Magistratura democratica

Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio… nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge*

di Saulle Panizza

Nel contributo si ripercorrono le ragioni costituzionali del principio di obbligatorietà dell’azione penale, quale strumento di garanzia per l’esercizio indipendente della funzione inquirente e requirente e di garanzia di eguale trattamento dei cittadini di fronte alla legge penale. Da questa base muove poi l’ulteriore riflessione dell’Autore, che si interroga sulle possibili implicazioni che può sollevare sul piano costituzionale la previsione che gli uffici del pubblico ministero individuino criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge.

1. L’art. 112 Cost. e i significati attribuiti dalla giurisprudenza costituzionale al principio di obbligatorietà dell’azione penale / 2. Il contesto ordinamentale e la dimensione tabellare / 3. La tematica dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale / 4. La recente riemersione dei criteri di priorità nel quadro di crisi del governo autonomo della magistratura e nell’ottica dell’efficienza della giustizia / 5. Prime osservazioni sulla legge n. 134/2021 in riferimento all’individuazione dei criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale / 6. Cosa rimane della formulazione dell’art. 112 Cost.?

 

1. L’art. 112 Cost. e i significati attribuiti dalla giurisprudenza costituzionale al principio di obbligatorietà dell’azione penale

Esaminare le vicende attuali in ordine al principio di obbligatorietà dell’azione penale per il pubblico ministero implica affrontare un tema che affonda le proprie radici nella configurazione pre-repubblicana dell’ordinamento giudiziario, si sviluppa in un disegno costituzionale non privo di incertezze e arriva a noi attraverso una lunga serie di riforme legislative e interventi giurisprudenziali, in particolare della Corte costituzionale[1].

Il testo dell’art. 112 Cost. («Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale») trova il proprio antecedente nell’art. 101 del «Progetto di Costituzione della Repubblica italiana», discusso in Assemblea costituente nella seduta antimeridiana del 27 novembre 1947, il quale prevedeva che «L’azione penale è pubblica. Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare»[2]. Rispetto ad esso furono presentati vari emendamenti, e importanti affermazioni si ricavano proprio dal dibattito che ha condotto alla formulazione definitivamente approvata[3]. L’organizzazione e le funzioni del pubblico ministero rappresentano, peraltro, un nodo cruciale dell’assetto complessivo della magistratura, oltre che un elemento qualificante dell’intero modello di ordinamento giudiziario, ed è noto come alla definizione di esso molto abbia contribuito, negli anni, la giurisprudenza costituzionale[4]. La Corte ne ha infatti ricavato un nucleo duro di significato e una precisa valenza di garanzia.

Il senso del principio è stato rinvenuto nella esplicita volontà di escludere una qualsiasi discrezionalità del pm in ordine al promovimento dell’azione penale. Questo significato profondo, a sua volta, si è venuto precisando alla luce di una serie di ulteriori corollari[5].

Accanto al nucleo così individuato, come corroborato alla luce della disciplina processual-penalistica in particolare, la giurisprudenza costituzionale è venuta annettendo al principio costituzionale quella che potremmo definire una robusta portata di garanzia. Essa si concretizza in una duplice direzione, secondo linee di sviluppo che appaiono peraltro inscindibili tra loro, come nettamente affermato a partire soprattutto dalla sentenza n. 84/1979: il disposto costituzionale che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale ad opera del pm, vi si legge, è elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pm nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale.

L’affermazione, elaborata nel vigore del vecchio codice di procedura penale, è riproposta con immutata nettezza anche nel vigore del nuovo, ad opera della giurisprudenza successiva al 1989. La testimonianza più netta si ha con la sentenza n. 88/1991, della quale mette conto riportare il passaggio argomentativo più significativo: «il principio di legalità, che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale. Realizzare la legalità nell’eguaglianza non è, però, concretamente possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l’indipendenza del pubblico ministero». Fino a pervenire a una delle affermazioni più note sul tema, quella per cui «[i]l principio di obbligatorietà è, dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo».

 

2. Il contesto ordinamentale e la dimensione tabellare

All’inquadramento del pubblico ministero molto hanno contribuito anche le previsioni legislative che si sono succedute, a partire dalla configurazione ordinamentale dell’organo contenuta nel titolo III del rd n. 12/1941 (artt. 69 ss.), come modificata fin dal rd.lgs n. 511/1946 e poi nei decenni di vita repubblicana, specie tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso, in corrispondenza con il passaggio al nuovo codice di procedura penale. Basterebbe qui ricordare l’art. 70 della legge di ordinamento giudiziario («Costituzione del pubblico ministero»), a sua volta correlato con l’art. 53 cpp («Autonomia del pubblico ministero nell’udienza»), il quale ultimo stabilisce la piena autonomia del pm in udienza e i possibili casi di sostituzione[6].

Un ulteriore elemento da considerare è rappresentato dal sistema tabellare, vale a dire l’insieme di regole e attività, frutto della progressiva elaborazione del Consiglio superiore della magistratura (a partire dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso) e di successive conferme legislative, attraverso le quali sono stati inverati molti principi costituzionali in tema di ordinamento giudiziario, dall’indipendenza e inamovibilità dei magistrati al giudice naturale precostituito per legge[7]. A partire dalla fine degli anni ottanta, la materia tabellare ha finito per estendersi anche all’organizzazione degli uffici del pm, sia pure con una serie di previsioni in parte differenti rispetto a quelle applicabili agli uffici giudicanti. I passaggi maggiormente significativi, per quanto qui interessa, sono rappresentati dall’introduzione, nel 1988, nella legge di ordinamento giudiziario, dell’art. 7-bisTabelle degli uffici giudicanti») e dell’art. 7-terCriteri per l’assegnazione degli affari e la sostituzione dei giudici impediti») e la circostanza che in quest’ultima disposizione sia poi stato aggiunto (dall’art. 6 d.lgs n. 51/1998) un ultimo comma, a tenore del quale «Il Consiglio superiore della magistratura determina i criteri generali per l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e per l’eventuale ripartizione di essi in gruppi di lavoro».

