Il rito semplificato di cognizione: un’occasione mancata
Il rito semplificato di cognizione, nel testo del ddl delega approvato dal Senato, non è in grado di incidere in alcun modo sui tempi di durata dei giudizi civili né attribuisce al giudice un efficace strumento di direzione del processo. Esso, pertanto, ha la sola funzione di abrogare il rito sommario di cognizione e di sostituirlo in quei procedimenti in cui a tale rito è fatto richiamo dal d.lgs n. 150/2011. La struttura del processo ordinario di cognizione, quale risulta a seguito dell’introduzione del rito semplificato, fornisce lo spunto per ipotizzare una riconsiderazione dell’attuale disciplina del contributo unificato.
1. Il governo del processo da parte del giudice: l’occasione mancata del rito semplificato di cognizione / 2. Il rito semplificato di cognizione nella sistematica del codice di procedura civile / 3. I presupposti per l’applicazione del rito semplificato / 4. La disciplina del rito semplificato di cognizione / 5. Il rito semplificato di cognizione come spunto per una (forse necessaria) riconsiderazione della disciplina del contributo unificato
1. Il governo del processo da parte del giudice: l’occasione mancata del rito semplificato di cognizione
Il rito semplificato di cognizione debutta sulla scena, sempre animata, delle riforme del processo civile[1] con gli emendamenti governativi al ddl n. 1662/S/XVIII presentati sulla base della proposta formulata dalla commissione ministeriale presieduta da Francesco Paolo Luiso. Un istituto che non era certo dotato di capacità taumaturgiche quanto alla definizione dell’arretrato e alla riduzione dei tempi dei giudizi civili, ma che aveva destato interesse in chi – come chi scrive – crede fermamente che il governo del processo spetti al giudice e che, conseguentemente, il nostro sistema processuale debba prevedere degli strumenti per consentirgli di adattare il rito a un determinato giudizio.
Il testo predisposto dalla Commissione Luiso prevedeva una fase di trattazione scritta della causa successiva all’udienza di comparizione delle parti e soltanto eventuale. Il giudice poteva incidere sul rito ordinario di cognizione o mediante una riduzione dei termini per la trattazione scritta o elidendo del tutto tale fase qualora non ve ne fosse stata in concreto alcuna esigenza[2]. Ciò consentiva al giudice di ridurre di fatto i tempi del processo, fermo restando che, come ormai tutti concordano, senza intervenire sull’organizzazione giudiziaria – la grande esclusa anche di questa riforma[3] – e sui carichi di lavoro mediante una diversa e più razionale distribuzione delle risorse umane[4], nessuna riforma processuale potrà mai realizzare l’obiettivo, comune a tutte quelle che si sono avvicendate nell’ultimo ventennio, di riduzione dei tempi dei processi civili incidendo sul cd. “collo di bottiglia”.
Il testo della «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata» approvata dal Senato, a seguito di presentazione di ulteriore e nuovo emendamento da parte del Governo, ha però mutato drasticamente la struttura del processo ordinario di cognizione del prossimo futuro, anche rispetto a quanto ipotizzato dalla Commissione Luiso. La lett. g del comma 5 dell’art. 1 ddl n. 1662-331/S/XVIII, infatti, anticipa la fase di trattazione a un momento precedente rispetto alla prima udienza di comparizione delle parti innanzi al giudice[5], segnando così un ritorno a un modello sperimentato, in verità senza particolare successo, con il cd. rito societario[6] e abbandonato dopo circa un lustro di vigenza senza alcun rimpianto[7]. Seppure con una differenza niente affatto secondaria rispetto alla declinazione da parte del d.lgs 17 gennaio 2003, n. 5 delle proposte della commissione ministeriale presieduta da Romano Vaccarella[8]: i termini sono previsti dal legislatore, senza che una parte possa quindi incidere sulle difese della controparte.
Un disegno del processo civile quello tratteggiato dal ddl delega approvato dal Senato che, inoltre, vanifica la funzione stessa della previsione di una forma semplificata di cognizione, che sarebbe stato allora più logico eliminare. La previsione originaria del rito semplificato di cognizione aveva un senso perché il giudice, disponendo alla prima udienza di trattazione che il processo fosse regolato secondo tale modello processuale, poteva incidere su alcune scansioni processuali a cui, comprensibilmente, le parti assai di rado rinunciano[9] e che, tuttavia, possono risultare ultronee in alcune cause non così infrequenti nella prassi giudiziaria. Un tale potere di direzione[10] da parte del giudice, allora, avrebbe potuto effettivamente sortire un qualche effetto, in termini di riduzione dei tempi del processo civile, purché coniugata con un’organizzazione del lavoro giudiziario che consentisse una celebrazione in qualche modo sequenziale quantomeno di questi giudizi “semplici”, e potesse in qualche modo incidere sul “collo di bottiglia” della decisione[11].
