Magistratura democratica

“Riforma Cartabia” e processo d’appello*

di Giovanna Ichino

La fase del giudizio di appello è la fase che, oggi, manifesta la maggiore difficoltà di garantire una risposta giudiziaria tempestiva ed efficace. La riforma tenta di incidere su molti dei problemi che la prassi giudiziaria ha rivelato. Nell’articolo qui pubblicato – oltre a considerare tali novità, ipotizzandosi anche quale potrà essere l’effettivo impatto della novella sull’efficienza dei giudizi di appello – si considerano anche due temi di assoluto rilievo: l’impatto che avrà la disciplina dell’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini massimi previsti per il giudizio di impugnazione e l’innesto della giustizia riparativa in tale fase di giudizio.

1. Premessa / 2. Le modifiche all’art. 161 cpp e in tema di notificazioni: riflessi sul giudizio di impugnazione / 3. Il processo celebrato in assenza e il regime delle impugnazioni / 4. Le sentenze inappellabili e l’inammissibilità dell’impugnazione / 5. Lo svolgimento del dibattimento di appello / 6. Il termine massimo della durata della fase di appello e la sua proroga / 6.1. Decorrenza del termine / 6.2. Il termine massimo per i processi ordinari e la loro sospensione / 6.3. La proroga del termine / 6.4. Le ulteriori proroghe e i dubbi di costituzionalità / 7. Rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale e l’azione civile esercitata nel processo penale / 8. La giustizia riparativa e le “soft skills” del magistrato

 

1. Premessa

La legge 27 settembre 2021, n. 134 (cd. “riforma Cartabia”)[1] si propone di raggiungere una serie di obiettivi (primo fra i quali quello di accelerare i tempi del processo penale e garantire una ragionevole durata dello stesso[2], oltre che rafforzare la tutela della vittima del reato e rendere più consona ai principi costituzionali l’esecuzione della pena) con l’introduzione di alcune direttrici che passano trasversalmente attraverso le varie fasi del procedimento e del processo: il processo penale telematico, la modifica della disciplina in tema di notificazioni e di processo in assenza, l’accesso facilitato ai riti alternativi e al concordato in appello, la maggiore speditezza del dibattimento e la riduzione dei momenti di stasi del processo, l’introduzione di criteri per una disciplina organica di giustizia riparativa, nonché l’introduzione della sanzione di improcedibilità nei giudizi d’impugnazione per superamento dei termini “ragionevoli” di durata massima, tema quest’ultimo oggetto di acceso dibattito a livello politico e sugli organi di stampa, che è stato discusso anche in questa Rivista[3].

Da più parti si è evidenziato come gli emendamenti – che si sono via via susseguiti tra il disegno di legge delega del Ministro Bonafede (AC 2435), l’articolato normativo proposto dalla cd. Commissione Lattanzi e il complesso degli emendamenti approvati dal Governo – abbiano molto ridotto la portata innovativa e l’efficacia della riforma[4], soprattutto con riguardo a una significativa contrazione dei tempi del processo penale, perché «figli di una mediazione quasi impossibile tra forze di maggioranza agli antipodi proprio sulle questioni cruciali che [la riforma] ha affrontato»[5]: basti pensare all’eliminazione di scelte coraggiose quali l’“archiviazione meritata”, o un filtro più rigoroso dei processi destinati al dibattimento, o una reale riduzione delle impugnazioni delle parti processuali, cosicché da un lato il raggiungimento della ragionevole durata del processo non viene garantito “attraverso percorsi fisiologici”, dall’altro viene «drammatizza[to] ulteriormente il nodo, da sempre aggrovigliato, della prescrizione»[6].

I temi trattati dalla riforma, dalla procedibilità alla giustizia riparativa, alle notificazioni e al giudizio in assenza, alle innovazioni telematiche e all’ufficio per il processo, riguardano tutte le fasi del procedimento e del processo, e su Questione giustizia vengono approfonditi da altri contributi. Ad essi faccio rinvio, limitandomi a esaminare le ricadute specifiche che tali innovazioni hanno nel processo di appello, fase che costituisce il vero “collo di bottiglia” del processo penale italiano[7], sia per il grande arretrato accumulato che per i tempi di celebrazione dei processi, superiori ai due anni in ben dieci corti d’appello, sette delle quali definite dalla Ministra «in situazioni critiche»[8]: tema che avrebbe meritato, quindi, una speciale attenzione deflattiva da parte del riformatore.

 

2. Le modifiche all’art. 161 cpp e in tema di notificazioni: riflessi sul giudizio di impugnazione

L’art. 1, comma 6, reca i principi e i criteri direttivi per la modifica della disciplina delle notificazioni all’imputato, stabilendo che solo la prima notificazione in cui prende conoscenza del procedimento e quelle relative alla citazione a giudizio in tutti i gradi dovranno essere effettuate personalmente, mentre le altre potranno essere effettuate al difensore di fiducia, al quale l’imputato avrà l’onere di comunicare i propri recapiti e i propri mutamenti (l’indagato dovrà essere espressamente avvisato del fatto che le successive notificazioni saranno effettuate presso il difensore), mentre avrà l’obbligo, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, di indicare anche i recapiti telefonici e telematici di cui ha la disponibilità. 

Quando l’imputato non detenuto sia assistito da un difensore d’ufficio, e non vi sia l’effettiva certezza circa la conoscenza del procedimento da parte sua, i decreti delegati dovranno prevedere una deroga alla regola generale della consegna al difensore delle notifiche successive alla prima. 

Importante è la modifica della disciplina contenuta nel comma 6, lett. a, relativa alla previsione di modifica dell’art. 161 cpp nel senso che l’imputato non detenuto o internato ha la facoltà di dichiarare domicilio ai fini delle notificazioni anche presso un proprio idoneo recapito telematico. Trattasi di una innovazione significativa e molto utile ai fini della conoscenza effettiva delle notizie relative al procedimento. Resta tuttavia il grosso problema di come vengono redatti i verbali di identificazione ex art. 161 cpp, scritti con parole di difficile comprensione per un indagato straniero, il più delle volte privo di interprete e di una sufficiente conoscenza della lingua italiana (spesso si legge che l’indagato parla e comprende la lingua, mentre poi il magistrato, in occasione dell’esame, constata di persona l’estrema povertà di linguaggio e di comprensione delle reali conseguenze dell’atto che ha sottoscritto davanti alla polizia giudiziaria) e dei meccanismi delle notifiche e del processo; trattasi di verbali prestampati, in cui il più delle volte la polizia, dopo aver identificato l’indagato, si limita ad apporre delle crocette rispetto alle varie opzioni previste e a invitarlo ad apporre la sua firma in calce. È molto difficile a posteriori, e a distanza di tempo dalla compilazione, ricostruire esattamente quali domande siano state effettivamente poste, quanto l’indagato le abbia comprese, se abbia compreso quali erano i suoi obblighi, oneri e facoltà. Eppure trattasi di un atto fondamentale, foriero di rilevanti conseguenze non solo per l’indagato, ma anche per lo Stato, stante il rischio concreto che venga compiuta un’inutile attività giudiziaria soggetta a rescissione. Non è possibile che l’apposizione di una semplice crocetta, magari per errore, possa da sola determinare conseguenze tanto gravi. 

A titolo di esempio, posso riferire che, in un verbale di identificazione predisposto a stampa, in uso mesi orsono presso la Questura di Milano, ho visto che uno dei punti a stampa, barrati dall’agente di polizia giudiziaria con una crocetta, diceva testualmente: «Non sono in grado di eleggere un domicilio e non ho interesse a partecipare al processo». Due circostanze dal contenuto molto diverso tra di loro, unite in un’unica risposta, cosicché la risposta positiva alla prima porta a metter la crocetta anche relativamente alla seconda, indipendentemente dal suo effettivo verificarsi: mentre la prima affermazione può essere frequente per gli stranieri irregolari, privi di dimora, lavoro e conoscenze in Italia, la seconda è assai difficile che venga profferita, soprattutto nella fase preliminare delle indagini e da parte di persona che neppure ha conferito con il suo difensore né conosce esattamente l’accusa e le conseguenze di un processo. Chi può, a priori, non avere interesse a partecipare al proprio processo, dal suo inizio fino al giudizio di cassazione? Inutile dire che, in quel caso, l’indagato non aveva affermato che non aveva interesse a partecipare al processo, né aveva capito il significato di quanto era stato “barrato” nel verbale di identificazione che era stato invitato dalla polizia giudiziaria a sottoscrivere.

A mio avviso, nel modificare l’art. 161 cpp, bisognerebbe quindi stabilire come regola generale che, in assenza di un interprete e di un difensore, la redazione del verbale di identificazione venga audioregistrata nella sua interezza, eventualmente con l’apposizione in calce di una postilla, scritta dall’interessato, sul fatto che egli ha compreso il contenuto dell’atto che gli è stato riletto ed è consapevole della rilevanza processuale delle sue dichiarazioni. Del resto, l’identificazione dell’indagato può essere equiparata ai preliminari di un interrogatorio che non si svolge in udienza e che, secondo quanto disposto dalla lett. a del comma 8, deve essere documentato attraverso registrazione audiovisiva. Se la videoregistrazione dell’esame effettuato fuori udienza consente di valorizzare i tratti non verbali della comunicazione, la semplice registrazione – di assai più facile attuazione anche presso un ufficio di polizia – consentirebbe comunque di apprezzare se la comunicazione della pendenza del procedimento penale e gli avvertimenti sulle conseguenze processuali delle dichiarazioni rese dall’indagato sono stati a lui fatti in lingua comprensibile, come lo stesso si è espresso, come ha verbalizzato la sua elezione di domicilio, la nomina del difensore e i dati che lo riguardano. E sarebbe assai più facile valutare a posteriori la ricorrenza o meno dei presupposti per un giudizio in assenza.

Perché la riforma possa essere davvero utile ed efficace, è inoltre fondamentale un’attività di formazione degli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria sull’importanza di tale atto e sulla responsabilità che si assumono nel caso in cui lo stesso non corrisponda alla realtà dei fatti. È importantissimo, inoltre, che tali verbali – in assenza di un interprete – vengano redatti in una lingua conosciuta dall’indagato (così come deve avvenire per il decreto di espulsione emesso dal questore ai sensi dell’ art. 13, comma 7, d.lgs n. 286/1998).

Con riguardo all’impugnazione proposta dall’imputato o nel suo interesse, con l’atto di impugnazione deve essere depositata – a pena di inammissibilità – la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione. Si tratta di un’innovazione necessaria perché si verifica spesso che l’imputato, dopo la sentenza di primo grado, sostituisca il difensore e modifichi il domicilio eletto o dichiarato, e che la comunicazione di tali modifiche non sia contenuta nell’atto di impugnazione e venga separatamente inserita nel fascicolo processuale, senza darne atto sulla copertina. In tal modo, il presidente della corte che emette il decreto di citazione a giudizio è costretto a compulsare tutto il fascicolo per verificare l’attualità della nomina e dell’elezione di domicilio, pena la nullità della notifica e la necessità alla prima udienza di rinviare il processo per sanare la nullità – con un grave dispendio di energie e di tempo e con il rischio che la comunicazione possa comunque sfuggire alla consultazione. Certamente tale innovazione – che mira a evitare che vengano proposti appelli “per mero dovere di difesa” – comporterà per il difensore d’ufficio, che il più delle volte non possiede un recapito aggiornato e valido del proprio assistito, un onere non da poco: quello di reperire l’imputato, comunicargli l’esito del giudizio e fargli eleggere domicilio. Essa avrà, comunque, un sicuro effetto deflattivo[9]

Nella lett. f si delega quindi il Governo a prevedere che la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei confronti dell’imputato sia effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto ai fini della notifica dell’atto introduttivo al giudizio di impugnazione. 