Tali indicazioni sono state riccamente sviluppate attraverso le circolari sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari, con conseguenze significative. Su tale assetto ha poi inciso, come noto, la riforma originata dalla legge n. 150/2005, cui poi hanno fatto seguito, sul tema, il decreto legislativo n. 106/2006 e i ritocchi disposti dalla legge n. 269/2006 (minor rilievo rivestono, ai nostri fini, le ulteriori modifiche apportate a vari aspetti della riforma da parte della legge n. 111/2007)[8].

Limitandosi ad accennare agli aspetti che più direttamente coinvolgono l’esercizio dell’azione penale e il significato rivestito dall’art. 112 Cost., mette innanzitutto conto ricordare come l’iter di approvazione della l. n. 150/2005 sia stato caratterizzato da un rinvio presidenziale sul testo approvato in prima battuta dalle Camere[9]. Accanto a una osservazione attinente al drafting normativo, il Capo dello Stato evidenziava, si ricorderà, quattro motivi di «palese incostituzionalità», i primi due dei quali si riferivano a una serie di disposizioni costituzionali, tra cui anche l’art. 112[10].

Il primo aveva attinenza alla disposizione riguardante le «Relazioni sull’amministrazione della giustizia», osservandosi, in particolare, che ciò configurava un potere di indirizzo in capo al Ministro della giustizia, che non trova cittadinanza nel titolo IV, parte II della Costituzione, in base al quale l’esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato, sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni dello stesso Csm, e si aggiungeva che «l’indicazione di obiettivi primari che l’attività giudiziaria dovrebbe perseguire nel corso dell’anno (“linee di politica giudiziaria”) determina di per sé la violazione anche dell’articolo 112 della Costituzione, in base al quale “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: il carattere assolutamente generico della formulazione della norma in esame crea uno spazio di discrezionalità politica destinato ad incidere sulla giurisdizione».

Il secondo investiva la disposizione riguardante l’istituzione, presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria, dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con i mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali. Dopo aver riscontrato contrasti con vari principi costituzionali, si osservava nel messaggio presidenziale che «da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni; in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza “della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione».

Non si tornerà, qui, sui contenuti di quelle riforme, se non per ricordare che in occasione di esse venne anche abrogata la parte dell’art. 7-ter, comma 3 dell’ordinamento giudiziario a suo tempo introdotta per dare “copertura” legislativa ai poteri del Csm di definizione degli assetti organizzativi degli uffici di procura, ciò che ha finito per produrre, come si dirà, una cospicua serie di interventi del Consiglio con successive deliberazioni.

 

3. La tematica dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale

All’interno del più generale contesto così delineatosi intorno alla figura del pubblico ministero, negli anni si è posta a più riprese la tematica dei cd. “criteri di priorità” nell’esercizio dell’azione penale, soprattutto quale problema pratico-quantitativo di un ordinamento in costante difficoltà nel far corrispondere la prassi alla teoria[11]. In sostanza, l’art. 112 Cost. esigerebbe che ad ogni notitia criminis sia dato un seguito ugualmente tempestivo, ma ciò risulta impossibile nella realtà, con la conseguenza che verrebbero talora elaborati e praticati criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato, ma in via di fatto e occasionalmente, non invece sulla base di norme o comunque indicazioni previgenti, con sostanziale elusione del principio costituzionale[12].

Di fronte all’esistenza del problema, sarebbe buona norma, in primo luogo, interrogarsi sulle sue origini, allo scopo di individuarne le cause, per muovere da lì alla ricerca dei possibili rimedi. In verità, questo non sempre accade e i modi di affrontare il tema divergono. Né è privo di significato il fatto che le proposte di soluzione abbiano fino ad ora oscillato, anche in ambito dottrinario, tra interventi sul piano del diritto costituzionale ovvero su quello della normativa primaria o secondaria – quanto ai contenuti, con indicazioni nel senso di individuare competenze in capo a nuovi soggetti, (più semplici) attività di razionalizzazione incidenti sul piano operativo, mediante l’elaborazione di criteri pratici o persino (fattuali) modifiche di comportamento da parte degli operatori, capi e magistrati addetti agli uffici del pubblico ministero[13].

Senza pretesa di ripercorrere l’ampio ventaglio di posizioni espresse e mirando invece, più semplicemente, a sintetizzare una impostazione largamente diffusa, si può dire che la tematica dei criteri di priorità venga di norma affrontata, in concreto, una volta poste alcune premesse. Se si opta per rimanere nell’attuale quadro costituzionale di riferimento (ben diverso il caso, ovviamente, che gli stessi principi costituzionali siano messi in discussione), si tende ad accettare, quale dato di partenza in qualche modo ineludibile, che il legislatore non sia in grado (per varie ragioni) di approvare interventi, sostanziali o processuali, capaci di ridurre, al limite fino a eliminare, il problema della discrezionalità di fatto (una più larga depenalizzazione, l’ampliamento dei reati perseguibili a querela, l’allargamento dei casi di archiviazione, il ricorso ai riti alternativi, etc.). Come conseguenza, i criteri di priorità diventano una sorta di extrema ratio necessitata, finendosi spesso per concentrare la riflessione in particolare su chi li debba (o possa) porre, e quale sia il fondamento giuridico di tale attribuzione, oltre che sull’atto allo scopo necessario, con le relative conseguenze[14].