Il testo della delega approvato dal Senato, nel momento stesso in cui anticipa la fase di trattazione a un momento anteriore a quello del contatto tra le parti e il giudice, vanifica questa possibilità e svuota di ogni significato la previsione dell’art. 1, comma 5, lett. n, pure non incisa dagli emendamenti. Il rito semplificato finisce con il coincidere, infatti, con un giudizio ordinario di cognizione che risulti essere maturo per la decisione senza necessità di alcuna attività istruttoria.
L’impressione che si ricava dalla modifica “in corsa” del processo civile prossimo venturo è, tristemente, che la mano destra del legislatore non sa cosa faccia quella sinistra. In altri termini, sembra che il Governo avesse fatto proprio il testo predisposto dalla Commissione Luiso senza però averne pienamente compresa quantomeno la struttura, se non anche le implicazioni in termini di raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Conseguentemente, nel modificarne il disegno, il ddl delega approvato dal Senato ha dimenticato una previsione la cui funzione sembra essere, oggi, soltanto quella di determinare l’abrogazione del rito sommario di cognizione.
Inoltre, la percezione è che il legislatore non abbia ben chiaro dove, a voler tagliare i tempi del processo, si possa intervenire. È proprio la fase di trattazione scritta che – come insegna la pratica degli uffici giudiziari a chi davvero li frequenta – troppo spesso si risolve in una mera ripetizione di difese già compiutamente svolte, senza che però ad essa le parti quasi mai rinuncino nel timore, umano ancor prima che professionale, di precludersi la possibilità di aggiungere qualcosa alle proprie allegazioni o difese.
La previsione nel ddl delega di una forma semplificata di cognizione ordinaria non si accompagna, dunque, a previsioni coerenti e volte a determinare un’effettiva incidenza dell’applicazione di essa sul processo, liberandolo da adempimenti non necessari in concreto (vale a dire, in quella determinata causa) ai fini della decisione. Un testo legislativo, quello approvato dal Senato, che denuncia – a ben considerare – una concezione della funzione del giudice che ha dimostrato di non essere efficace qualora si prenda a riferimento la riduzione dei tempi del processo civile o, comunque, l’aderenza delle norme processuali a ogni singolo processo: quella del giudice come mero decisore, e non come colui a cui spetti anche l’effettiva direzione del processo. Così facendo, il ddl delega si discosta completamente dall’idea che emergeva dal testo elaborato dalla Commissione Luiso, sebbene neppure in quel testo fosse compiutamente realizzata, probabilmente anche per i ristretti tempi di elaborazione di una riforma così ampia.
2. Il rito semplificato di cognizione nella sistematica del codice di procedura civile
Se ci si dovesse basare sui nn. 1 e 2 della lettera n del comma 5 dell’art. 1 legge delega, si potrebbe affermare, errando, che il rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. cpc sia destinato a sopravvivere nel nostro ordinamento processuale civile, seppure migri dal libro IV al libro II e “assuma la denominazione” di rito semplificato di cognizione. In verità, sulla scorta di quanto previsto da tali disposizioni è inequivocabile l’avvenuta abrogazione del rito sommario di cognizione, come peraltro espressamente indicato nella Relazione tecnica agli emendamenti al ddl 1662/S/XVIII[12] e come è stato immediatamente colto nella divulgazione giornalistica delle principali novità della riforma[13].
Del resto, il n. 1 prevede che il rito semplificato è «sistematicamente collocato nel libro II del codice di procedura civile», denunciando così come non si sia più in presenza di un rito sommario di cognizione, ma – appunto – di un rito ordinario, che come tale non può che essere «sistematicamente collocato» nel libro II, e non più nel libro IV insieme agli altri procedimenti sommari.
La differenza tra il rito semplificato di cognizione e il rito sommario di cognizione, disciplinato dagli artt. 702-bis ss. cpc, non è dunque puramente nominalistica[14], ma assolutamente sostanziale. Non solo nel rito semplificato non è sommaria la cognizione, come in verità neanche lo è quella dell’attuale rito sommario[15], ma neanche vi è quella “sommarietà processuale” che caratterizza quest’ultimo. L’art. 702-ter, comma 5, cpc prevede, infatti, che «sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto». Nel caso del processo semplificato di cognizione, invece, viene previsto, al n. 4 della lett. n del comma 5 che esso «sia disciplinato mediante l’indicazione di termini e tempi prevedibili e ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni, nel rispetto del contraddittorio fra le parti».
In buona sostanza, il rito semplificato di cognizione, che dovrà essere introdotto nel nostro ordinamento processuale a seguito dell’esercizio della delega, non è altro che il rito ordinario disciplinato dal titolo II del codice, ma con termini a difesa ridotti.
L’ulteriore previsione da parte della delega di garantire “tempi prevedibili” costituisce, invece, solo una petizione di principio in mancanza di concreti strumenti per la realizzazione di tale obiettivo. Strumenti che – come si è già evidenziato – non possono essere solo in rito, e tanto meno possono consistere nella predisposizione del calendario del processo[16]. Senza considerare che la prevedibilità dei tempi della decisione (oltre che della decisione in sé) deve essere l’obiettivo non del processo, ma dell’organizzazione giudiziaria. Più in generale, la prassi rileva come il rito utilizzato sia del tutto neutro in relazione alla durata del processo, il quale differisce da tribunale a tribunale in ragione di altri fattori, non ultimo di quello “umano”[17].