 

3. Il processo celebrato in assenza e il regime delle impugnazioni

La legge delega detta alcuni principi con riguardo al processo in assenza, per adeguare la disciplina al diritto dell’Unione europea (vds. direttiva UE n. 343/2016, riguardante anche la presunzione di innocenza e il diritto a presenziare al processo). Come emerge dalle schede parlamentari di lettura[10], «la riforma intende riaffermare il principio in base al quale si può procedere in assenza dell’imputato solo se si ha la certezza che la sua mancata partecipazione al processo è volontaria. In mancanza il giudice dovrà pronunciare sentenza inappellabile di non doversi procedere, chiedendo contestualmente che si proceda alle ricerche dell’imputato[11]. Se e quando l’imputato sarà rintracciato, la sentenza di non luogo a procedere sarà revocata[12] e il giudice fisserà una nuova udienza per la prosecuzione del processo».

Con riferimento al giudizio di impugnazione, il comma 7, lett. h, delega il Governo: a) a prevedere che il difensore dell’imputato assente possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato difensivo, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza; b) a prevedere che, con lo specifico mandato a impugnare, l’imputato dichiari o elegga il domicilio per il giudizio di impugnazione; c) a prevedere, per il difensore dell’imputato assente, un ampliamento del termine per impugnare.

La Commissione Lattanzi aveva sottolineato come «l’intervento sulla legittimazione del difensore ad impugnare costituisce uno snodo essenziale, sia in chiave di effettiva garanzia dell’imputato, sia in chiave di razionale e utile impiego delle risorse giudiziarie: la misura, infatti, è volta ad assicurare la celebrazione delle impugnazioni solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell’imputato giudicato in assenza e ad evitare l’inutile celebrazione di gradi di giudizio destinati ad essere travolti dalla rescissione del giudicato». 

Di conseguenza, il Governo dovrà accordare al difensore un termine più lungo di quello ordinario per impugnare, per consentirgli di munirsi del mandato.

Al di fuori dell’ipotesi di sentenza di condanna in absentia non impugnata e quindi passata in giudicato, per cui opera l’istituto previsto dall’art. 629-bis cpp, negli altri casi di assenza, lo specifico mandato a impugnare e l’elezione di domicilio attestano la conoscenza del processo ed eliminano i presupposti per i rimedi restitutori.

Il giudice d’appello potrebbe essere investito di questioni inerenti l’“inidoneità” del mandato conferito dal condannato, ad esempio in quanto rilasciato prima dell’emissione della sentenza, o non sufficientemente specifico o privo dell’elezione di domicilio. In questo caso, se non risultano soddisfatte le condizioni perché si proceda al giudizio di impugnazione, la corte dovrà pronunciare ordinanza di inammissibilità dell’ impugnazione stessa, con conseguente esecuzione della sentenza.

Con la previsione della lett. g, il Governo viene delegato ad ampliare la possibilità di rimedi successivi a favore dell’imputato e del condannato giudicato in assenza senza avere avuto effettiva conoscenza della celebrazione del processo, armonizzando la normativa processuale nazionale con quanto previsto dall’art. 9 della direttiva UE n. 343/2016 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 febbraio 2016[13]. Gli imputati devono avere diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta loro di far riesaminare il merito della causa e introdurre nuove prove al fine di ottenere la riforma della decisione originaria.

 

4. Le sentenze inappellabili e l’inammissibilità dell’impugnazione

Al fine di ridurre il carico di lavoro nella fase di appello – finalità già perseguita dalla l. n. 103/2017 e dal d.lgs n. 11/2018 – il comma 13 della riforma prevede una serie di misure “deflattive”, purtroppo ridotte nella portata complessiva dal fatto che non sono state approvate alcune proposte della Commissione Lattanzi (tra queste, quella di dichiarare l’inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pm, o di prevedere il cd. “appello a critica vincolata”, che consente cioè di impugnare solo per determinati motivi rigorosamente stabiliti dalla legge) né la proposta del ddl n. 2435 di prevedere una composizione monocratica della corte nei procedimenti con citazione diretta.

La nuova legge prevede un’estensione delle ipotesi di inappellabilità contro le seguenti categorie di sentenze: quelle di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa (e quindi a delitti quali, ad esempio, quelli previsti dagli artt. 328, 335, 388, 441, 451, 515, 570, 590, 593, 604-bis e 641 del codice penale), mentre attualmente l’inappellabilità riguarda solo le contravvenzioni punite con ammenda o pena alternativa; quelle di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità (tale riforma non lede i diritti della difesa, posto che la sostituzione della pena detentiva - negli specifici casi in cui è prevista dalla legge - presuppone la richiesta, il consenso o comunque la non opposizione dell’imputato). La lett. f del comma 13 delega il Governo a disciplinare l’inappellabilità delle sentenze di non doversi procedere negli stessi termini di quelle di proscioglimento, e quindi a rivedere la disposizione di cui all’art. 428 cpp.

Al fine di ridurre i tempi “morti” di stasi del processo e coordinare la disciplina del deposito degli atti di impugnazione con quella generale prevista per il deposito di tutti gli atti del procedimento, la legge delega prevede l’abrogazione degli artt. 582, comma 2 (sulla presentazione dell’impugnazione da parte delle parti private nelle cancellerie «del luogo in cui si trovano», diverse da quella dell’autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza da impugnare), e 583 cpp (eliminando così la possibilità di spedire per raccomandata l’atto di impugnazione o di proporre l’impugnazione con telegramma). In tal modo, scaduti i termini per il deposito in cancelleria – anche con modalità telematiche – dell’atto di impugnazione senza la sua proposizione, la cancelleria della Corte può subito apporre il timbro di irrevocabilità sulla sentenza e spedire l’estratto esecutivo all’autorità competente per l’esecuzione. Del resto, ora che è possibile impugnare anche tramite pec, non vi è più ragione di consentire l’uso della posta ordinaria, con i conseguenti ritardi e disguidi che spesso caratterizzano anche lo smistamento dei plichi all’interno dell’ufficio giudiziario. È comunque fatto salvo il diritto sancito dall’art. 123, comma 2, cpp per l’imputato detenuto o internato di presentare le impugnazioni all’ufficiale di polizia giudiziaria e viene inserito nell’art. 123 cpp il comma 2-bis, secondo cui le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste di cui ai commi 1 e 2 sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato (ex art. 2, comma 14 della riforma).

La delega al Governo concernente la competenza territoriale mira a evitare che le questioni ad essa relative, sollevate in fase di indagini o nel giudizio di primo grado, si risolvano prima di essere riproposte con i motivi di appello e non si trascinino nel corso dei giudizi di impugnazione. Si prevede infatti (comma 13, lett. n) che il giudice chiamato a decidere una questione concernente la competenza per territorio possa, anche su istanza di parte, rimettere la decisione alla Corte di cassazione, che provvede in camera di consiglio; che comunque la parte che ha eccepito l’incompetenza, qualora non proponga l’istanza di rimessione della decisione alla Corte di cassazione, non possa riproporre la questione nel corso del procedimento; dal canto suo, la Corte di cassazione, nel caso in cui dichiari l’incompetenza del giudice, ordinerà la trasmissione degli atti al giudice competente.

La riforma prevede l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato.

Tale previsione si rifà testualmente all’orientamento giurisprudenziale di legittimità già formatosi dopo la novella n. 103 del 2017, secondo cui l’impugnazione si propone, a pena di inammissibilità, con atto che contiene l’enunciazione specifica dei motivi con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

Secondo tale recente orientamento, «l’appello è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato»[14]

A differenza delle altre declaratorie di inammissibilità dell’impugnazione, basate sul controllo della tempestività o sulla presenza dei requisiti formali dell’impugnazione, l’inammissibilità per mancanza di specifici motivi presuppone uno studio non superficiale della sentenza e dei motivi di appello, che non sempre potrà essere demandato ai componenti dell’ufficio per il processo nel corso dello “spoglio” preliminare degli atti di appello. Se tale valutazione deve comunque essere fatta dal collegio, non vi sarà un grande risparmio di tempo nell’effettuarla in sede preliminare, anziché nella fase decisoria in camera di consiglio. 

 

5. Lo svolgimento del dibattimento di appello

In linea con quanto suggerito dalla giurisprudenza della Corte Edu e dalle fonti eurounitarie (tra le altre, si pensi alla direttiva UE n. 29/2012 sulle vittime, che incoraggia all’uso delle «tecnologie di comunicazione»), alcune specifiche disposizioni della legge delega (comma 8) riguardano la documentazione degli atti del procedimento e le modalità di svolgimento delle attività dibattimentali. Nel giudizio di appello, tali indicazioni, e in particolare l’obbligo di registrazione audiovisiva, dovranno essere osservate quando si dispone la rinnovazione istruttoria concernente una prova orale o l’esame dell’imputato.

Il comma 8 delega poi il Governo a individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza possa avvenire a distanza, modalità, come è noto, già utilizzata durante la recente pandemia con esiti non sempre soddisfacenti e, in precedenza, per i processi di terrorismo e di criminalità organizzata indicati nell’art. 146-bis disp. att. cpp. 

La questione della partecipazione a distanza dell’imputato[15] è già giunta al vaglio sia della Corte costituzionale (sent n. 342/1999 e successive conformi), che della Corte Edu (sez. III, sent. 5 ottobre 2006, Viola c. Italia). La premessa secondo cui solo la presenza fisica nel luogo del processo potrebbe assicurare l’effettività del diritto di difesa può subire dei temperamenti. Ciò che occorre, sul piano costituzionale, è che sia garantita l’effettiva partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici siano del tutto idonei, senza alcun effetto distorsivo, a realizzare quella partecipazione. La Corte europea, pronunciatasi (anche) su questo specifico punto con riferimento all’art. 146-bis delle norme di attuazione del cpp, riguardante la partecipazione a distanza dell’imputato, ha affermato che è di importanza cruciale che l’imputato sia adeguatamente difeso in tutti i gradi del giudizio, ma che l’art. 6 della Convenzione lascia agli Stati la scelta dei mezzi più idonei per assicurare il diritto di difesa, non precisando le condizioni, mentre spetta alla Corte di valutarne la compatibilità con le esigenze di un equo processo, nella prospettiva di una tutela concreta, effettiva e non illusoria dei diritti. La comparizione personale dell’imputato nella fase di appello non riveste la stessa importanza decisiva che ha in primo grado, dove con maggiore incisività l’imputato deve far valere il suo diritto a essere ascoltato e a controllare l’esattezza delle sue affermazioni, e confrontarle con quelle della vittima e dei testimoni. In ogni caso, la compressione del diritto alla riservatezza della comunicazione dell’imputato con il difensore deve essere valutata, con riferimento al diritto a un equo processo, avendo riguardo all’intero procedimento e, quindi, anche alla fase delle impugnazioni.