Da qui l’attenzione riservata a enucleare le possibili ipotesi dei soggetti cui affidare il compito di porre tali criteri: il Parlamento (soluzione da taluni individuata come la meno problematica), il Governo e in particolare il Ministro della giustizia, il Consiglio superiore della magistratura, i procuratori generali della Repubblica, i capi degli uffici di procura. E, a seguire, l’attenzione allo strumento da utilizzare: atti normativi (variamente collocati), risoluzioni parlamentari, circolari (di diversa provenienza), istruzioni, etc., anche basandosi su alcuni precedenti che non sono mancati negli anni (la cd. “circolare Zagrebelsky” del 1990; lo smaltimento dei processi previsto dall’art. 227 d.lgs n. 51/1998; l’art. 132-bis disp. att. cpp, relativo alla formazione dei ruoli di udienza e alla priorità nella trattazione dei processi; etc.)[15].

Questa riflessione appare importante, perché consente di apprezzare gli effetti sulla problematica che ci occupa al variare della prospettiva del soggetto e dello strumento con cui i criteri potrebbero essere posti. Appare evidente, infatti, che la situazione presenta elementi di diversità significativi a seconda che il soggetto sia interno o esterno rispetto all’ordinamento giudiziario, così come in relazione alla legittimazione di cui sia dotato, oltre che ai legami propri con l’ufficio di procura (capo dell’ufficio, procuratore generale della Repubblica, Csm titolare dei poteri di amministrazione della giurisdizione, Ministro dotato del potere di vigilanza, e così via)[16].

Si tratta, però, di una prospettiva che rischia di risultare parziale e incompleta. Un’adeguata considerazione meriterebbero, infatti, oltre al soggetto e alla fonte, i profili legati al contesto e alle finalità con cui i criteri di priorità vengano posti. Ben diverso è che sia valorizzato il momento organizzativo dell’ufficio o quello strumentale delle risorse, quello verticale tra i diversi uffici del pm, quello disciplinare o altro ancora. Così come cambia la prospettiva alla luce della procedimentalizzazione che venga, o meno, prevista e in ragione degli eventuali raccordi con soggetti esterni all’ordinamento giudiziario. Tutto ciò si connette al fondamento costituzionale dell’intervento e ai principi che potrebbero esserne, più o meno direttamente, coinvolti (la problematica non richiama, infatti, com’è stato osservato, il solo art. 112 Cost., ma vengono in rilievo una serie di altri principi, dall’eguaglianza al diritto di difesa, fino ad arrivare al buon funzionamento degli uffici e alla politica di utilizzo delle risorse umane e finanziarie). In questo senso, non andrebbero trascurati i tre elementi di fondo che dal principio ha tratto la giurisprudenza della Corte costituzionale, sopra ricordata: esclusione della discrezionalità nel promovimento dell’azione penale, elemento di garanzia dell’indipendenza del pm nell’esercizio della propria funzione ed elemento di garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. È questo nucleo – nella contemporanea presenza e nella compenetrazione dei profili che lo compongono – che dovrebbe essere tenuto presente nel momento in cui si vada a esaminare l’una o l’altra soluzione; così come è rispetto a questo nucleo che si dovrà, semmai, effettuare un’opera di bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.

In tale prospettiva, è naturale che le varie soluzioni si differenzino e possano risultare più o meno rispettose dell’indipendenza del pm o dell’eguaglianza dei cittadini, o in grado di aggredire in misura maggiore o minore l’area della discrezionalità di fatto nella selezione delle notizie di reato rispetto alle quali procedere e dei relativi tempi[17].

 

4. La recente riemersione dei criteri di priorità nel quadro di crisi del governo autonomo della magistratura e nell’ottica dell’efficienza della giustizia

Come altri aspetti dell’ordinamento giudiziario, anche il ruolo del pm e la questione dell’azione penale non possono, poi, essere esaminati in astratto, poiché essi si collegano e dipendono dall’assetto complessivo del sistema, di cui è parte fondante la scelta originaria nel senso dell’autonomia e indipendenza della magistratura, attraverso il governo autonomo di essa. Tema che, come noto, ha evidenziato marcate criticità, in particolare negli anni a noi più vicini. L’evoluzione del modello di ordinamento giudiziario del nostro Paese, incentrata sul Csm, in epoca recente ha mostrato profili non poco problematici, a partire dal tema del cd. correntismo, fino a coinvolgere le modalità di elezione, la composizione e l’organizzazione del Consiglio superiore, ormai al centro, da oltre due anni, più ancora che in passato, di vari progetti e insistite iniziative di riforma[18].

Altro elemento che sembra poter incidere in misura rilevante, nel conteso presente, sul tema che ci occupa è la pressante esigenza di efficienza del sistema, che trova ora un punto di ricaduta nel «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza» (PNRR), il quale dedica una parte di rilievo al tema della riforma della giustizia[19].

Non è un caso, allora, che sia stata recentemente approvata in Parlamento la legge per l’efficienza del processo penale (legge n. 134/2021), che delega il Governo ad adottare, nel termine di un anno dalla sua data di entrata in vigore, uno o più decreti legislativi per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale[20].