La riforma del processo civile disegnata dal ddl delega intende ricondurre, opportunamente, la cognizione dichiarativa in materia civile ad un unico rito, compiendo quella semplificazione che non era stata realizzata dal d.lgs 2 settembre 2011, n. 150. La proposta formulata dalla Commissione Luiso prevedeva, però, un passo successivo e non meno significativo, vale a dire la possibilità di parametrare il rito ordinario di cognizione alle concrete esigenze di ciascun giudizio, introducendo una forma semplificata dello stesso. E, proprio in ragione di questo, la permanenza nel nostro ordinamento processuale del rito sommario di cognizione perdeva di senso anche da un punto di vista pratico, e non solo in un’ottica sistematica. Come si è detto sopra, questa funzione del rito semplificato di cognizione è però venuta meno a seguito della riscrittura del testo della delega. Anzi, l’attuale testo delle delega potrebbe comportare che, nel caso in cui il rito semplificato di cognizione vada a sostituire quello sommario nei procedimenti speciali disciplinati dal d.lgs n. 150/2011, si venga a determinare un appesantimento della fase di trattazione in tutta una serie di giudizi in cui ciò oggi non avviene e che, soprattutto, non è strutturalmente necessario.
Il n. 3 del comma 1 dell’art. 3 prevede la possibilità che «l’attore vi ricorra di sua iniziativa nelle cause di competenza del tribunale in composizione monocratica». Una disposizione che si pone nel solco di ambiguità dei primi due numeri della lett. n, mediante i quali si adombra un’inesistente continuità con il rito sommario di cui agli artt. 702-bis ss. cpc.
Dalla stessa disciplina si evince, peraltro, come la decisione di celebrare il processo nelle forme del rito semplificato di cognizione non possa essere rimessa a chi introduce il giudizio, come accade attualmente per il procedimento sommario, la cui disciplina fa comunque salva la possibilità per il giudice di disporre il mutamento del rito a seguito dell’instaurazione del contraddittorio e delle difese del resistente.
Come si è detto sopra, il cd. rito semplificato è una forma del rito ordinario di cognizione, caratterizzata da termini per svolgere le difese ridotti rispetto a quelli previsti per la forma ordinaria del processo di cognizione. Consentire all’attore di indicare, nell’introdurre il giudizio, che esso venga disciplinato dal rito semplificato di cognizione comporta non solo che possano risultarne compressi i termini per le difese del convenuto, ma anche che quest’ultimo venga assoggettato a termini di decadenza inferiori rispetto a quelli ordinari. Inoltre, quando viene introdotta la causa, non è possibile valutare la sussistenza dei presupposti previsti dal legislatore delegante per l’applicazione del rito semplificato di cognizione, presupposti che possono – e devono – essere vagliati dal giudice solo successivamente alla costituzione del convenuto (e di eventuali terzi chiamati) e allo svolgimento di tutte le difese di cui alla lett. f del comma 5 dell’art. 3.
L’unico soggetto a cui può e deve essere rimessa la valutazione se la causa si possa svolgere nella forma semplificata del rito ordinario, pertanto, è il giudice all’esito della costituzione delle parti e delle deduzioni svolte nel corso della prima udienza. E ciò in linea con quella che sembrava essere la funzione per cui era stato ipotizzato tale istituto processuale, vale a dire la possibilità per il giudice di ritenere non necessaria, in relazione a quel determinato giudizio, una fase di trattazione e di istruzione con l’ampiezza prevista per il rito ordinario.
La facoltà che sia l’attore a scegliere la forma semplificata al momento dell’introduzione del giudizio, pertanto, si pone in antitesi con l’obiettivo perseguito dal legislatore: la riduzione dei tempi del processo civile. A fronte di una successiva valutazione da parte del giudice di insussistenza dei presupporti per lo svolgimento del giudizio nella forma semplificata, il convenuto ed eventuali terzi chiamati in causa avrebbero senz’altro diritto a essere rimessi in termini per lo svolgimento delle proprie difese nei termini ordinari. Il processo dovrebbe così necessariamente regredire a una fase che, nella struttura pensata dalla delega, si dovrebbe collocare prima dell’udienza di comparizione delle parti e dovrebbe essere funzionale ai provvedimenti da assumere in quella sede.
3. I presupposti per l’applicazione del rito semplificato
Proprio perché si è in presenza di una forma semplificata del rito ordinario di cognizione, il ddl delega prevede che lo stesso possa essere utilizzato tanto nelle cause di competenza del tribunale in composizione monocratica quanto in quelle in cui il tribunale decide in composizione collegiale. Diversamente, dunque, da quanto accade per il rito sommario di cognizione, che è precluso nelle cause in cui la decisione spetta al collegio (art. 702-bis, comma 1, cpc); anche se poi il d.lgs n. 150/2011 ha previsto che lo stesso disciplini anche procedimenti speciali in cui la decisione spetta al tribunale in composizione collegiale. Una scelta opportuna quella del ddl delega, in quanto non sono pochi i giudizi in cui il tribunale decide in composizione collegiale, ma che, per loro natura, non necessitano di una trattazione e di un’istruttoria particolarmente complessa. Tanto che nella prassi è più frequente proprio in tale tipologia di contenzioso la rinuncia delle parti ai termini di cui all’art. 183, comma 6, cpc e la rimessione della decisione al collegio senza ulteriori difese già alla prima udienza.