Durante l’emergenza pandemica, si trattava di bilanciare la tutela della salute degli attori processuali e della collettività con il necessario rispetto del contraddittorio, dell’immediatezza e dell’oralità del dibattimento, nonché dei diritti difensivi dell’imputato. Ma in una prospettiva di lungo periodo, il processo a distanza non può più essere imposto (com’è avvenuto per la partecipazione da remoto degli imputati detenuti durante il periodo di lockdown e come avviene per motivi di sicurezza nelle ipotesi di cui agli artt. 51, comma 3-bis e 407, comma 2, lett. a, n. 4, cpp) e può svolgersi solo se vi è il consenso delle parti.

Certamente si tratta di un utile strumento per evitare costosi, faticosi o non possibili spostamenti di difensori o di testimoni o di parti che si trovano lontani dal luogo di celebrazione del processo, o per consentire agli arrestati in altro circondario di svolgere l’interrogatorio di garanzia ex art. 294 cpp davanti al gip che procede, anziché davanti a un gip delegato, o ai condannati detenuti altrove, che hanno proposto incidente di esecuzione, di partecipare da remoto all’udienza anziché di esser sentiti dal magistrato di sorveglianza del luogo ove sono ristretti. Ma l’esperienza di questi mesi ha mostrato tutta la fragilità dell’applicazione di questo strumento, laddove manchi una vera innovazione tecnologica. La precarietà dei collegamenti con gli istituti penitenziari dove sono custoditi gli imputati, le attese di collegamenti che costringono a ritardare la celebrazione delle udienze e, soprattutto, l’impossibilità di garantire un collegamento costante e del tutto riservato tra difensore e assistito, come prescritto dall’art. 146-bis, non hanno garantito le condizioni minime per assicurare sempre un effettivo diritto di difesa e autodifesa. Infatti, non tutte le aule di udienza sono dotate di un telefono collocato accanto alle postazioni della difesa, direttamente collegato con gli istituti penitenziari; e anche dove tali postazioni esistono, esse possono essere utilizzate solo se il collegamento avviene mediante videoconferenza tramite la rete telefonica e non anche se avviene con “Teams”: cosicché, in tale seconda ipotesi, a ogni richiesta dell’imputato o del difensore, nel corso del dibattimento, di conferire l’uno con l’altro, il giudice deve disporre che tutti escano dall’aula per consentire un minimo di riservatezza al colloquio effettuato attraverso il computer. Non tutti gli istituti penitenziari sono infatti dotati di un numero telefonico riservato, che il difensore possa chiamare con il suo cellulare e che gli consenta di mettersi in collegamento con il suo assistito.

Si porrà, inoltre, al Governo il problema di come disciplinare la celebrazione dell’udienza quando solo alcune delle parti abbiano espresso il loro consenso: se solo un difensore chiede di discutere in presenza, non ha molto senso obbligare a essere presenti anche gli altri difensori che hanno dato il consenso perché si proceda a distanza: potranno, in questo caso, celebrarsi udienze con un sistema “misto”?

E come risolvere il grosso problema dell’interpretariato? Nel periodo di lockdown, in cui gli imputati stranieri detenuti partecipavano all’udienza dall’istituto penitenziario in cui si trovavano, spesso lontano dal luogo di celebrazione del processo, gli interpreti dovevano recarsi al loro fianco presso l’istituto stesso, per poter tradurre contestualmente tutta l’udienza senza costringere tutte le parti e la corte ad ascoltare la traduzione in differita. E ciò era ancora più importante quando vi erano più detenuti e più interpreti, magari di lingue diverse. Non sempre è stato facile trovare una disponibilità a recarsi in carcere da parte di interpreti, cui vengono riconosciute al massimo quattro “vacazioni raddoppiate” per ogni udienza. In un futuro è assolutamente necessario prevedere la possibilità di disporre di un canale di comunicazione contestuale ma separato tra interprete e detenuto, per consentire una traduzione diretta e a distanza, che non disturbi l’udienza e non allunghi i tempi della stessa.

Inoltre, al Governo spetterà di decidere se, per tutti i processi (o se solo per quelli di terrorismo o criminalità organizzata di cui all’art. 146-bis, comma 1, disp. att. cpp) potrà effettuarsi la celebrazione a distanza anche nella fase in cui vengono assunte delle prove: è indubbio, infatti, che in tali casi molte sono le limitazioni al diritto di difesa, tenuto conto del fatto che, allo stato attuale, quando il collegamento avviene via Teams, non è effettivamente garantita all’imputato che si trova a distanza la possibilità di vedere contemporaneamente tutte le parti del processo, e principalmente i testimoni, essendovi in genere una o al massimo due postazioni video. Come si è detto, inoltre, è molto difficile per l’imputato conferire con il difensore durante l’esame, per commentare e contestare risposte o suggerire domande. Questa situazione è senz’altro limitativa del suo diritto allo svolgimento di un equo processo, nelle declinazioni indicate dalle Corti costituzionale ed europea.

Perché il processo a distanza garantisca effettivamente i diritti della difesa, si richiede quindi un forte investimento tecnologico e di qualità del collegamento, soprattutto quando non si utilizza la videoconferenza con linea telefonica, ed è assolutamente necessario garantire un’assistenza informatica quotidiana e costante da parte di personale qualificato, per tutte le problematiche che il giudice si trova a dover affrontare con urgenza.

Il comma 13, lett. g, prevede poi come regola per il giudizio di appello la celebrazione con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore richiedano di partecipare all’udienza. L’esperienza di quest’ultimo anno presso la Corte d’appello di Milano ha evidenziato un considerevole ricorso a tale modalità di celebrazione nei processi penali “ordinari”, che il più delle volte per la loro cartolarità, per la natura delle questioni da trattare, per l’esaustività dell’atto di impugnazione e delle memorie presentate possono essere decisi in camera di consiglio, senza discussione, senza pregiudizio per la difesa e con un notevole risparmio di tempo. Del resto, a causa del numero di processi fissati per ogni udienza, capita che i dibattimenti d’appello siano spesso dei “simulacri”, in quanto le parti rinunciano alla relazione orale in udienza, non viene data lettura del capo di imputazione, i difensori spesso si riportano agli atti scritti, gli imputati liberi il più delle volte non compaiono e quelli detenuti, non di rado a ciò invitati dai loro difensori, non rilasciano alcuna dichiarazione, neppure con riguardo a circostanze inerenti il loro “percorso rieducativo”, o la loro attuale situazione, che potrebbero giustificare una diminuzione del trattamento sanzionatorio; inoltre, le camere di consiglio vengono il più delle volte accorpate, con una susseguente lettura unica e veloce di tutti i dispositivi assieme. Questa essendo la situazione dettata dal carico di lavoro che grava sulle corti d’appello, non credo che la celebrazione in camera di consiglio inciderà negativamente sullo studio, sulla discussione e sulla decisione dei processi nei quali tutto è già scritto: ciò a condizione che anche il terzo componente del collegio, che fino ad ora assisteva quanto meno alla discussione orale, abbia a disposizione prima della camera di consiglio una copia delle sentenze e degli atti di impugnazione (i cosiddetti “fascicoletti”) e non ne deleghi interamente lo studio al consigliere relatore e al presidente.

Diverso è il discorso con riguardo ai processi relativi a gravi e gravissimi delitti, commessi da singoli o dalla criminalità organizzata e perlopiù di competenza della corte d’assise d’appello, per i quali anche durante il periodo del lockdown gli imputati e i pg hanno sempre chiesto la discussione in aula (e, immagino, continueranno a farlo, anche se ora potranno presentare la richiesta solo l’imputato e il suo difensore o la parte appellante, e quindi non il pg che non abbia impugnato la sentenza).

Questo si spiega facilmente con la gravità dei fatti e soprattutto delle pene che vengono irrogate o con l’interesse pubblico alle vicende oggetto del processo, in relazione alle quali le parti giustamente pretendono di poter esporre in contraddittorio le proprie tesi, controbattere e perorare di persona la propria causa. Lo stesso giudice, prima di irrogare pene della reclusione lunghe e anche a vita, ha la necessità di guardare in viso gli imputati e ascoltare direttamente le loro dichiarazioni, anche se con modalità a distanza. La camera di consiglio, priva della partecipazione dell’imputato, non consente sempre al giudice, a mio parere, di esercitare appieno il suo discrezionale giudizio sull’aspetto sanzionatorio, ai sensi dell’art. 133, comma 2, n. 2 cp, attraverso una valutazione del comportamento successivo al reato e precedente il giudizio di appello. Non credo, quindi, che la riforma inciderà molto sulla celebrazione di questi processi, per i quali tale valutazione discrezionale sulla pena ha un impatto rilevante.

Si spera possa avere un’importante portata deflattiva l’ampliamento dell’ambito applicativo del concordato sui motivi in appello tramite l’eliminazione di tutte le preclusioni all’accesso a tale istituto di cui all’art. 599-bis, comma 2, cpp (tra gli altri, i processi per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, violenza sessuale aggravata e di gruppo, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina, al traffico di stupefacenti e di tipo mafioso, tratta di persone e riduzione in schiavitù, terrorismo e altro), anche se è vero che tale istituto non ha trovato un’applicazione quantitativamente significativa dalla sua reintroduzione con la novella del 2017 (forse dovuta anche ai criteri, spesso troppo restrittivi, indicati dal procuratore generale per orientare la valutazione dei magistrati del suo ufficio, ex art. 599-bis, comma 4, cpp).

Un’altra innovativa disposizione concernente la fase del dibattimento è quella prevista dal comma 11, lett. d, per l’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio

Nella maggior parte dei casi, il processo d’appello viene trattato in una sola udienza o in poche udienze ravvicinate e quindi l’impatto della novella sarà minore in questa fase. Ma anche in sede di impugnazione, quando, per la complessità delle imputazioni o per la pluralità di parti o per la necessità di rinnovare l’istruttoria con perizie, o prove dichiarative o rogatorie, il processo si protrae nel tempo, se non vi è il consenso delle parti all’utilizzazione degli atti pregressi, in caso di mutamento del collegio, la normativa costringe a ripetere le prove dinnanzi al nuovo giudice[16]: tale disciplina è stata definita «incongrua» dalla Corte costituzionale[17], «in quanto l’esperienza maturata in trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale restituisce una realtà assai lontana dal modello ideale immaginato dal legislatore», perché i dibattimenti, lungi dal celebrarsi in una sola udienza, durano mesi e «il principio di immediatezza rischia di divenire un mero simulacro e, anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento al momento della decisione finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza, delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo». La Corte ha affermato quindi che resta aperta per il legislatore la possibilità di introdurre ragionevoli eccezioni al principio dell’identità tra giudice avanti al quale è assunta la prova e giudice che decide, in funzione dell’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale, in presenza di meccanismi “compensativi” funzionali all’altrettanto essenziale obiettivo della correttezza della decisione – come, ad esempio, la videoregistrazione delle prove dichiarative, quanto meno nei dibattimenti più articolati. La stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[18] riconosce che il principio dell’immediatezza può essere sottoposto a ragionevoli deroghe, purché siano adottate misure appropriate per assicurare che il nuovo giudice abbia una piena conoscenza del materiale probatorio. 