L’art. 1, comma 9, in particolare, per quanto qui maggiormente interessa, prevede che nell’esercizio della delega, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di indagini preliminari e di udienza preliminare e alle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, siano adottati nel rispetto di una serie di principi e criteri direttivi. Tra essi, sono diversi quelli che hanno rilievo sul principio che ci occupa, si pensi alla lett. a: «modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna», o alla lett. e: «prevedere che, decorsi i termini di durata delle indagini, il pubblico ministero sia tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro un termine fissato in misura diversa, in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari»; ma quello assolutamente centrale e per tanti versi innovativo è costituito dalla lett. i. Qui infatti si stabilisce che, nell’esercizio della delega, i decreti dovranno «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti».

Per la prima volta l’intervento legislativo aggredisce in maniera così diretta il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, imponendo fin da ora alcune riflessioni, in attesa del decreto legislativo di attuazione.

 

5. Prime osservazioni sulla legge n. 134/2021 in riferimento all’individuazione dei criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale

Già in passato alcuni interventi normativi di rango primario avevano affrontato il tema dei criteri di priorità, ma con un’ottica differente.

Il d.lgs n. 51/1998, istitutivo del giudice unico di primo grado, aveva previsto che, «al fine di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti alla data di efficacia del decreto, nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento, si [tenesse] conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa», con conseguente obbligo per gli uffici di comunicare «tempestivamente al Csm i criteri di priorità ai quali si atterranno per la trattazione dei procedimenti e per la fissazione delle udienze». L’art. 132-bis disp. att. cpp, introdotto da parte del dl n. 341/2000, convertito in legge n. 4/2001 (e a seguire ulteriormente modificato), stabiliva a sua volta che, nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, si assegnasse priorità assoluta a particolari procedimenti. Il tema era poi stato in qualche modo lambito, sia pure implicitamente, con le riforme del 2005-2007, sopra ricordate, a partire dai poteri organizzativi attribuiti ai vertici degli uffici di procura.

Su queste previsioni si sono inseriti diversi interventi del Consiglio superiore, anche al fine di garantire i principi di buona amministrazione e l’affermata esigenza di uniformità dell’azione penale[21]. Le indicazioni del Consiglio, in particolare, hanno finalizzato i poteri organizzativi del procuratore della Repubblica al conseguimento degli obiettivi della ragionevole durata del processo, anche nella fase investigativa, e al corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale, nel rispetto delle norme sul giusto processo e sull’indipendenza dei magistrati dell’ufficio, ispirandosi a principi di partecipazione e leale collaborazione. Con specifico riferimento ai criteri di priorità, si stabilisce che il procuratore «indica i criteri prescelti al fine dell’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili», curando costantemente l’interlocuzione con il presidente del tribunale e con gli uffici giudicanti.

In questo quadro, l’approvazione della l. n. 134/2021 segna una indubbia svolta, poiché per la prima volta il legislatore positivizza, a livello di fonte primaria, l’esigenza di individuare criteri di priorità per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale e colloca il Parlamento nel relativo circuito[22].

Una prima osservazione che sembra di poter fare, al riguardo, attiene alla circostanza che una simile innovazione avrebbe forse potuto (e dovuto) trovare spazio nel titolo del provvedimento che la contiene. È pur vero che siamo già di fronte a un titolo piuttosto articolato («Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari») e a un contenuto vario e complesso, ma l’art. 1, comma 9, lett. i, sembra introdurre, a tutti gli effetti, la prima disciplina (attuativa?) del disposto costituzionale dell’art. 112 e forse avrebbe “meritato” un richiamo fin dall’inquadramento del provvedimento.

Quanto alla scelta definitivamente operata, a seguito di un ripensamento rispetto all’impianto originario della proposta[23], essa stabilisce, come detto, che l’attuazione governativa dovrà «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti». In sostanza, volendo semplificare, si delinea un procedimento a tre stadi:

- nel primo interviene il Parlamento con legge, indicando “criteri generali”;

- nel secondo gli uffici del pubblico ministero, i quali, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individueranno «criteri di priorità trasparenti e predeterminati», da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili;

- nel terzo, infine, il Csm, dovendosi allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti.

I primi commenti hanno evidenziato i non pochi nodi problematici che il legislatore delegato dovrà o potrà, magari, almeno in parte, provare a sciogliere:

- in che cosa consistano i «criteri generali» che il Parlamento indicherà con legge, se di natura prevalentemente sostanziale o procedurale[24];

- come sia da intendere una previsione che contiene non una semplice riserva di legge ma una riserva di legge del Parlamento e se essa sia compatibile, per esempio, con l’esercizio di una delega o in occasione della conversione di un decreto-legge governativo (profili, peraltro, che forse solo la prassi potrà riuscire a chiarire); a chi sia possibile l’iniziativa o se essa sia in qualche modo riservata[25];

- in che cosa consistano i criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, che gli uffici del pubblico ministero dovranno individuare per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili;

- come si possa garantire l’uniformità a fronte dell’abbandono dell’obbligatorietà; come evitare i rischi, da più parti paventati, che l’operazione si trasformi in un elenco di reati aprioristicamente destinati a venir di fatto depenalizzati, con una sostanziale rinuncia alla pretesa punitiva da parte di quello stesso Stato che, per altro verso, continua a manifestare una non sopita tendenza a penalizzare nuove fattispecie;

- quale ruolo finirà per svolgere il Csm, stante il richiesto allineamento della procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti. Quanto penetrante, in particolare, potrà o dovrà essere il suo controllo (tema ancor più sensibile alla luce del quadro complessivo di percezione del governo autonomo della magistratura prodotto dalle vicende degli anni a noi più vicini).