Il testo dell’emendamento governativo prevede che l’applicazione del rito semplificato per scelta dell’attore possa avvenire solo nelle cause in cui il tribunale decide in composizione monocratica[18]. Alla luce di quanto appena detto, la previsione di tale facoltà solo nelle cause rimesse alla decisione in composizione monocratica, escludendola per quelle in cui il tribunale decide in composizione collegiale, appare priva di aderenza alla realtà giudiziaria e, al pari della stessa previsione della facoltà accordata all’attore di optare per il rito semplificato, sembra un precipitato dell’equivoco in ordine alla continuità con il rito sommario.
La lettera delle delega è chiara nel riservare l’applicazione del rito semplificato al giudizio di primo grado. A ben considerare, l’applicazione del rito semplificato di cognizione nel giudizio di appello sarebbe comunque esclusa sia perché questo è disciplinato da un rito proprio, previsto dal capo II del titolo III del libro II del codice di rito, sia perché il rito previsto per l’appello è già ontologicamente semplificato quanto alla fase di trattazione, la quale anzi è pressoché assente per essere assorbita dalle difese introduttive, come quanto alla fase istruttoria, che riveste sostanzialmente carattere di eccezionalità.
Il ddl delega prevede che la forma semplificata del rito ordinario di cognizione debba trovare applicazione in presenza di quattro presupposti “positivi” e di uno “negativo”.
In primo luogo, «quando i fatti di causa siano tutti non controversi». Questo può accadere, nel sistema disegnato dal testo della delega approvato dal Senato[19], soltanto quando il convenuto si costituisca e non contesti i fatti allegati dall’attore, anche qualora si controverta circa le conseguenze giuridiche che da tali fatti si vogliano fare discendere[20].
A non essere controversi devono essere «tutti» i fatti di causa, quindi il rito semplificato di cognizione può trovare applicazione tutte quelle volte in cui non sia necessario accertare alcuno dei fatti allegati dalle parti. Al contempo, un’interpretazione teleologicamente orientata impone di ritenere che a dover essere non contestati debbano essere soltanto i fatti rilevanti ai fini della decisione, e non anche quelli allegati dalla controparte ma che non abbiano alcuna rilevanza in relazione all’oggetto della decisione, secondo un apprezzamento che – anche in questo caso – non può che spettare al giudice.
È comunque onere dell’attore provare il titolo su cui si fonda la domanda giudiziale proposta[21].
Il cd. rito semplificato trova applicazione, poi, qualora «l’istruzione della causa si basi su prova documentale». La causa può essere disciplinata dalla forma semplificata del rito ordinario, quindi, tutte le volte in cui o la prova dei fatti costitutivi della pretesa, di cui è onerato l’attore, o di quelli modificativi, impeditivi ed estintivi, di cui è onerato il convenuto, siano provati documentalmente, non essendo quindi necessaria un’istruttoria in cui espletare prove orali o costituende.
La locuzione utilizzata dal testo legislativo della delega è quantomeno imprecisa: non è «l’istruzione della causa» a dover essere provata, ma piuttosto devono esserlo i fatti allegati dalle parti, che vanno appunto provati documentalmente.
Come si è accennato sopra, un altro ambito elettivo di applicazione del rito semplificato sono quelle controversie in cui il convenuto (o, più in generale, la parte nei cui confronti venga proposta una domanda) non contesti i fatti di causa, ma esclusivamente la qualificazione giuridica degli stessi. Si pensi alla contestazione in ordine all’interpretazione di una previsione contrattuale o alla gravità dell’inadempimento. In questi casi non è necessaria una fase di trattazione. Una fase anticipata di trattazione scritta, come tale ormai indefettibile, risulta dunque ultronea rispetto all’obiettivo di garantire il contraddittorio tra le parti, poiché lo assicura anche quando non è necessario effettuare allegazioni o articolare mezzi istruttori, e le difese potrebbero essere compiutamente svolte nel termine per il deposito delle memorie conclusionali e delle repliche.
Il terzo presupposto in presenza del quale il ddl delega prevede che debba trovare applicazione il rito semplificato è quando la prova sia «di pronta soluzione»: una locuzione utilizzata nel codice di rito vigente dall’art. 648 cpc nel dettare i presupposti in presenza dei quali il giudice dell’opposizione può concedere la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo e con cui si intendono quei mezzi istruttori che non richiedono un’attività di istruzione, quali i fatti notori, i fatti pacifici tra le parti e i documenti.