La legge delega, facendo proprio l’indirizzo delle Corti, invita il Governo a prevedere, come linea generale, che in caso di mutamento del giudice venga disposta la riassunzione della prova se richiesta da una parte: tuttavia, in presenza di prova dichiarativa verbalizzata tramite videoregistrazione e nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, il Governo dovrà prevedere che il giudice “mutato” disponga la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. La precedente videoregistrazione dell’esame dovrebbe infatti garantire che il nuovo giudice non solo abbia piena contezza del contenuto trascritto delle dichiarazioni rese, ma anche che riesca a valorizzare e valutare appieno i tratti non verbali della sua deposizione, le espressioni del volto, la celerità e spontaneità delle risposte alle domande piuttosto che le attese, la manifestazione di emozioni, le occhiate, i gesti e così via, con la stessa immediatezza che se fosse stato presente all’esame originario.

Siamo quindi di fronte a un’attenuazione del principio di immediatezza sancito dall’attuale art. 525, comma 2, cpp e strumentale all’equità del processo, il quale peraltro già ha trovato delle limitazioni nell’art. 190-bis cpp: trattasi di norma dettata dalla necessità di assicurare la sicurezza dei dichiaranti in relazione a processi per specifici e gravissimi reati o di tutelare i dichiaranti vulnerabili ed evitare vittimizzazioni secondarie dovute al ripetersi delle audizioni. 

La Cassazione[19] si è già espressa nel senso della conformità dell’art. 190-bis cpp agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione e all’art. 6 della Convenzione[20] – nella parte in cui, in presenza di specifiche esigenze, sottrae al contraddittorio dibattimentale la persona offesa maggiorenne dichiarata particolarmente vulnerabile –, atteso che tale peculiare regime, di carattere processuale, si giustifica per l’esigenza di prevenire l’usura delle fonti di prova e atteso che si tratta di dichiarazioni provenienti da soggetti già esaminati nel rispetto dell’oralità e delle regole del contraddittorio: è comunque rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta di graduare forme e livelli diversi di contraddittorio purché sia garantito il diritto di difesa.

Si tratterà di vedere se il legislatore delegato intenderà meglio precisare in cosa debba consistere la «specifica esigenza» tale da giustificare il diniego di rinnovo in caso di mutamento del giudice (ad esempio: evitare una vittimizzazione secondaria per il teste minore o vulnerabile, evitare il rischio di inquinamento della prova dovuto al ripetersi di esami, ragioni di sicurezza per il teste in processi di criminalità organizzata, etc.) o se lascerà all’interpretazione giurisprudenziale la formazione di un orientamento che costituisca la bussola per l’attività interpretativa dei giudici.

È da presumere che venga confermato l’indirizzo secondo cui è legittimo il diniego di nuovo esame di minore o di soggetto vulnerabile già esaminati in incidente probatorio, quando le circostanze dedotte nella richiesta di esame coincidono con quelle oggetto della precedente escussione audiovideo registrata in contraddittorio tra le parti.

Quanto alla necessità di rinnovazione dell’audizione della persona offesa o dei testi rilevanti in appello susseguente a un’assoluzione in primo grado, la riforma (comma 13, lett. l) prevede che la stessa sia necessaria solo se le precedenti dichiarazioni sono state assunte in dibattimento. Può, quindi, fondatamente escludersi che debbano essere risentite le persone informate sui fatti esaminate nel corso delle indagini preliminari, qualora il giudizio abbreviato sia avvenuto ai sensi dell’art. 438, commi 1 e 4 cpp, non condizionato all’assunzione di prove[21].

 

6. Il termine massimo della durata della fase di appello e la sua proroga

L’art. 344-bis cpp[22], introdotto dalla recentissima legge di riforma n. 134/2021 e concernente l’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione – sempre che l’imputato non chieda la prosecuzione del processo e che non si tratti di delitto punito con l’ergastolo –, è immediatamente precettivo e si applica solo ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della l. n. 3/2019, nella parte in cui, modificando il secondo comma dell’art. 159 cp, ha comportato la sospensione della prescrizione del reato nei giudizi di impugnazione fino alla data della definitività della sentenza di primo grado o del decreto penale di condanna. L’accordo sulla riforma, intervenuto a livello governativo, prevede inoltre una gradualità nell’applicazione delle nuove norme[23] per consentire agli uffici di riorganizzarsi e di organizzare il nuovo personale che sta per essere assunto ai fini della costituzione dell’ufficio per il processo.

Come già detto in premessa, dopo un breve cenno alla decorrenza e alla sospensione del termine massimo di durata nella fase di appello, mi soffermerò unicamente sul provvedimento di proroga del termine di durata massima, rinviando all’articolo di Andrea Natale[24] per l’approfondimento delle numerose problematiche di più ampio respiro connesse all’introduzione dell’art. 344-bis cpp – dal campo di applicazione in relazione alle varie tipologie di reati alle tempistiche, anche alla luce delle disposizioni transitorie.

 

6.1. Decorrenza del termine

Il periodo di tempo entro cui deve concludersi la fase d’appello comincia a decorrere dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544 cpp per il deposito della motivazione della sentenza di primo grado, eventualmente prorogato ex art. 154 disp att cpp: termine di decorrenza che, rispetto all’udienza in cui viene letto il dispositivo, si situa dunque tra i 90 (in caso di sentenza con motivazione contestuale) e i 270 giorni successivi (nell’ipotesi di proroga per la redazione della motivazione, disposta dal presidente del tribunale per casi particolari di cui al sopracitato art. 154)[25]. La ratio della dilazione dell’inizio della decorrenza è evidentemente collegata al tempo necessario per gli eventuali avvisi e il deposito degli atti di impugnazione, nonché per gli adempimenti burocratici e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria del giudice competente per l’appello. È noto come i tempi morti legati a tali adempimenti determinino un allungamento notevole della durata della fase di impugnazione; e, ora che il superamento del termine massimo comporterà l’improcedibilità, è assolutamente necessario che negli uffici di cancelleria le vacanze di personale siano prontamente colmate e che l’organico degli uffici più gravati venga adeguatamente rinforzato. 

 

6.2. Il termine massimo per i processi ordinari e la loro sospensione

Quando si andrà “a regime”, il 1° gennaio 2025[26], il termine massimo di durata sarà di due anni per il giudizio di appello e un anno per il giudizio di cassazione: si tratta di termini corrispondenti a quelli di ragionevole durata, previsti dalla “legge Pinto” per i rispettivi gradi di giudizio. È prevista la sospensione del termine nell’ipotesi di rinnovazione istruttoria dibattimentale (sospensione disciplinata in analogia con quella del legittimo impedimento del difensore, e cioè nel senso che il periodo di sospensione tra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere i sessanta giorni). Il termine è pure sospeso, nei confronti di tutti gli imputati, quando si debba procedere a nuove ricerche dell’imputato irreperibile per la notificazione del decreto di citazione per l’appello e per gli avvisi che devono esser fatti ai difensori e all’imputato, ex art. 613, comma 4, cpp.

Alla scadenza del termine, la corte pronuncia sentenza di improcedibilità che, una volta definitiva, «travolge la sentenza impugnata, sia essa di condanna o di assoluzione»[27].

 

6.3. La proroga del termine

Il giudice può disporre una proroga del termine (nella misura massima di un anno per l’appello e di sei mesi per la cassazione, così da giungere rispettivamente a tre anni e a due anni), ma deve trattarsi di giudizi particolarmente complessi, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare.

Contro l’ordinanza che dispone la proroga, l’imputato e il suo difensore possono proporre entro cinque giorni un ricorso per cassazione, privo di effetto sospensivo, che dovrà essere deciso entro trenta giorni e, se respinto, non potrà più essere riproposto con l’impugnazione della sentenza. Sembra potersi arguire che questa possibilità di ricorso esista solo con riferimento alla proroga disposta nella fase di appello e non a quella emessa dalla stessa Cassazione, in relazione a un processo avanti a lei pendente.

Qualora la Cassazione pronunci sentenza di annullamento (e fatti salvi i casi di passaggio in giudicato delle parti della sentenza che non hanno connessione con l’annullamento ex art. 624 cpp), i termini di cui al comma 1 dell’art. 344-bis cpp ricominceranno a decorrere nel giudizio di rinvio (a partire dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine di deposito della sentenza previsto dall’art. 617 cpp) e saranno possibili proroghe nel caso di processi particolarmente complessi relativi ai gravi delitti sotto precisati; inoltre, saranno applicabili le disposizioni dei commi 5, 6 e 7 dell’art. 344-bis cpp.

 

6.4. Le ulteriori proroghe e i dubbi di costituzionalità

Ulteriori proroghe rispetto a quella sopra menzionata possono essere concesse quando, oltre al requisito della complessità, ricorra anche quello della tipologia del reato, e cioè si tratti dei delitti di cui agli artt. 270, comma 3, 306 comma 2, 416-bis, 416-ter e 609-bis nelle ipotesi aggravate di cui agli artt. 609-ter, 609-quater, 609-octies cp, del delitto di cui all’art. 74 Tu n. 309/1990, nonché dei delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis, comma 1, cp. 

Nondimeno, recita il comma 4 dell’art. 344-bis novellato, quando si procede per questi ultimi delitti (puniti con pena diversa dall’ergastolo e commessi avvalendosi delle condizioni dell’art. 416-bis cp - cd. aggravante mafiosa), i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione (e quindi, per questi soli delitti, si giunge a un termine massimo di sei anni in appello e di tre anni in Cassazione[28]). Quando si procede invece per gli altri reati sopra menzionati, non è previsto un limite temporale massimo di durata[29].

Al di fuori dalle ipotesi disciplinate dal regime transitorio, si delinea quindi un sistema che prevede, a seconda dei reati per cui si procede, un diverso regime di improcedibilità e di durata massima della fase delle impugnazioni e che – per le ragioni che sotto si esporranno – pone qualche dubbio di conformità alla Costituzione: 

- per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, di associazione mafiosa e di scambio elettorale politico-mafioso, di violenza sessuale aggravata e di traffico di stupefacenti, il termine dei due anni in appello e di un anno in Cassazione può essere prorogato, sempre per ragioni inerenti la complessità del giudizio, con successive proroghe, senza limiti di tempo;

- per i delitti aggravati dal metodo mafioso e dall’agevolazione mafiosa ai sensi dell’articolo 416-bis.1, possono essere concesse proroghe fino a un massimo di tre anni per l’appello e un anno e sei mesi per il giudizio di legittimità; 

- per tutti gli altri reati, è possibile solo una proroga di un anno per il giudizio di appello e di sei mesi per il giudizio in Cassazione: la durata massima di fase è quindi di tre anni per l’appello e di un anno e sei mesi per la Cassazione, sempre che ricorrano i motivi di complessità che giustificano la proroga.