Accanto ai nodi problematici, i primi commenti già consentono all’osservatore di misurare i differenti giudizi sulla riforma, anche all’interno della stessa magistratura[26].

 

6. Cosa rimane della formulazione dell’art. 112 Cost.?

In chiusura di queste brevi osservazioni, in una prospettiva più strettamente costituzionalistica, sembra affacciarsi un dubbio, concernente la portata dell’obbligatorietà quale sancita dall’art. 112 Cost. e il connesso rischio, se non di uno svuotamento, certo di una modificazione profonda del suo significato.

La Carta costituzionale contiene, come noto, vari richiami al concetto di obbligo, nessuno dei quali pare formulato con la medesima perentorietà della disposizione in esame[27].

Si tratta, infatti, in questo caso, di un preciso obbligo di fare, formulato in positivo, posto in capo a un soggetto ben determinato, obbligo non condizionato ad alcunché e per il quale non viene fatto rinvio, almeno espressamente, a una successiva forma di attuazione o concretizzazione. Si tratta, oltre tutto, dell’articolo più breve dell’intero testo costituzionale, la cui asciuttezza pare sintomatica, sul piano linguistico, della particolare rigorosità e fermezza del precetto.

Se così è, sembra difficile negare che l’intervento legislativo in parola porterà a trasformarne, di fatto, il contenuto normativo. Non più «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale», ma, potremmo dire, «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge»[28]. Con il che, pare abbastanza scontato, la questione potrebbe rapidamente condurre a un giudizio di legittimità innanzi alla Corte costituzionale. 

 

 

*  Pubblicato in anteprima su questa Rivista online il 5 gennaio 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/se-l-esercizio-dell-azione-penale), il presente testo rappresenta una prima rielaborazione della relazione svolta al Seminario dal titolo «Ricordando Alessandro Pizzorusso. Rileggendo “L’ordinamento giudiziario”», tenutosi a Pisa il 15 dicembre 2021; la versione finale è destinata al volume che raccoglierà i relativi scritti.

1. Una accurata disamina sull’obbligatorietà dell’azione penale, corredata di ampi cenni storici, si può leggere in F. Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR, in questa Rivista online, 13 ottobre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligatorieta-dell-azione-penale-efficiente-ai-tempi-del-pnrr, ora in questo fascicolo; in generale, al tema «Pubblico ministero e Stato di diritto in Europa» è dedicato per intero il fascicolo n. 2/2021 di Questione giustizia: in esso si segnalano, in particolare, sul rapporto tra discrezionalità ed esercizio dell’azione penale, i contributi di N. Rossi, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero e di F. Palazzo, Sul pubblico ministero: riformare sì, ma con giudizio, rispettivamente pp. 16 ss. e 59 ss. (www.questionegiustizia.it/data/rivista/pdf/42/2021-2_qg_pubblico-ministero-e-stato-di-diritto-in-europa.pdf).

2. Il testo a base della discussione proseguiva prevedendo che «Le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti. Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati». Per la ricostruzione del dibattito in Assemblea costituente, vds. G. D’Elia, Commento all’art. 112, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. III, UTET Giuridica, Milano, 2006, pp. 2126 ss.

3. Per alcune considerazioni sul punto, sia consentito rinviare a S. Panizza, Fondamento e attualità del principio di obbligatorietà per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale, in A. Pace - S. Bartole - R. Romboli (a cura di), Problemi attuali della giustizia in Italia. Atti del Seminario di studio tenuto a Roma l’8 giugno 2009, Jovene, Napoli, 2010, pp. 147 ss.

4. Vds., per tutti, A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, Torino, 1982 (ora raccolto in Id., L’ordinamento giudiziario, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, insieme a vari altri scritti dell’A. sull’ordinamento giudiziario); la natura del pm quale “nodo irrisolto” degli studi sull’ordinamento giudiziario viene sottolineata, tra gli altri, da N. Zanon e F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2008 (II ed.), p. 137; vds. altresì R. Romboli, Il pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale e l’esercizio dell’azione penale, in S. Panizza - A. Pizzorusso - R. Romboli (a cura di), Ordinamento giudiziario e forense. Volume I: Antologia di scritti, Plus, Pisa, 2002, p. 307, il quale individua gli aspetti di livello costituzionale più discussi attinenti alla figura del pm nella sua natura e indipendenza esterna, nell’obbligatorietà dell’azione penale e nell’indipendenza interna; per un efficace inquadramento di sintesi sull’organizzazione della magistratura, cfr. S. Bartole, Il potere giudiziario, Il Mulino, Bologna, 2008, spec. pp. 53 ss.

5. Tra essi, esaminando la giurisprudenza anche più risalente, quello per cui non è escluso che l’ordinamento possa stabilire che determinate condizioni concorrano perché l’azione possa essere promossa o proseguita. Circa la titolarità, quella per cui non si stabilisce, in astratto, che il promovimento dell’azione spetti esclusivamente al pm. Quanto alla valenza della regola generale, quella secondo cui i casi di deroga possono esser stabiliti solo da norme costituzionali, operando cioè un bilanciamento tra principi costituzionali (il 112 da un lato, quelli eventualmente in grado di delimitarne la sfera di operatività sulla base di interessi almeno altrettanto meritevoli di salvaguardia costituzionale, dall’altro). La conseguente inaccettabilità di un blocco delle attività processuali per lungo tempo, il quale, come tale, finirebbe per violare irrimediabilmente il principio costituzionale. Ancora, la circostanza che l’osservanza del potere-dovere del pm non sia esente da controlli e possa anche, se del caso, essere garantita da sanzioni.