Così definito l’ambito di tale previsione, è di tutta evidenza come, però, essa si risolva in buona parte nel primo, ossia «quando i fatti di causa siano tutti non controversi», in parte nel secondo, vale a dire quando i fatti allegati dalle parti siano documentalmente provati, e in parte riguardi ipotesi alquanto marginali nella prassi.
Infine, il rito semplificato dovrà disciplinare la causa tutte quelle volte in cui «richieda un’attività istruttoria costituenda non complessa». Una previsione che desta perplessità perché prevede la possibilità di celebrare il processo nella forma semplificata di cognizione anche qualora sia necessario espletare prove costituende. In questo caso si richiede al giudice una valutazione di non complessità, sempre aleatoria quando venga in rilievo l’espletamento di una prova costituenda in cui la difficoltà o complessità è spesso valutabile solo nel corso dell’espletamento della stessa ed è spesso legata a una serie di fattori che non di rado sfuggono completamente alla capacità del giudice e delle parti di incidervi.
È allora necessario, forse, dare un’interpretazione restrittiva a tale previsione e limitarla al caso in cui i fatti allegati da chi propone una domanda siano sì provati documentalmente, ma siano contestati dalla controparte, la quale però non fornisca alcuna prova documentale in senso contrario e chieda di essere ammessa a provarli esclusivamente attraverso l’interrogatorio formale. Si tratta di una prova costituenda che, per ragioni di ordine sistematico, il giudice non può non ammettere ritenendone l’irrilevanza in ragione della prova documentale da cui risulti provata la circostanza contraria[22], diversamente da quanto può fare con la prova testimoniale.
Il legislatore prevede anche una condizione negativa, aggiunta opportunamente nel testo della delega votato dal Senato: «ove sia avanzata domanda riconvenzionale priva delle condizioni di applicabilità del procedimento semplificato, in questo caso dovendo la causa essere trattata secondo il rito ordinario».
La proposizione da parte del convenuto – o di un terzo chiamato in causa o intervenuto – di una domanda per cui non sussistono i presupposti in presenza dei quali possa trovare applicazione il rito semplificato di cognizione, impone la trattazione nella forma ordinaria, anche qualora la domanda proposta dall’ attore potrebbe essere decisa secondo tale rito. Una previsione che rende ulteriormente evidente, qualora ve ne fosse bisogno, l’inopportunità di prevedere che il rito semplificato venga scelto dall’attore nell’introdurre un giudizio in cui il tribunale decide in composizione monocratica, non potendo questi sapere non solo quali possano essere le difese del convenuto, ma anche se questi o altri (chiamati o intervenuti) propongano a loro volta domande nel corso del medesimo giudizio.
Non è stato espressamente previsto dalla delega, ma si deve ritenere che il rito semplificato non possa trovare applicazione anche qualora venga spiegato un intervento principale e in relazione alla domanda proposta dall’interventore non sussistano i presupposti richiesti dal n. 3 della lett. n del comma 5 dell’art. 1.
4. La disciplina del rito semplificato di cognizione
Una volta chiarito che il rito semplificato di cognizione non è un nuovo rito in senso proprio, ma soltanto una forma semplificata di quello ordinario, è – in astratto – facile comprendere che, quanto alla disciplina, la delega si limiti a prevedere, al n. 5 della lett. n del comma 1 dell’art. 3, che debbano essere dettati «termini (…) ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni, nel rispetto del contraddittorio fra le parti». In altre parole, la semplificazione del rito ordinario di cognizione di cui al titolo II del libro II del codice di rito, come risulterà a seguito dell’esercizio della medesima delega, dovrà consistere in una riduzione dei termini a difesa.
Una previsione che, tuttavia, aveva senso in relazione al testo del ddl 1662/S/XVIII risultante a seguito degli emendamenti elaborati sulla base della proposta della Commissione Luiso, poiché in quel caso si andava a incidere su una fase di trattazione della causa successiva rispetto all’udienza di prima comparizione delle parti innanzi al giudice. Il testo approvato dal Senato prevede, invece, l’anticipazione della fase di trattazione della causa, attualmente regolata dall’art. 183, comma 6, cpc, a un momento anteriore rispetto alla comparizione delle parti innanzi al giudice. In un momento successivo non è prevista l’assegnazione da parte del giudice di termini, se non quelli per le difese conclusive, ma solo la calendarizzazione dell’eventuale istruttoria, che nel caso del rito semplificato dovrebbe essere tendenzialmente inesistente o al più «non complessa», e della decisione.
Si dovrebbe ritenere, allora, che la delega imponga al legislatore delegato di ridurre i termini di cui alla lett. f del comma 1 dell’art. 3. Ciò potrebbe avvenire, però, soltanto nell’ipotesi in cui sia l’attore a optare per il rito semplificato di cognizione, poiché tutte le volte in cui sia il giudice a decidere che la causa venga assoggettata a tale rito nessuna riduzione dei termini è possibile. È l’ulteriore indizio di un mancato coordinamento tra la modifica della fase di trattazione del rito ordinario operata dalla Commissione giustizia del Senato e la prevista introduzione di una forma semplificata di cognizione, risultante dagli emendamenti governativi presentati il 21 giugno 2021.