Il nostro codice conosce già l’istituto della “proroga di termini massimi”, ma con riguardo alla custodia cautelare (art. 305 cpp). Si tratta di un istituto di carattere eccezionale, che può essere attivato solo quando ricorrano simultaneamente i requisiti delle gravi esigenze cautelari, della necessità di procedere ad accertamenti di particolare complessità, della indispensabilità della protrazione della custodia affinché detti accertamenti possano essere espletati, dovendo il giudice espressamente motivare in relazione a tale ultimo profilo[30]: è comunque previsto che, con la proroga, non possano essere superati di oltre la metà i termini di fase di cui all’art. 303, comma 1, cpp. 

A differenza del nuovo art. 344-bis, l’art. 305 cpp indica alcune ipotesi molto precise, in relazione alle quali è assai limitato l’ambito di discrezionalità del giudice: l’espletamento di una perizia sullo stato di mente dell’imputato, la sussistenza di gravi esigenze cautelari che, in relazione ad accertamenti particolarmente complessi o a nuove indagini disposte dal pm ai sensi dell’art. 415-bis, comma 4, cpp, rendano indispensabile il protrarsi della custodia. La valutazione della complessità si riferisce quindi agli accertamenti[31] e non, come nell’art. 344-bis novellato, al giudizio di impugnazione nel suo complesso. È ben vero che la norma introdotta dalla riforma fornisce degli indicatori su cui parametrare il giudizio di complessità (numero delle parti o delle imputazioni; numero o complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare), ma si tratta di indicazioni generiche e non viene seriamente vincolata la discrezionalità della corte nel valutare i parametri della complessità.

In questo modo, è concreto il rischio che il giudice diventi l’arbitro ultimo dei tempi del processo, mentre secondo l’art. 111, comma 2, Costituzione è la legge che deve assicurarne la ragionevole durata[32] e fissarne in modo tassativo la cornice temporale a seconda della gravità dei reati e della complessità dei relativi giudizi. Come ha recentemente affermato la Corte costituzionale[33], «è il legislatore che – secondo scelte di politica criminale legate alla gravità dei reati – valuta l’affievolimento progressivo dell’interesse della collettività alla punizione del comportamento penalmente illecito e determina quando il decorso del tempo, in riferimento ad ogni fattispecie di reato, ne comporti l’estinzione» e stabilisce la «durata, per così dire “tabellare”, prevista in generale dall’art. 157 cod. pen». A ben vedere, la Corte si riferisce in questo caso all’istituto della prescrizione, che attiene al diritto sostanziale e non a quello processuale della improcedibilità, però la Consulta amplia le sue riflessioni anche agli aspetti processuali che hanno ricadute sostanziali sul termine entro cui si può giudicare un reato, e afferma che «una persona accusata di un reato deve poter conoscere ex ante (ossia al momento della commissione del fatto) sia la fattispecie di reato, sia l’entità della pena con proiezione, entro certi limiti, anche alle modalità della sua espiazione in regime carcerario (sentenza n. 32 del 2020), sia la durata della prescrizione (art. 157 cod. pen.). (…) Ciò comporta – come già rilevato – non già l’esatta prevedibilità ex ante del dies ad quem in cui maturerà la prescrizione e il reato sarà estinto (…) ma la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale».

Alla luce delle indicazioni della Corte, può dirsi che la valenza sostanziale della prescrizione, mediata dalla regola processuale dell’improcedibilità introdotta dall’art. 344-bis cpp, ricade comunque nell’area di applicazione del principio di legalità, il quale richiede che, incidendo sulla possibilità di giudicare un determinato reato, l’improcedibilità sia determinata nei suoi elementi costitutivi, sì da assicurare un sufficiente grado di conoscenza o di conoscibilità.

Quale grado di conoscibilità può avere a priori un imputato, riguardo alle situazioni che potranno giustificare una o più proroghe della durata del processo, se la formulazione dei criteri di valutazione della complessità è assolutamente generica? Quanto al numero di parti, è evidente che lo stesso reato commesso dal medesimo numero di imputati e con il medesimo numero di parti civili potrà essere valutato complesso o meno, a seconda che venga giudicato nell’una o nell’altra corte d’appello, a seconda della sussistenza di condizioni non facilmente ponderabili a priori, quali le risorse umane e l’arretrato pendente nell’ufficio, che consentano di celebrare celermente quel processo. Quanto al numero di imputazioni, una serie innumerevole di imputazioni per reati seriali può non determinare la stessa complessità di poche imputazioni per un reato associativo o socioeconomico, difficile da approfondire sotto il profilo probatorio; e non è valutabile oggettivamente neppure l’aspetto relativo al numero o alla complessità delle questioni di fatto o di diritto da esaminare, che rischia di creare forti disuguaglianze di trattamento tra chi è giudicato da un collegio composto da magistrati di grande esperienza, piuttosto che da magistrati meno esperti nella materia da trattare.

Inoltre, non sembra sia stato previsto un termine massimo insuperabile per le proroghe relative alle tipologie di reato previste dal comma 4 dell’art. 344-bis cp (è previsto un “tetto” alla durata complessiva delle proroghe per il solo caso dei reati aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cp[34]).

Ci si domanda quindi se l’istituto della proroga, singola o plurima, senza la previsione di un termine massimo per alcuni gravi reati, troppo incerto nel “se”, nel “per quanto tempo” e nel “per quali tipologie di processi in relazione ai criteri dettati dall’art. 344-bis cpp”, non venga a ledere oltre al principio della ragionevole durata del processo che il legislatore deve “assicurare”, cui si ispira pure la riforma, anche quelli di legalità e di uguaglianza tra gli imputati giudicati per gli stessi reati da corti diverse[35]

I principi delineati nel nuovo art. 344-bis entreranno in vigore il 19 ottobre 2021, prima che venga esercitata la delega da parte del Governo in relazione ai punti di cui all’art. 1. In assenza di una “correzione di rotta” da parte del legislatore, bisogna sperare in un’attività interpretativa giurisprudenziale precisa e uniformatrice, che costituisca un serio vincolo per l’esercizio della discrezionalità dei magistrati delle corti d’appello, in ordine alla concessione o meno delle proroghe e alla durata delle stesse.

 

7. Rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale e l’azione civile esercitata nel processo penale

Il comma 13, lett. d, delega al Governo la disciplina dei rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione e l’azione civile esercitata nel processo penale, nonché i rapporti tra la medesima improcedibilità dell’azione penale e la confisca disposta con la sentenza impugnata; invita quindi ad adeguare la disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili, assicurando una regolamentazione coerente della materia. 

Le persone offese costituite parte civile, il più delle volte, rimangono sconcertate di fronte alla pronuncia in appello di una sentenza di non doversi procedere, che riforma una condanna di primo grado, contenente anche disposizioni a loro favore, quali la condanna al risarcimento del danno o alle restituzioni, e non per questioni attinenti a una diversa valutazione delle prove, bensì unicamente per il decorso del tempo. Ai sensi dell’art. 578 cpp, il giudice d’appello che dichiari ndp per estinzione del reato per prescrizione o amnistia è tenuto, però, a decidere sull’impugnazione quanto ai soli aspetti civili, e potrà confermare o riformare la sentenza solo con riguardo alle questioni civilistiche. Più volte la giurisprudenza di merito ha dubitato dell’opportunità di lasciare al giudice penale questa competenza anche dopo l’estinzione del reato, ritenendo che sarebbe stato più logico che in questo caso la competenza a decidere passasse al giudice civile. Ma la Cassazione ha ribadito che, nell’ipotesi in cui, a seguito di appello proposto dall’imputato, il giudice dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione, l’accertamento giudiziale deve proseguire ai soli fini dell’accertamento della responsabilità civile, ai sensi dell’art. 578 cpp, secondo le regole e le garanzie del processo penale e davanti al collegio penale[36].

Con la legge n. 134 si è voluto invece – con una modifica immediatamente precettiva – ampliare la rubrica dell’art. 578 cpp e aggiungere un comma 1-bis, secondo cui il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 344-bis cpp, in relazione a un processo in cui è stata pronunciata condanna anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, rinvia per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che deciderà valutando le prove acquisite nel processo penale. 

Il novellato articolo 578 cpp (così come il nuovo art. 344-bis cpp) si applica solo ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020 (vds. art. 2, comma 3) e, se i relativi procedimenti saranno già pervenuti al giudice dell’impugnazione, i termini massimi decorreranno dal 19 ottobre 2021, data di entrata in vigore della legge che introduce la nuova ipotesi di improcedibilità. L’intento della riforma è quello di concludere definitivamente il processo penale ed evitare un sovraccarico di lavoro presso la corte penale, impedendo la prosecuzione di un giudizio di appello che già si è protratto per più di due anni senza arrivare a una decisione sugli aspetti penalistici[37]. Si è voluto, quindi, sollevare il giudice penale da un accertamento spesso non semplice sulle questioni civilistiche e non far gravare sulla parte civile un obbligo di riassunzione della causa davanti al giudice civile. La mancata estensione dello spostamento di competenza al giudice civile, anche nell’ipotesi di prescrizione o amnistia, può giustificarsi con il fatto che, una volta a regime, i processi pendenti in appello per reati commessi dopo il 1° gennaio 2020 non si prescriveranno più e quindi non sarà ad essi applicabile il comma 1 dell’art. 578 cpp, bensì unicamente il comma 1-bis, nell’ipotesi di superamento dei termini massimi di durata della fase di impugnazione. E in questo caso, allora, sarà il giudice civile a doversi occupare delle questioni civilistiche.

Il tema dei rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale e la confisca disposta con la sentenza impugnata, già oggetto di ampio dibattito in giurisprudenza e in dottrina, dovrà essere affrontato dal Governo, ai sensi del comma 13, lett. d, sia con riguardo alla confisca ex art. 240 cp, che a quella «in casi particolari» di cui all’art. 240-bis, oggetto della novella del 2018.

 

8. La giustizia riparativa e le “soft skills[38] del magistrato 

Le disposizioni riguardanti la giustizia riparativa[39] costituiscono una delle innovazioni più significative e importanti della riforma, che, se adeguatamente assistita da un ingente investimento di risorse umane specializzate e materiali, se accompagnata da un mutamento della mentalità plurisecolare dell’opinione pubblica sulla valenza del principio biblico “occhio per occhio, dente per dente”, se attuata con intelligenza e passione da tutti gli attori del processo, opportunamente formati, potrà veramente cambiare le prospettive dell’esecuzione della pena ed attuare il principio costituzionale della finalità rieducativa.

Il tema è ampiamente trattato nel presente fascicolo da Marco Bouchard e Fabio Fiorentin, al cui contributo faccio rinvio. Mi preme qui sottolineare alcuni aspetti più generali, attinenti alla possibilità di iniziare percorsi di giustizia riparativa anche nella fase della cognizione e alla formazione del magistrato.

