichiarative (v. art. 2-quater). Come già altrove ribadito, tale modalità di verbalizzazione consentirà al nuovo giudice o componente del collegio, di apprezzare, ben oltre il limite intrinseco del verbale tradizionale, le dichiarazioni già assunte in precedenza. Fermo il diritto delle parti di chiedere la rinnovazione della prova orale ad ogni mutamento di composizione del giudice, la situazione oggi affermatasi, a seguito del consolidato indirizzo dettato dalle SU nel caso Bajrami, sarebbe significativamente migliorata dalla possibilità, per il giudice, di visionare la videoregistrazione e di disporre successivamente la rinnovazione della prova solo se sussistono specifici motivi».

30. «In caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, il consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile» – sez. unite, 30 maggio 2019, n. 41736 (dep. 10 ottobre 2019 ), Rv. 276754 - 03.

31. Così, F. Caprioli, nel corso nel corso dell’audizione del 12 novembre 2020 davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)): «certamente irrigidendo in questo modo la regola di giudizio, cioè conformandola alla prognosi di condanna, il successivo dibattimento ne risulterebbe molto pregiudicato; cioè l’imputato arriverebbe al dibattimento con un’ipoteca molto più seria di quella che oggi gli deriva dal fatto che un giudice all’udienza preliminare ha ritenuto sostenibile l’accusa in giudizio».

32. Così, per esempio, S. Quattrocolo, nel corso dell’audizione del 5 novembre 2020 davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)).

33. Così F. Caprioli, nel corso nel corso dell’audizione del 4 novembre 2020, davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)): «Non dimentichiamo che il dibattimento è il luogo di formazione della prova nel contraddittorio delle parti. E non dimentichiamo che il contraddittorio non è solo una garanzia individuale ma è una tecnica di accertamento dei fatti che il nostro legislatore ha adottato e che poi la Costituzione, con la riforma dell’articolo 111, ha consacrato come la tecnica di accertamento più affidabile dei fatti di reato. (…) Quand’è che si va a giudizio? Quand’è che si va a dibattimento? Quando il dibattimento, grazie alle superiori risorse cognitive attivabili con l’impiego del contraddittorio nella formazione della prova, apporterebbe elementi rilevanti ai fini della decisione del merito. Questo è il criterio, che correttamente applicato non significa affatto, per citare la relazione del disegno di legge, “esperienze processuali destinate fin dall’origine a esiti assolutori”. Non c’è nulla di scontato; c’è una situazione dubbia che il dibattimento può risolvere, in un senso o nell’altro. Io faccio sempre un esempio ai miei studenti quando parlo di questo argomento. Nella vita le cose non vanno mai così semplicemente: immaginiamo tuttavia che al termine di un’indagine ci siano due testimonianze d’accusa da parte di persone informate sui fatti, credibili, lucide, disinteressate, coerenti nella loro ricostruzione dei fatti, ma ci siano anche due testimonianze d’alibi apparentemente allo stesso modo coerenti, disinteressate, precise. Qualcuno mente o qualcuno si sta sbagliando, o ricorda male. In una situazione come questa noi non diremmo che è probabile la condanna; diremmo il contrario, casomai. Potremmo dire che è superfluo il dibattimento. Ma non abbiamo sempre detto che è a questo che serve il dibattimento, che è a questo che serve l’esame incrociato, per capire tramite l’esame e il controesame qual è il testimone che dice la verità e qual è il testimone che mente, oppure che ricorda male? Se c’è un dibattimento non superfluo è proprio questo. Eppure, non possiamo fare una prognosi di condanna».
Anche E. Marzaduri, nel corso dell’ audizione del 17 novembre 2020 (resoconto stenografico: XVIII Legislatura - Lavori - Resoconti delle Giunte e Commissioni (camera.it)) davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati, osserva che, sul piano sistematico, il mutamento della regola di giudizio può determinare uno “spostamento” del peso della fase delle indagini preliminari, a detrimento del luogo privilegiato di formazione e valutazione della prova, con il rischio di sminuire il principio del contraddittorio nella formazione della prova tutelato dall’art. 111 Cost.

34. Tra essi, a commento di una sentenza di legittimità meno ortodossa, cfr. L. Semeraro, Con viva e vibrante soddisfazione, in Questione giustizia online, 14 dicembre 2015, Con viva e vibrante soddisfazione (questionegiustizia.it).

35. Scriveva Franco Cordero – a proposito del «banale americanismo» della colpevolezza «al di là di ogni ragionevole dubbio», introdotto nel 2006 – che «la misura della probabilità sufficiente alla condanna non è codificabile, meno che mai in numeri: tipico argomento da clinica processuale; rende pessimi servizi il legislatore che vi metta becco» – F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2006 (8ª ed.), p. 1001.