Come si è detto, chi introduce un giudizio, e più in generale chi propone una domanda, non è in grado di sapere se sussisteranno i presupposti per l’applicazione del rito semplificato previsti dalla delega e che possono e devono essere vagliati dal giudice all’esito della costituzione delle parti. Senza considerare che una previsione siffatta, nel momento stesso in cui consente all’attore di fissare al convenuto termini di decadenza inferiori rispetto a quelli previsti dalla legge in via generale, pone seri dubbi di contrasto della delega con la norma parametro dell’art. 111, comma 1, Cost. Inoltre, il legislatore delegato verrebbe a determinare un’irragionevole disparità di trattamento per il convenuto rispetto all’ipotesi in cui la decisione di assoggettare il processo al rito semplificato venga assunta dal giudice a seguito della costituzione delle parti e di valutazione della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge. È da auspicare allora che, proprio per garantire il «rispetto del contraddittorio tra le parti», di cui opportunamente si preoccupa il n. 4 della lett. n, ma anche per realizzare un’effettiva semplificazione, il legislatore delegato non differenzi la fase introduttiva di trattazione tra rito ordinario di cognizione e rito semplificato, pur nella consapevolezza che, così facendo, della semplificazione ipotizzata dalla Commissione Luiso resta ben poco e che – come si è detto – sarebbe stato opportuno eliminare tale istituto processuale e limitarsi a disporre l’abrogazione del rito sommario di cognizione.
La disciplina del rito ordinario di cognizione, che dovrà risultare a seguito dell’attuazione della delega, determinerà che, tendenzialmente, all’udienza di comparizione delle parti innanzi al giudice sia compiutamente individuato il thema decidendum e il thema probandum. Il n. 1 della lett. i del comma 1 dell’art. 3 prevede che, all’esito dell’udienza di trattazione, in caso di mancata conciliazione delle parti (che devono comparire personalmente innanzi a lui), il giudice senz’altro provvede sulle istanze istruttorie e predispone il calendario del processo. La disciplina dell’udienza di comparizione delle parti, pertanto, non differisce tra forma ordinaria e forma semplificata del processo di cognizione.
Anche nel caso in cui sia comunque prevista una fase «istruttoria non complessa», non viene in rilievo la riduzione dei termini, quanto piuttosto la prevedibilità degli stessi e della durata del processo, pure prevista dal n. 4 della lett. n. La decisione sulle istanze istruttorie delle parti, dunque, non differisce da quella che avviene nell’ambito del giudizio ordinario di cognizione.
Il legislatore ha espressamente omologato la forma della decisione, che è la sentenza, come indica il n. 5 della lett. n del comma 1 dell’art. 3. Le forme di decisione, quindi, sono sostanzialmente neutre rispetto al rito semplificato. Solo tendenzialmente, ma non di necessità, la forma della decisione di una causa celebrata in forma semplificata dovrebbe essere quella prevista dall’art. 281-sexies cpc.
Con riguardo alla fase decisoria, poi, la previsione di cui all’art. 1, comma 5, lett. n, n. 4 della legge delega impone la riduzione dei termini di cui al n. 2 della lett. l dello stesso comma. In particolare, nel caso in cui il giudice decida la causa ai sensi dell’art. 281-sexies cpc, il termine per il deposito di note di precisazione delle conclusioni deve essere non superiore a trenta giorni prima dell’udienza di discussione, mentre il termine per le memorie conclusionali e note in replica deve essere rispettivamente fino a quindici giorni e fino a sette giorni prima dell’udienza di discussione. È di tutta evidenza, però, come una riduzione dei termini per le difese conclusive delle parti avrebbe un senso esclusivamente qualora, per le cause trattate con tale rito, sia prevista una corsia preferenziale per la decisione e, quindi, un doppio binario nella calendarizzazione delle decisioni.
La trattazione della causa nelle forme del rito semplificato di cognizione non determina, invece, una riduzione dei termini per il deposito della sentenza, che restano quelli previsti dal n. 2.3 della lett. l del comma 5. Questi termini non sono «previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni» e quindi non sono assoggettati alla riduzione imposta dalla delega.
5. Il rito semplificato di cognizione come spunto per una (forse necessaria) riconsiderazione della disciplina del contributo unificato
L’introduzione del rito semplificato di cognizione fornisce lo spunto per una riflessione sulla disciplina delle spese di giustizia e, in particolare, del contributo unificato.
L’art. 13, comma 3, dPR 30 maggio 2002, n. 115 prevede il pagamento in misura ridotta del contributo unificato per i procedimenti sommari di cognizione. Non è possibile ipotizzare che allo stesso trattamento tributario[23] venga assoggettato il procedimento semplificato di cognizione, e non solo perché – come si è detto sopra – non si tratta di un procedimento sommario, ma di una forma del rito a cognizione piena.