È veramente importante che l’ accesso ai programmi di giustizia riparativa sia consentito non solo in fase esecutiva, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, e non solo in relazione ai reati di minore gravità di competenza del giudice di pace o a quelli commessi da minorenni, ma riguardi tutti gli imputati e tutti i reati, in ogni stato e grado del procedimento, come prescrive il comma 18. Il dialogo tra vittima e offensore non può essere riservato solo alla fase esecutiva.

L’esperienza di altri Paesi che hanno introdotto una disciplina specifica sulla giustizia riparativa (in particolare, il Belgio[40]) evidenzia che, ben prima che intervenisse una normativa nazionale a regolare la materia, i pubblici ministeri e i giudici suggerivano o ricorrevano a istituti di giustizia riparativa anche nella fase della cognizione, e in qualche modo tenevano conto degli elementi positivi che nascevano dai percorsi con il riconoscimento di attenuanti o la derubricazione degli illeciti, o una più mite determinazione della pena. Del resto, anche in Italia l’esperienza dei primi anni di applicazione dell’istituto della messa alla prova – che pur mancando di alcuni presupposti della giustizia riparativa, quali la volontarietà e la partecipazione della vittima del reato, ha però finalità e connotati simili[41] – ha dimostrato che un approccio riparativo, e in taluni casi anche l’incontro riparativo con la vittima, ben possono avvenire con successo fin dall’inizio delle indagini e lungo tutto l’arco del processo.

La “riforma Cartabia” si è certamente giovata dell’esperienza di altri Paesi[42], non solo europei, laddove ha previsto (comma 18, lett. c) che in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena sia la stessa autorità giudiziaria a prendere una iniziativa diretta a proporre la mediazione, dopo una positiva valutazione sull’utilità del programma e previo consenso libero e informato delle parti[43]. L’informazione che la parte, necessariamente, deve ricevere dal magistrato fin dall’inizio delle indagini apre uno sguardo su prospettive parallele rispetto a quella strettamente processuale: prospettive che magari le parti non sono in grado di affrontare nell’immediatezza del fatto-reato, ma che è bene vengano delineate fin da subito, per favorire una loro graduale maturazione nel tempo.

La possibilità di intraprendere un incontro tra reo e vittima dipende, oltre che dalla situazione personale delle parti, anche dal crimine, dal luogo e tempo di commissione del reato, dalla fase processuale, dal “momento opportuno” che anche il magistrato, con la sua sensibilità, può cogliere.

Con riferimento alle indagini preliminari, ho percepito perplessità da parte degli uffici di procura non minorile, in quanto si ritiene che sia preliminare, rispetto alla mediazione, un accertamento del fatto. Si ritiene anche che vi sia il rischio che l’inizio di un percorso riparativo tra reo e vittima, in questa prima fase, possa comportare un inquinamento probatorio (soprattutto per l’ipotesi in cui la giustizia riparativa non abbia esito positivo e si debba proseguire il processo), o addirittura possa comportare la non emersione di fatti-reato per i quali, invece, sarebbe obbligatorio esercitare l’azione penale: e ciò anche per la confidenzialità che deve caratterizzare i percorsi riparativi, tale per cui tutto quanto viene detto durante l’incontro, da un lato, non può essere utilizzato a fini penali; dall’altro lato, è però idoneo a modificare l’intimo delle persone e a incidere sui contenuti del loro successivo esame in qualità di testi o di indagati, nel momento in cui venissero esaminati nel processo. Inoltre, molti indagati, fino a quando non hanno la certezza della sussistenza di prove decisive nei loro confronti, confidano in un’archiviazione o assoluzione e non sono minimamente incentivati ad accedere a un percorso riparativo.

Ma quando si arriva alla fase del giudizio (come l’esperienza della messa alla prova dimostra), gli spazi per l’inizio di percorsi riparativi che abbiano successo non mancano. In particolare, nella fase di appello, che si svolge in genere a una notevole distanza rispetto al fatto (distanza che consente a reo e vittima di ripensare agli eventi, di attenuare i primi violenti sentimenti dell’ingiustizia subita o del danno recato, di lenire la sofferenza), ho spesso trattato casi[44] in cui ho percepito l’esistenza di uno spazio per un incontro reo-vittima e per l’inizio di un percorso riparativo. In questi casi, l’ho suggerito alle parti, tramite i loro difensori, come percorso parallelo rispetto a quello giudiziario, perché poteva condurli a un risultato insperato in termini rieducativi e di riappacificazione con se stessi e con l’altro: risultato che gli esiti del processo non avrebbero potuto dare alle parti. A mio parere, vi può essere uno spazio di intervento anche in caso di proscioglimento (si pensi alle ipotesi di applicazione dell’art. 131-bis cp, in cui l’offesa è di particolare tenuità, quando un danno, pur piccolo, è stato causato alla vittima o alla società).

 Se è vero che questi percorsi devono essere attivati fuori dal processo penale e seguiti nei centri di giustizia riparativa e da mediatori adeguatamente formati, è anche vero che al magistrato è richiesto un atteggiamento nuovo che gli consenta di tenere in maggiore equilibrio i bisogni delle vittime e del reo, di guardare loro come soggetti capaci di incontrarsi e di comprendere e, forse, anche risolvere i loro conflitti. Non si tratta quindi di avere dei magistrati mediatori, perché la mediazione non può che attuarsi davanti a un soggetto “terzo”: si tratta piuttosto di iniziare a ragionare in un’ottica che valorizza le persone, parti del processo, e che consente di percepire, in taluni casi, l’esistenza di uno spazio per un incontro tra autori, vittime e comunità – anch’esse, spesso, lese gravemente dal delitto – con un approccio diverso e complementare rispetto a quello della giustizia tradizionale, che mira a recuperare ciò che il reato ha offeso. Del resto, l’art. 29, comma 4 del d.lgs n. 274/2000 già conferisce al giudice di pace la facoltà, anche di propria iniziativa, di inviare le parti alla mediazione esterna di centri e strutture pubbliche e private presenti sul territorio, al fine di favorire una conciliazione tra le parti laddove vi sia una possibilità di incontro. 

Attivando le sue “soft skills”, la capacità di ascoltare e comprendere cosa veramente è successo alle parti e alla comunità, di capire quali danni il reato ha causato alla vittima e quali sono le sue esigenze, quale comportamento l’imputato ha tenuto dalla commissione del reato in poi, il magistrato può favorire un percorso di mediazione.

Quest’ulteriore compito del magistrato non è certamente facile e non sempre è compatibile con il suo carico di lavoro: perché, ad esempio, sentire personalmente la persona offesa – anziché delegarne l’esame alla polizia giudiziaria – anche su aspetti attinenti al danno materiale e soprattutto morale che il reato le ha causato, e non solo al fine di acquisire elementi utili per l’accertamento del fatto, comporta un impegno lavorativo non da poco per un pm. E per il giudice può essere talora difficile svolgere tale attività mantenendo un’immagine di terzietà.

I magistrati che si occupano di questioni minorili o della famiglia e delle persone sono già abituati a usare queste competenze trasversali. Ora, anche il giudice penale “ordinario” dovrà prendere conoscenza di aspetti che non sono solo quelli strettamente tecnici e giuridici del reato e magari dovrà entrare in relazione con gli altri attori che partecipano al processo di giustizia riparativa: le reti di soccorso alle vittime, i centri di mediazione e giustizia riparativa, etc. E ciò perché la giustizia riparativa è un “servizio” che deve poter essere accessibile a tutti, anche se non può assolutamente essere imposto a nessuno. 

È ben possibile che per determinate categorie di reato, in particolare i reati patrimoniali o cd. “d’impresa”, che pure tanta sofferenza provocano alle persone offese[45], più che la mediazione tra le persone prevista dalla riforma possano esser valorizzate – anche ai fini previsti della valutazione di cui all’art. 1, comma 18, lett. e della riforma – condotte riparative quali quelle previste dalla legge n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche[46]: ad esempio, la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca, l’eliminazione di conseguenze dannose o pericolose del reato, l’eliminazione delle carenze organizzative o di sicurezza degli ambienti di lavoro che hanno determinato alcuni reati. Si tratta di programmi differenti da quello che prevede l’incontro tra reo e vittima, anche “indiretta” o “surrogata”[47], anche se questi percorsi potrebbero «trarre grande beneficio dal supporto di facilitatori esperti e dagli strumenti della Giustizia Riparativa, sia per favorire un dialogo costruttivo tra l’ente, le vittime, eventuali rappresentanti della comunità o enti e associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, sia per rappresentare in seguito all’autorità procedente che le iniziative remediali sono state assunte coinvolgendo effettivamente i titolari dei beni giuridici offesi dal reato»[48] (c.vo aggiunto).

Non è sempre facile per un giudice penale tenere insieme la fedeltà al proprio ruolo e lo “sporgersi” verso qualcosa che non è più solo diritto, l’attivare una sorta di «empatia giudiziaria praeter legem», come l’ha chiamata Elvio Fassone, parlando dell’etica del magistrato ai magistrati in tirocinio[49]: una capacità che riguarda le sue competenze non tecniche e le interdipendenze con le conoscenze scientifiche. Inoltre, il giudice penale si occupa in principalità di accertare la sussistenza del reato e la responsabilità dell’autore dello stesso, mentre la giustizia riparativa mette in rilievo soprattutto il danno che il reato ha determinato e le conseguenze che dallo stesso sono derivate. La formazione dovrà quindi aiutare il magistrato ad approfondire anche questi aspetti e a coltivare le sue competenze trasversali.

Quanto agli esiti del percorso e alla loro incidenza sul processo penale, la legge delega invita il Governo a prevedere sia che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena, sia che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa o il suo fallimento non producano effetti negativi a carico della vittima del reato o dell’autore del reato nel procedimento penale o in sede esecutiva. 

Si può pensare ad attenuanti, a riduzioni di pena, a benefici premiali o addirittura a ipotesi di estinzione del reato, come avviene per le oblazioni condizionate. 

Ma certamente la legge non potrà mai determinare in modo tassativo quali devono essere gli effetti positivi della giustizia riparativa sulla decisione, perché resta necessariamente al giudice uno spazio di discrezionalità nel valutarli e nel commisurarli al caso concreto. E il giudice, anche su questo fronte, deve essere formato ad esercitare la sua discrezionalità e ad essere il garante del rispetto delle garanzie procedimentali e dell’incorporazione, nella sua decisione, dei risultati positivi del percorso.

 

 

*  Il presente contributo è stato pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 29 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/riforma-cartabia-e-processo-d-appello).

1. Per un esame e confronto dei diversi articolati, si rinvia alle Schede di lettura redatte dai Servizi studi del Senato e della Camera ( www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01307197.pdf; https://documenti.camera.it/Leg18/Dossier/Pdf/gi0122c.Pdf).
Il disegno di legge AC 2435 è stato presentato dal Governo Conte II alla Camera il 13 marzo 2020, e sul testo la Commissione giustizia ha deliberato di svolgere un’indagine. Con la formazione del Governo Draghi, il Ministro della giustizia Cartabia, nel mese di marzo 2021, ha insediato una Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al ddl AC 2435 (cd. Commissione Lattanzi). Sulla base dei lavori di questa commissione, il 14 luglio 2021 il Governo ha presentato una serie di emendamenti al testo originario. La Commissione giustizia ha concluso l’esame del provvedimento (AC 2435-A) il 30 luglio 2021.