6. Per un esame complessivo della figura del pubblico ministero, con particolare attenzione rivolta anche ai nessi interni all’ufficio determinati dall’art. 70 rd n. 12/1941 e dall’art. 53 cpp, vds. C. Morselli, voce Pubblico ministero, in Digesto discipline penalistiche, X, 1995, p. 476, cui si rinvia anche per indicazioni relative al “profluvio bibliografico” riguardante l’assetto della magistratura requirente.

7. Sulle origini e il rilievo del sistema tabellare, vds., volendo, S. Panizza, Sistema tabellare e ordinamento giudiziario, in Nomos, n. 2-3/1992, p. 55; per una ricostruzione aggiornata, vds. C.M. Galoppi, Il Csm e l’organizzazione degli uffici giudiziari, in Aa. Vv., Il governo autonomo della magistratura a sessant’anni dalla legge istitutiva del Consiglio superiore della magistratura (l. 24 marzo 1958 n. 195), in Foro it., 2019, V, cc. 1 ss., part. cc. 77 ss.

8. Per un commento complessivo del primo intervento e delle successive modifiche vds. Aa. Vv., La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Foro it., 2006, V, cc. 1 ss.; Aa. Vv., La «riforma della riforma» dell’ordinamento giudiziario, in Foro it., 2008, V, cc. 87 ss.; nonché i vari interventi raccolti nel fascicolo n. 4/2006 di Legislazione penale, pp. 675 ss.

9. Vds. sul punto, in particolare, M. Luciani, Il rinvio presidenziale, in Foro it., 2006, V, c. 6.

10. Si tratta di aspetti che rivestono un significato di rilievo anche nel contesto attuale. Al di là, infatti, delle previsioni legislative che li hanno in quel caso originati, i rilievi presidenziali attingono il proprio fondamento dalla precisa valenza di garanzia ricavabile dal precetto costituzionale.

11. Si veda, tra gli altri, G. D’Elia, Commento, op. cit., pp. 2127-2128, il quale, premesso il significato di garanzia (anche) dell’eguaglianza della disposizione in commento, osserva che «il carico di lavoro e le strutture insufficienti o, comunque, inadeguate impongono al Pubblico Ministero di selezionare, secondo criteri inevitabilmente personali e, dunque, arbitrari, le notitiae criminis da trattare e quelle da relegare nel limbo della prescrizione ovvero dell’archiviazione per pseudo-infondatezza della notizia di reato».

12. Per questa impostazione, vds. N. Zanon e F. Biondi, Il sistema, op. cit., p. 151; già A. Pizzorusso, Riflessioni sul ruolo del pubblico ministero, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/1982, pp. 513 ss., constatava invero l’impossibilità di dare all’obbligatorietà un contenuto sempre concreto, similmente a quanto si verifica in ambito parlamentare circa l’obbligo delle Camere di prendere in esame tutti i progetti di legge ad esse presentati.

13. Per disamine sul punto, corredate di ampi riferimenti bibliografici, normativi e giurisprudenziali, vds. D. Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, pp. 251 ss.; S. Catalano, Rimedi peggiori dei mali: sui criteri di priorità nell’azione penale, in Quad. cost., n. 1/2008, pp. 65 ss.

14. Per una visione comparatistica del tema, anche nei suoi aspetti di principio, che riscontra dinamiche di convergenza degli ordinamenti continentali in materia di azione penale, con i sistemi ad azione discrezionale orientati verso un maggior controllo delle scelte del pubblico ministero e le aperture alla discrezionalità degli ordinamenti che accolgono il principio di obbligatorietà, vds. L. Luparia, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale nel quadro comparativo europeo, in Giur. it., 2002, pp. 1751 ss., il quale individua nel dibattito sull’introduzione dei criteri di priorità nella trattazione delle notitiae criminis in Italia un varco verso ipotesi di discrezionalità controllata; per il rilievo al fenomeno della discrezionalità di fatto come conseguenza della diffusa disapplicazione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, vds. R. Romboli, Il pubblico ministero, op. cit., p. 313, il quale non manca di osservare che si tratta «essenzialmente di un problema del legislatore ordinario», il quale dovrà intervenire per garantire il rispetto del principio o comunque ridurre il divario con l’attuazione pratica.

15. Per maggiori dettagli, vds. ancora D. Vicoli, Scelte del pubblico ministero, op. cit., pp. 258 ss.; S. Catalano, Rimedi peggiori dei mali, op. cit., pp. 67 ss.; una disamina degli interventi normativi che in qualche modo hanno delineato criteri di priorità in ambito penale (per la definizione dei processi pendenti o per la formazione dei ruoli di udienza) è ora contenuta nel dossier del 31 luglio 2021, predisposto dalle Camere del Parlamento in occasione della riforma del processo penale (AC 2435-A), di cui oltre nel testo, al quale si rinvia per una più completa ricostruzione sul punto.

16. Dopo aver osservato che «in linea di principio, i criteri che possono presiedere all’esercizio dell’azione penale sono fondamentalmente di tre ordini: criteri sostanziali, interni alle finalità della repressione penale; criteri processuali, interni alle finalità del processo; criteri esterni alle finalità sia sostanziali che processuali, di varia opportunità», segnala F. Palazzo, Sul pubblico ministero, op. cit., p. 62, che i criteri esterni possono essere articolati variamente almeno in relazione a due profili: il contenuto e gli organi competenti a formalizzarli, dove la grande alternativa è tra organi politici e organi interni all’ordine giudiziario.