Né è opportuno ipotizzare una modifica del testo unico in materia di spese di giustizia che inserisca una previsione speciale per i giudizi disciplinati dal rito semplificato di cognizione, la quale consenta il pagamento del contributo unificato in misura ridotta.
La scelta della forma semplifica di cognizione è rimessa – come si è detto – anche alla parte che introduce un processo in cui il tribunale decide in composizione monocratica, sicché si potrebbe astrattamente prevedere che chi agisce potrebbe versare il contributo unificato in misura ridotta in ragione di questa sua scelta. Nel caso di un successivo passaggio alla forma ordinaria di cognizione, sarebbe possibile richiedere un’integrazione del pagamento, come accade oggi nel caso in cui il giudice disponga il mutamento dal rito sommario di cognizione a quello ordinario. Di contro, qualora la decisione in ordine all’applicazione del rito semplificato venga presa dal giudice in un momento in cui l’attore ed eventualmente altre parti del processo, per avere proposto domanda riconvenzionale o effettuata una chiamata in causa di un terzo, abbiano già pagato il contributo unificato, si dovrebbe ipotizzare che possano presentare istanza di rimborso[24] in relazione alla quota parte del contributo versato che esorbiti quanto previsto per il rito semplificato.
È di tutta evidenza come una tale prospettiva determinerebbe, però, un aggravio non di poco momento per gli uffici giudiziari, dovendosi ipotizzare una maggiore incidenza del passaggio alla forma semplificata di cognizione rispetto al mutamento di rito ai sensi dell’art. 702-ter, comma 3, cpc e, soprattutto, una maggiore attività legata alle istanze di rimborso, la cui incidenza nel sistema attuale del contributo unificato è pressoché nulla.
Nell’idea originaria (quella dell’emendamento formulato sulla base del testo elaborato dalla Commissione Luiso) era più immediato ipotizzare una totale riconsiderazione del sistema del contributo unificato, prevedendo che in tutti i giudizi civili il pagamento dello stesso avvenisse in due fasi, di cui una seconda solo eventuale: un primo pagamento al momento dell’introduzione del giudizio e, quindi, un secondo pagamento dopo la comparizione delle parti e il vaglio da parte del giudice in ordine alla modalità del rito di cognizione tutte le volte in cui fosse necessaria una fase di trattazione scritta “piena” e un’istruttoria “complessa”, e quindi – in buona sostanza – tutte le volte in cui la causa dovesse essere trattata con il rito ordinario di cognizione. Una struttura che, alla luce del testo attuale del ddl delega, non è però ipotizzabile, poiché la fase di trattazione è comunque presente, e nelle stesse forme, anche nel caso di applicazione del rito semplificato.
Al contempo, però, il permanere nel testo approvato dal Senato di un doppio binario per la cognizione ordinaria, quello ordinario e quello semplificato, impone una riconsiderazione dell’attuale disegno del contributo unificato che tenga conto non solo del valore della causa, ma anche dell’attività processuale richiesta in quel determinato giudizio. È la riforma del processo civile disegnata dalla delega che pone al centro dell’attenzione le attività processuali e la loro incidenza in termini di durata del processo. Il legislatore dovrebbe, allora, trarne le conseguenze in termini di pagamento del contributo unificato.
È dunque possibile ipotizzare una disciplina normativa che preveda il versamento di un ulteriore contributo unificato, sempre in ragione degli scaglioni di valore attualmente previsti, tutte le volte in cui la causa proceda nelle forme del rito ordinario, e quindi – secondo il testo attuale della delega – tutte le volte che sia necessario espletare delle prove orali o una consulenza tecnica d’ufficio. È proprio la distinzione nell’ambito della cognizione ordinaria tra forma ordinaria del rito e forma semplificata che impone di introdurre una distinzione anche sotto il profilo del costo per le parti dell’attività giudiziaria, che nel secondo è ora normativamente minore rispetto a quella che viene svolta nell’ambito di un giudizio ordinario di cognizione. Secondo la struttura disegnata dal ddl delega, ciò potrebbe avvenire successivamente all’ammissione dei mezzi istruttori e alla calendarizzazione delle attività processuali, in primo luogo delle prove costituende, da parte del giudice.
Ed è di tutta evidenza come una riconsiderazione nei termini appena ipotizzati della disciplina del contributo unificato prescinda dalla sopravvivenza, nel nostro ordinamento processuale, di un istituto nato morto qual è il processo semplificato di cognizione.
In altri termini, è forse maturo il tempo per pensare a una vera e propria rivoluzione nella disciplina delle spese di giustizia, in cui il contributo unificato venga strutturato non più come tributo, ma come una tassa, e quindi come pagamento da parte di chiunque proponga una domanda giudiziaria del costo del servizio pubblico, Costo che non può non essere parametro all’attività necessaria per rendere lo stesso. In verità, è alquanto singolare come questo oggi non accada.
Con un ulteriore passaggio, che a questo punto sarebbe inevitabile: subordinare la prestazione dei servizi giudiziari all’effettivo pagamento del contributo unificato[25].