2. Sul contesto nazionale e sovranazionale che ha portato alla maturazione della riforma, vds. A. Spataro, La riforma del processo penale (legge 27 settembre 2021, n. 134), in Politica del diritto, n. 4/2021, pp. 639 ss.

3. Da ultimo, vds. N. Rossi, Sui tempi dei processi si profila un cattivo compromesso, nella rubrica Controvento di questa Rivista online, 19 luglio 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/sui-tempi-dei-processi-si-profila-un-cattivo-compromesso; M. Daniel - P. Ferrua - R. Orlando - A. Scalfati - G. Spangher, Sulla disciplina della improcedibilità. Una posizione critica (30 agosto 2021), in questa Rivista online, 6 settembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/improcedibilita.

4. La stessa Ministra, nel corso di una tavola rotonda tenutasi a Firenze il 19 luglio 2021 («Ufficio per il processo: come farlo funzionare?»), ha dichiarato che «il testo approvato non coincide con la proposta originaria: e se proprio dobbiamo ricorrere a degli slogan, a quelle frasi fatte che si usano nel linguaggio mediatico, più che una riforma Cartabia è una mediazione Cartabia».

5. Così si è espresso il presidente delle Camere penali G.D. Caiazza nell’articolo pubblicato il 27 settembre 2021 sul Riformista, dal titolo: Approvata la riforma, sapete chi scriverà le norme? I magistrati.

6. N. Rossi, Sui tempi, op. cit.

7. Secondo la Relazione finale della Commissione Lattanzi del 24 maggio 2021, «il giudizio di appello si connota per una durata media ben al di sopra delle statistiche europee (secondo l’ultimo Rapporto CEPEJ la durata stimata è pari a 851 giorni, a fronte della media europea di 155 giorni) e per il progressivo accumulo di un arretrato assai preoccupante, pari a 260.946 regiudicande nel 2019. Si tratta di una cifra a sua volta più che doppia rispetto al numero di regiudicande esaurite annualmente dalle corti d’appello, il che fa sì che ci vorrebbero oltre due anni a “sopravvenienze zero” affinché i giudici di seconde cure riuscissero ad azzerare il carico residuo, ossia un tempo paradossalmente superiore a quello stabilito dalla legge Pinto per il grado in esame» (vds. pp. 35-36). 

8. Così ha dichiarato la Ministra Cartabia durante il discorso citato, tenuto a Firenze. Nell’articolo di V. Maglione e B.L. Mazzei, Riforma del processo penale, i tre punti chiave per il giudizio in Corte d’Appello, apparso su Il Sole 24 ore il 28 giugno 2021, viene riportato il volume dei carichi pendenti delle varie corti d’appello a fine 2020: 57.326 fascicoli la Corte di Napoli; 49.115 quella di Roma; 18.127 quella di Bologna; 15.238 la Corte di Catania; 14.838 quella di Torino; 14.796 la Corte di Firenze; 13.596 la Corte di Venezia; 12.464 la Corte di Bari; 9099 la Corte di Milano; 8060 quella di Palermo.

9. Sul punto vds. L. Scollo, La riforma penale è piena di buoni propositi, vedremo se basteranno, Domani, 2 ottobre 2021.

10. Vds. www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01307197.pdf, pp. 22 ss. 

11. In questa ipotesi, la disposizione di cui al comma 7, lett. e, delega il Governo a prevedere che, fino alla scadenza del doppio del termine di prescrizione del reato, proseguano le ricerche dell’indagato assente e che durante tale periodo possano essere assunte, su richiesta di parte, prove non rinviabili, con le forme previste per il dibattimento, in analogia con quanto già previsto dall’art. 420-quater cpp. Sarà competente il giudice di primo grado, non essendosi in questo caso instaurato il processo di impugnazione.

12. Nel frattempo la prescrizione sarà stata sospesa, fatta salva l’estinzione del reato con il superamento del doppio dei termini stabiliti dall’art. 157 cp: si prevede, quindi, un allungamento dei termini di prescrizione per evitare che il meccanismo sospensivo possa indurre l’imputato a sottrarsi volontariamente al processo con l’intento di far maturare la prescrizione. 

13. «La presente direttiva intende rafforzare il diritto a un equo processo nei procedimenti penali, stabilendo norme minime comuni relative ad alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo».

14. Cass., sez. II, 19 novembre 2019, n. 51531 (dep. 20 dicembre 2019 ), Rv. 277811, ric. Greco, fattispecie in cui la Corte ha confermato la declaratoria di inammissibilità dell’appello presentato avverso sentenza di condanna per ricettazione, con il quale l’appellante si era limitato a richiamare la disciplina generale sull’errore e sull’incauto acquisto, senza specificare per quali motivi tali principi fossero applicabili al caso, e a prospettare, senza argomentarne le ragioni, l’individuazione di un diverso tempus commissi delicti e, infine, a richiedere le attenuanti della lieve entità e le generiche, già riconosciute dal giudice di primo grado.

15. Per una sintesi del quadro normativo di riferimento durante l’emergenza Covid, vds. G. Picaro, Giudizio di appello in presenza e partecipazione dell’imputato a distanza: una ordinanza della Corte d’assise d’appello di Milano (ord. 20 gennaio 2021), in Sistema penale, 2 marzo 2021, circa l’applicabilità dell’art. 146-bis norme att. cpp e dell’art. 23 dl n. 137/2020, convertito in l. n. 176/2020 (che al comma 4 prevede che la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate, sottoposte a misura cautelare in carcere o domiciliare, o fermate o arrestate è assicurata «ove possibile» mediante videoconferenze ovvero collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore del DGSIA, e richiama, in quanto compatibili, le disposizioni dell’art. 146-bis).

16. Le sezioni unite – 30 maggio 2019, n. 41736 (dep. 10 ottobre 2019), Rv. 276754, imp. Bajrami –, pur affermando che «il principio d’immutabilità del giudice, previsto dall’art. 525, comma 2, prima parte, cod. proc. pen., impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che ha disposto l’ammissione della prova», fanno salva la valutazione del nuovo giudice, ex artt. 190 e 495 cpp, sulla manifesta o non manifesta superfluità della rinnovazione delle dichiarazioni richiesta dalle parti e stabiliscono che «[i]l consenso delle parti alla lettura ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen. degli atti assunti dal collegio in diversa composizione, a seguito della rinnovazione del dibattimento, non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile».

17. Corte cost., n. 132/2019 (Gazzetta ufficiale del 05 giugno 2019, n. 23), che ha peraltro dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità sollevata. 

18. Tra le tante, vds. Corte Edu: 27 settembre 2007, Reiner e altri c. Romania, par. 74; 30 novembre 2006, Grecu c. Romania, par. 72. Per una disamina della giurisprudenza europea e della Cassazione sul punto, e del differente “linguaggio” utilizzato dalle due Corti, vds. A. Valenti, Rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello: Corte europea e Corte di cassazione a confronto, in Cass. pen., n. 3/2021, pp. 1079 ss.

19. Cass., sez. III, 29 novembre 2019, n. 10374 (dep. 20 marzo 2020), Rv. 278546 – 02, imp. Alessio; nello stesso senso, sez. VI, 10 aprile 2018, n. 29660 (dep. 2 luglio 2018), Rv. 273443 – 01: pg in proc. Condello)

20. Secondo l’interpretazione data dalla Corte Edu nelle sentenze del 9 luglio 2002, P.K. c. Finlandia, e del 9 marzo 2004, Pitkanen c. Finlandia.

21. In questo senso si è espresso anche G. Canzio, Le linee del modello “Cartabia”. Una prima lettura, in Sistema penale, 25 agosto 2021. L’Autore evidenzia l’innovazione costituita dalla «perimetrazione della obbligatoria rinnovazione della prova dichiarativa, per il ribaltamento in appello della pronuncia assolutoria, solo se assunta in udienza di primo grado (quindi non nell’ambito del giudizio abbreviato “secco”)». È noto come, a seguito della sentenza delle sez. unite del 19 gennaio 2017, n. 18629 (Patalano, Rv 269787), la necessità di rinnovare in appello l’esame del dichiarante sia stata ritenuta necessaria anche per il caso di rito abbreviato non condizionato (e, quindi, quando neppure per il gup sussisteva una immediatezza e oralità della prova) per la necessità di garantire in appello una motivazione “rafforzata” della sentenza; a tale orientamento è seguita poi l’introduzione dell’art. 603, comma 3-bis, cpp, che impone la rinnovazione dibattimentale nel giudizio di impugnazione susseguente l’appello del pm contro sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova (sul punto cfr. A. Valenti, Rinnovazione, op. cit.).

22. Vds. la Relazione finale della Commissione Lattanzi, p. 54: «L’esigenza di salvaguardare il diritto alla ragionevole durata di quel processo – come nel caso degli speedy trial limits dell’ordinamento statunitense – è garantita da termini di durata massima, calibrati sulle diverse fasi di giudizio. Se il processo non si definisce entro il termine di fase, si determina una improcedibilità dell’azione penale. La definizione del giudizio entro il termine di fase è cioè una condizione di procedibilità. Di qui la proposta della Commissione di collocare la disciplina in esame in un nuovo art. 344-bis c.p.p., nel Titolo III del Libro V del Codice di procedura penale, dedicato per l’appunto alle condizioni di procedibilità».

23. Per consentire una graduale applicazione della riforma, le disposizioni transitorie prevedono che, in relazione ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020: se i procedimenti sono già pervenuti al giudice d’appello o alla Corte di cassazione, i termini massimi di durata del processo decorrono dalla data di entrata in vigore della presente legge; se l’impugnazione è proposta entro il 31 dicembre 2024, il termine di durata del giudizio d’appello è di tre anni e quello di durata del giudizio in Cassazione è di un anno e sei mesi. Analoghi termini si applicano in caso di giudizio conseguente a un annullamento con rinvio pronunciato entro il 2024. Vds. Schede di lettura del Senato, cit., p. 128.

24. Il giudice di cognizione di fronte alla cd. “riforma Cartabia”, in questo fascicolo.

25. La Relazione del Massimario della Cassazione sulla legge n. 134/2021, del 3 novembre 2021 (pp. 11 ss.), precisa che, anche ai fini del computo dei novanta giorni di cui all’art. 344-bis cpp, «occorre fare riferimento esclusivamente alla scadenza del termine legale o legittimamente autodeterminato dal giudice, rimanendo, dunque, irrilevanti sia il deposito anticipato della sentenza che l’eventuale ritardo» (c.vi aggiunti). Inoltre, qualora il deposito della sentenza avvenga in periodo feriale, «mentre si applica la sospensione per il termine assegnato alle parti per l’impugnazione della sentenza», ciò non ha «alcuna influenza, in assenza di una diversa previsione di legge, sul computo del periodo di novanta giorni nell’ambito del quale andrà, dunque, considerato anche l’eventuale periodo in cui opera la sospensione feriale dei termini». 