17. Attribuire il potere al Governo lascia intravedere, per fare un esempio, il rischio di un maggior tasso di compromissione dell’obbligatorietà, dell’indipendenza dei magistrati e dell’eguaglianza dei cittadini di quel che sarebbe nell’ipotesi di investire i vertici degli uffici (ciò che pure potrebbe porre a rischio l’eguaglianza e non assicurerebbe forse a pieno l’indipendenza) o il Parlamento (anche a chi sostiene che l’intervento della legge farebbe salva l’indipendenza e l’eguaglianza non potrebbe sfuggire che, per tale via, si finirebbe per modificare il significato stesso del principio costituzionale consacrato nella formula dell’art. 112; sul punto si tornerà oltre, nel testo).

18. Per una disamina, a partire dal cd. “ddl Bonafede”, vds. M. Volpi, Il Consiglio Superiore della Magistratura: snodi problematici e prospettive di riforma, relazione tenuta al seminario annuale del Gruppo di Pisa del 23 ottobre 2020 (www.gruppodipisa.it/images/rivista/pdf/Mauro_Volpi_-_Il_Consiglio_superiore_della_magistratura_snodi_problematici_e_prospettive_di_riforma.pdf); un quadro delle reazioni alla crisi che ha investito il Consiglio si ricava, ad esempio, dalla lettura del fascicolo n. 3/2019 di Questione giustizia (obiettivo: Magistrati oltre la crisi?); vds. anche N. Rossi, Questione morale o questione democratica?, in questa Rivista online, 26 gennaio 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/questione-morale-o-questione-democratica, il quale osserva, con preoccupazione, che «ciò che il presente ci mostra di più e di diverso rispetto alla storia recente della magistratura è la penetrazione della crisi nel cuore dei meccanismi della democrazia associativa e della democrazia consiliare, cioè nelle strutture sociali ed istituzionali che dovrebbero costituire i naturali antidoti all’affermarsi di prassi deteriori nel governo della magistratura»; tutto questo fa apparire quanto mai lontano il fascicolo n. 4/2017 della Rivista, il cui titolo era: L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm. Ai meccanismi di elezione dei componenti del Csm e al ruolo dell’associazionismo tra i magistrati sono rispettivamente dedicati i contributi di M. Cicala, Rappresentanza, istituzioni e sistemi elettorali (la problematica relativa al Csm), e di E. Bruti Liberati, Le correnti e il Csm, in Aa. Vv., Il governo autonomo, op. cit., pp. 122 ss. e 129 ss.; per un inquadramento degli aspetti salienti delle varie proposte di riforma, vds. F. Dal Canto, Note minime sul disegno di legge Bonafede di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Osservatorio costituzionale AIC, n. 1/2021, pp. 164 ss., cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni bibliografiche.

19. Nel capitolo sulla riforma della giustizia si legge, in apertura, che «[i]l sistema della giustizia italiana, caratterizzato da solide garanzie di autonomia e di indipendenza e da un alto profilo di professionalità dei magistrati, soffre di un fondamentale problema: i tempi della celebrazione dei processi. La durata dei processi incide negativamente sulla percezione della qualità della giustizia resa nelle aule giudiziarie e ne offusca indebitamente il valore, secondo la nota massima per cui “giustizia ritardata è giustizia denegata”. I problemi legati al fattore “tempo” sono al centro dell’attenzione nel dibattito interno e sono stati ripetutamente rimarcati nelle competenti sedi europee»; sull’efficienza come parola chiave che accomuna le due riforme Cartabia, quella civile e quella penale, vds. G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della “legge Cartabia”, in Sistema penale, 15 ottobre 2021, il quale ricorda che, nella storia della Corte di Strasburgo, l’Italia vanta «l’imbarazzante primato internazionale di primo Paese per numero di condanne per violazione dell’art. 6 Cedu relativamente alla durata dei processi»: oltre 1200, il doppio del Paese – la Turchia – che si colloca al secondo posto. Per un riscontro, a partire dal monitoraggio della giustizia penale relativo agli anni 2003-2021, incentrato in particolare sul numero di procedimenti pendenti, si possono vedere i dati sul sito del Ministero della giustizia (www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_9_13.page). Al tema «La riforma della giustizia civile secondo la legge delega 26 novembre 2021, n. 206» è dedicato per intero il fascicolo n. 3/2021 di Questione giustizia.

20. Per un commento complessivo, in due parti, vds. G. De Marzo, La legge delega disegnata dalla riforma Cartabia con riguardo al processo penale, in Foro it., 2021, V, cc. 257 ss. e 293 ss.

21. Una ricostruzione analitica della storia del dibattito sui criteri di priorità e del succedersi di provvedimenti legislativi, consiliari e di procuratori della Repubblica è ora contenuta in A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la Legge 27 settembre 2021, n. 134 – pubblicato in anteprima su Questione giustizia online il 20 dicembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-selezione-delle-priorita) –, in questo fascicolo, il quale, rispetto alla scelta legislativa sul punto consacrata nella legge delega, osserva che la prima parte della previsione «non è in alcun modo condivisibile: la selezione delle priorità di intervento dei pubblici ministeri, anche solo nell’ambito di linee guida generali e non di un cogente catalogo di reati, non può essere materia di competenza del Parlamento (e, conseguentemente, delle maggioranze esistenti) perché ciò aprirebbe la strada a seri pericoli per l’autonomia della magistratura e dei pubblici ministeri in particolare, e finirebbe con il determinare seri rischi per il già illustrato principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale».