26. Per i primi tre anni, in via transitoria, la riforma prevede tre anni di durata per il giudizio di appello e un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione per tutti i processi, con possibili proroghe motivate rispettivamente di un anno e di sei mesi, nelle ipotesi di complessità richiamate nel testo.

27. G.L. Gatta, Prescrizione del reato e riforma della giustizia penale: gli emendamenti approvati dal Governo su proposta della Ministra Cartabia, in Sistema penale, 10 luglio 2021.

28. Vds., in questo senso, le Schede di lettura del Senato, cit.

29. In questo senso, ivi, p. 124.

30. Vds. sez. VI, 5 dicembre 2019, n. 434 (dep. 9 gennaio 2020 ), Rv. 278214. 

31. La giurisprudenza ha precisato che tale giudizio di complessità deve essere collegato al fatto che gli accertamenti ancora da espletare, o in corso di espletamento, non siano esauribili nei termini ordinari di durata delle indagini, proprio perché particolarmente complessi; tra le attività investigative di particolare complessità, ha compreso anche le eventuali attività valutative di un’ingente mole di documenti sequestrati e quelle dirette a rendere utilizzabili, nella successiva fase dibattimentale, i risultati delle indagini svolte – sez. II, 8 marzo 2013, n. 12811 (dep. 19 marzo 2013 ), Rv. 255549. La complessità degli accertamenti deve essere comunque accompagnata dalla necessità di ricercare un giusto contemperamento tra le opposte esigenze del diritto alla libertà dell’imputato, oltre i termini prefissati di durata massima della custodia cautelare, e della tutela della collettività, in presenza di concrete peculiarità dell’indagine processuale – sez. VI, 20 aprile 1999, n. 1434 (dep. 06 ottobre 1999), Rv. 214784. Sui criteri di valutazione della “particolare complessità” e per un raffronto con gli altri istituti che si fondano sulla “complessità del procedimento”, vedi le interessanti considerazioni della Relazione del Massimario della Cassazione, cit., pp. 22 ss.

32. Così N. Rossi, Lasciar decidere al giudice sulla durata dei processi: cancellate quest’assurdità, Il Dubbio, 3 agosto 2021.

33. C. cost., n. 140/2021 (Gazzetta ufficiale del 7 luglio 2021, n. 27), riguardante la costituzionalità dell’art. 83, comma 9, dl 17 marzo 2020, n. 18, che prevede la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui i procedimenti penali sono rinviati ai sensi del comma 7, lett. g.

34. In questo senso, vds. A. Spataro, La riforma, op. cit.

35. Aspetti di criticità sotto il profilo costituzionale vengono evidenziati anche dalla Relazione del Massimario, cit., p. 21, secondo cui «dalla mera lettura della norma emergono una pluralità di problematiche, essenzialmente collegate al deficit di tassatività del parametro di valutazione al quale ancorare la necessità della proroga, nonché alla notevole diversità di regime tra reati “ordinari” e reati per i quali le proroghe sono potenzialmente sine die. Si tratta di questioni che, peraltro, potrebbero presentare aspetti di criticità sotto il profilo dei principi costituzionali, nella misura in cui si consideri che, mediante una valutazione fondata su criteri non particolarmente stringenti, è rimessa al giudice che procede la possibilità di incidere in maniera determinante sulla durata del giudizio e sul conseguente accertamento del reato». 

36. Vds., tra le altre, sez. II, 10 maggio 2017, n. 28959 (dep. 9 giugno 2017), Rv. 270364.

37. Vds., in questo senso, G.B. Tona, Se scatta l’improcedibilità in appello nuova causa civile per i danni da reato, Il Sole 24 ore, 27 settembre 2001 (https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/se-scatta-l-improcedibilita-appello-nuova-causa-civile-i-danni-reato-AEw11ak), secondo il quale si sono volute così contemperare le ragioni della parte civile che ha scelto di far valere nel processo penale le proprie pretese e quelle dell’imputato, che matura il diritto a ottenere una dichiarazione di improcedibilità, attraverso il transito del residuo contenzioso dinanzi al giudice civile competente.

38. Con questo termine ci si riferisce generalmente alle “competenze trasversali”, cioè a quelle abilità personali diverse dalle competenze giuridiche e tecnico-scientifiche (hard skills): tra queste, le capacità comunicative e di ascolto, le sensibilità etiche, le capacità gestionali, di risoluzione dei problemi, di adattamento alle nuove realtà. Con riferimento alla figura del magistrato, si rinvia all’interessante articolo di R. Russo, Ruolo del giudice, soggetti vulnerabili e soft skills, in Giustizia insieme, 17 dicembre 2019.

39. Il comma 18, lett. a, b, c ed e, invita il Governo a: introdurre, nel rispetto della direttiva UE 2012 sulle vittime di reato e dei principi sanciti a livello internazionale, una disciplina organica della giustizia riparativa quanto a nozione, principali programmi, criteri di accesso, garanzie, persone legittimate a partecipare, modalità di svolgimento dei programmi e valutazione dei suoi esiti, nell’interesse della vittima, previa definizione della stessa, e dell’autore del reato; prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente, senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, sulla base del consenso libero e informato della vittima del reato e dell’autore del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso definiti ai sensi della lett. a

40. Con legge del 22 giugno 2005, il Belgio ha introdotto disposizioni relative alla mediazione nel «Titolo preliminare» del «Codice di procedura penale» e nel «Codice di istruzione criminale»; in Irlanda, nel 2017, è stato adottato il «Victims of Crime Act»; per quanto riguarda le disposizioni adottate in Scozia, si rinvia alla «Scottish Government Guidance for the Delivery of Restorative Justice in Scotland» del 2019 (www.gov.scot/publications/guidance-delivery-restorative-justice-scotland/pages/2/); per una disamina, peraltro risalente al 2015, delle «implementation strategies and outcomes in 36 European Countries», si rinvia a F. Dünkel - J. Grzywa-Holten - P. Horsfield (a cura di), Restorative Justice and Mediation in Penal Matters (nell’ambito del progetto finanziato dal Criminal Justice Programme of the European Union), Forum Verlag Godesberg, Mönchengladbach (DE), 2015.

41. La giustizia riparativa è la giustizia dell’incontro volontario e non solo la giustizia della riparazione, perché la riparazione è solo un risultato eventuale e non indispensabile del percorso dell’incontro; non è l’attività conciliativa svolta tra querelante e querelato dal giudice, che non può essere comunque un buon mediatore, rappresentando il ruolo ben differente del giudice, qualora la conciliazione non riesca. La giustizia riparativa deve avvenire in presenza di un terzo indipendente. Non è la messa alla prova, a cui il più delle volte l’imputato si sottopone per evitare la condanna e che non presuppone l’incontro con la vittima diretta o mediata; e non è neppure il lavoro di pubblica utilità che, anch’esso, non presuppone alcun incontro; entrambi, inoltre, non hanno il requisito della confidenzialità; e ancora non è il risarcimento del danno (o la riparazione pecuniaria), che può essere compiuto anche da una terza persona (ad esempio, l’assicurazione) per conto dell’imputato; non sono le attività socialmente utili o i percorsi di recupero previsti dall’art. 165 cp, cui può essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena per certi reati, e neppure l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, presupposto per ottenere l’oblazione condizionata (art. 162-bis cp). 

42. La Relazione finale della Commissione Lattanzi cita (vds. p. 73) la normativa irlandeseVictims of Crime Act», 2017) che, in particolare alla sez. 26 («Restorative justice»), prevede una norma generale lineare e completa sulla giustizia riparativa.

43. Ad esempio, in Belgio, l’art. 553, § 2 della legge 22 giugno 2005 introduce la mediazione «in ogni fase della procedura penale e dell’esecuzione della pena» e prevede che siano proprio il pubblico ministero, il giudice istruttore e il giudice ad attivarsi affinché le parti coinvolte in una procedura giudiziaria siano informate sulla possibilità di chiedere una mediazione; prevede inoltre che, nella misura in cui gli stessi magistrati lo ritengano opportuno, essi possano proporre una mediazione alle parti.

44. Ricordo, ad esempio, casi di diffamazione a mezzo stampa, di colpa professionale medica, di maltrattamenti in famiglia e anche casi di delitti gravissimi contro la persona.

45. Si rinvia, sul punto, alle Linee guida per la valutazione individuale dei bisogni delle vittime di corporate violence, maggio 2017 (https://publicatt.unicatt.it/retrieve/handle/10807/104103/165196/Linee%20guida%20valutazione%20individuale%20bisogni%20vittime%20corp.violence.ITA.2017.pdf), e alle Linee guida nazionali per la polizia giudiziaria, le Procure della Repubblica e i magistrati giudicanti, luglio 2017 (https://asgp.unicatt.it/asgp-VicCorpLinee_guida_pg._pm_e_giudicanti2017.pdf), redatte a conclusione del progetto europeo sulla direttiva UE n. 29/2012 sulle vittime.

46. Molto interessante, su questo tema, è l’articolo di D. Stendardi, Disposizioni del D. Lgs. 231/2001 a matrice riparativa e possibili intrecci con gli strumenti tipici della Restorative Justice, in Giur. pen., n. 4/2020, pp. 10 ss., nel quale si precisa che il d.lgs n. 231/2001 ha promosso un rovesciamento di prospettiva per molti versi affine a quello proposto dalla restorative justice: il decreto, infatti, scommette su un progetto di prevenzione orientato non alla punizione, bensì alla compliance

47. Laddove la persona offesa dal reato non sia disponibile a un percorso di giustizia riparativa con l’autore del reato, oppure non sia più in vita o reperibile, può essere attivata la mediazione con la vittima di un altro reato simile (ad esempio, la vittima di un altro scippo) o con un rappresentante della comunità lesa dal reato (ad esempio, il sindaco della città in cui l’autore ha imbrattato i muri delle case e gli edifici pubblici). Si legge, in proposito, nella Relazione finale della Commissione Lattanzi (p. 72): «la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec(2018)8 afferma che: “La giustizia riparativa prende sovente la forma di un dialogo (diretto o indiretto) tra la vittima e l’autore dell’illecito, e può anche includere, eventualmente, altre persone direttamente o indirettamente toccate da un reato. Ciò può comprendere persone che sostengono le vittime o gli autori dell’illecito, operatori interessati e membri o rappresentanti delle comunità colpite” (paragrafo 4)». 

48. Così D. Stendardi, Disposizioni, op. cit., p. 14. L’A. cita numerose pronunzie della Cassazione, che hanno affermato, anche con riferimento a queste attività riparative, la necessità di includere e interpellare i soggetti lesi dal reato per definire le attività riparative previste dal d.lgs n. 231/2001 ai fini del contenimento delle sanzioni a carico dell’ente.

49. Di quella bellissima relazione, tenuta nel 2015 presso la Ssm. Ho solo qualche appunto, ma ricordo che Fassone parlò di un’istanza etica che suggerisce al magistrato, nel proprio comportamento, di andare «al di là di quanto prescritto» dall’ordinamento giudiziario e dai codici etici, ed esortò i giovani magistrati a «fare molto di più del nostro dovere» e a «sentire la sorte delle persone come propria».