22. Osserva F. Di Vizio, L’obbligatorietà, op. cit., pp. 4 ss., che la positivizzazione dei criteri di priorità dell’azione penale progettata dalla legge delega Cartabia offre «una delle prospettive di azione più nuove e problematiche dell’intera riforma»; a giudizio dell’A., nel tempo è mutato il concetto di esercizio dell’azione penale e l’obbligatorietà si delinea ormai come regola della legalità, per cui «l’esercizio del potere di azione costituisce dovere in presenza di presupposti e modalità disciplinate dalla legge ordinaria, rifuggendo criteri di opportunità enucleati surrettiziamente»: se ciò ha creato le condizioni di prime esperienze di bilanciamento di interessi costituzionali in rapporto con quello di obbligatorietà, governate sulla base di norme che disciplinano i poteri discrezionali del pm e del giudice, con “i criteri esterni di opportunità” (con le problematiche articolazioni di contenuto e degli organi competenti a “formalizzarli”) viene realmente messa in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale».

23. Evidenzia, in particolare, questo aspetto N. Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure, in questo fascicolo – cfr. Id., I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene «il Parlamento con legge», in Questione giustizia online, 8 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-criteri-di-esercizio-dell-azione-penale-interviene-il-parlamento-con-legge) –, il quale sottolinea, mediante una puntuale sinossi, l’evoluzione della previsione relativa ai criteri di priorità contenuti nell’originaria proposta Bonafede, poi nell’articolato normativo della Commissione Lattanzi e infine nella legge delega approvata dal Parlamento, cogliendo le diversità tra i testi e valutando il punto di approdo finale raggiunto: in sintesi, dal modello autoreferenziale (la definizione dei criteri di priorità nell’ambito esclusivo del potere giudiziario) a quello di criteri di priorità dinamici (ad opera degli uffici giudiziari nell’ambito dei criteri generali determinati periodicamente dal Parlamento), a quello di una stabile cornice dettata dal Parlamento con legge per regolare l’iniziativa delle procure.

24. Come si ricorderà, l’espressione «criteri generali» era stata, ad esempio, a suo tempo utilizzata dal legislatore nell’art. 7-ter dell’ordinamento giudiziario a indicare l’attribuzione del Csm nell’ottica dell’organizzazione degli uffici del pm («Il Consiglio superiore della magistratura determina i criteri generali per l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e per l’eventuale ripartizione di essi in gruppi di lavoro» - corsivo aggiunto).

25. Osserva al riguardo N. Rossi, I criteri, op. cit., che la soluzione naturale e fisiologica è quella del Ministro della giustizia, anche nella sua veste di presentatore al Parlamento della relazione annuale sull’amministrazione della giustizia.

26. N. Rossi, op. ult. cit., ad esempio, individua l’obiettivo da raggiungere nel «promuovere la transizione – culturale e istituzionale insieme – da una obbligatorietà dell’azione penale postulata in astratto, ma di fatto scarsamente controllabile e deresponsabilizzata, a una obbligatorietà temperata e realistica e, proprio per questo, esercitabile secondo canoni di trasparenza e corredata da assunzione di responsabilità sociale e istituzionale per le scelte compiute», sulla scia del processo di avvicinamento ormai da tempo in atto tra i due modelli, in teoria antitetici, dell’obbligatorietà e della discrezionalità dell’azione penale. Per A. Spataro, La selezione, op. cit., «la formulazione della norma qui in discussione rischia di determinare equivoci e problemi non secondari», per cui è «d’obbligo attendere con fiducia che il Governo predisponga il testo delegatogli che – si augura chi scrive – potrebbe limitarsi a trasferire sul piano legislativo, se non le si ritenesse già vincolanti, alcune delle previsioni già contenute nelle citate delibere consiliari». Secondo F. Di Vizio, L’obbligatorietà, op. cit., «gli effetti istituzionali e ordinamentali del varo di questo programma di politica criminale (…) sono tutti da verificare; di certo, come insegna l’esperienza storica, non andrà trascurato che ove si introduce la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale l’opportunità si affaccia quale ospite indiscreto» e «può legittimamente dubitarsi che la Politica resterà davvero alla finestra e non riferirà agli attuatori la responsabilità degli insuccessi nella politica criminale».

27. Art. 16, comma 2: «Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge»; art. 32, comma 2: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»; art. 33, comma 4: «La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali»; art. 34, comma 2: «L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita»; art. 35, comma 4: «Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero»; art. 39, commi 2 e 4: «Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»; art. 44, comma 1: «Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà»; art. 52, comma 2: «Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici»; art. 64, comma 4: «I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono»; art. 68, comma 2: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza»; art. 94, comma 4: «Il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni»; art. 112: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»; art. 117, comma 1: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»; XI disp. trans. e fin.: «Fino a cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si possono, con leggi costituzionali, formare altre Regioni, a modificazione dell’elenco di cui all’art. 131, anche senza il concorso delle condizioni richieste dal primo comma dell’articolo 132, fermo rimanendo tuttavia l’obbligo di sentire le popolazioni interessate».

28. Una formula non distante da quella in altre occasioni utilizzata dal Costituente – si pensi all’art. 52 («Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge») –; si ricorderà incidentalmente come, sulla base di essa, il legislatore abbia con il tempo previsto la sospensione del servizio obbligatorio di leva.