Si potrebbe ipotizzare che il mancato versamento del contributo dovuto al momento dell’ammissione dei mezzi istruttori determini la cancellazione della causa dal ruolo, recuperando nel nostro ordinamento processuale l’istituto della cancellazione senza contestuale estinzione del giudizio[26].
L’aggravio di lavoro per i funzionari giudiziari sarebbe compensato dal venir meno del recupero dei contributi non versati al momento dell’iscrizione delle cause a ruolo: ipotesi non così infrequente, ma che si verifica proprio perché, nel sistema attuale, il mancato pagamento del contributo unificato non preclude lo svolgimento dell’attività giudiziaria. Inoltre, per valutare se debba essere versato l’ulteriore contributo dovuto per lo svolgimento nelle forme ordinarie del giudizio, sarebbe sufficiente verificare se, con l’ordinanza assunta all’esito dell’udienza di comparizione delle parti, il giudice abbia previsto o meno di procedersi nelle forme del rito semplificato, e in caso contrario richiedere a tutte le parti che hanno proposto domande (quindi, a chi abbia già versato il contributo unificato) l’integrazione dello stesso.
Senza considerare come la previsione di un ulteriore esborso in caso di espletamento di attività istruttoria potrebbe determinare il mutamento dell’atteggiamento delle parti del processo, ma anche del giudice, in ordine all’attività istruttoria e, più in generale, il rapportarsi alla stessa non in funzione dilatoria della decisione.
1. Vds., già quasi un decennio fa, B. Sassani, Il codice di procedura civile e il mito della riforma perenne, in Riv. dir. proc., n. 6/2012, pp. 1429-1449. Per un elenco aggiornato delle riforme processuali succedutesi dall’emanazione del codice di procedura civile, G. Costantino, Perché ancora riforme della giustizia?, in questo fascicolo (e, in anteprima, in questa Rivista online, 13 luglio 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/perche-ancora-riforme-della-giustizia).
2. www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LUISO_relazione_finale_24mag21.pdf.
3. G. Costantino, intervista a Il Dubbio, 27 settembre 2021, p. 4 e, più diffusamente, Perché ancora riforme, op. cit., pp. 2-3.
4. Vds. E. Bruti Liberati, Per non sprecare risorse è necessaria la revisione della geografia giudiziaria, Il Sole 24 ore, 23 giugno 2021.
5. Una soluzione di compromesso tra la proposta formulata dalla Commissione Luiso e le istanze dell’avvocatura, come riferisce Fiammetta Modena, relatrice del ddl in Commissione giustizia del Senato, nell’intervista rilasciata a Il Dubbio, 21 settembre 2021, p. 8.
6. D.lgs 17 gennaio 2003, n. 5.
7. Art. 54, comma 5, l. 18 giugno 2009, n. 69.
8. www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/Vaccarella_relazione_articolato_28giu2013.pdf.
9. Salva la possibilità, prevista attualmente dall’art. 183-bis cpc, di mutare il rito ordinario in quello sommario di cognizione, una norma che non risulta aver visto una massiccia applicazione nei nostri tribunali.
10. Il rito semplificato di cognizione rimette al giudice la direzione del processo nell’ambito di regole processuali date. Non è il giudice a dettare la regola processuale del caso concreto, com’era nella proposta presentata in questa Rivista (vds. M. Nardin e M. Pivetti, Un processo civile per il cittadino (lineamenti di una proposta di riforma della procedura civile), edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 6/2005, pp. 1 ss.), e in particolare laddove si prevedeva «l’aperto riconoscimento al giudice di un relativamente ampio potere discrezionale da esercitare principalmente, ma non esclusivamente, per rendere flessibili le prescrizioni e le preclusioni al fine di evitare che esse si trasformino da strumento di governo del processo in trabocchetti o comunque in strumenti di ingiustizia», rimettendo all’appello il controllo dell’esercizio di tale potere discrezionale. È di tutta evidenza come l’intuizione del testo della Commissione Luiso si ponga, a distanza di oltre quindici anni, in (probabilmente inconsapevole) continuità con un progetto capace di seminare nel tempo fruttuosi germogli, ma superando la principale obiezione mossa dalla dottrina alla stessa, vale a dire la non aderenza alla previsione dell’art. 111, comma 1, Cost. per non essere un tale processo, quello delineato dal giudice per una determinata causa, non «regolato dalla legge».
11. Come rileva anche Luiso nella lettera di trasmissione alla Ministra delle proposte formulate dalla Commissione da lui presieduta, il vero problema resta quello del “collo di bottiglia” della decisione, per cui nessuna modifica del codice di rito di per sé sola è in grado di garantire l’obiettivo di una riduzione dei tempi di durata dei giudizi civili.
12. La relazione tecnica fa riferimento, infatti, alla «introduzione del c.d. rito semplificato di cognizione», palesando come si tratti di un rito nuovo e non del “vecchio” rito sommario “traslocato” per esigenze sistematiche nel libro II del codice.
13. L. Milella, Al Senato la scommessa del processo civile per gareggiare in Europa, La Repubblica, 15 settembre 2021 (www.repubblica.it/politica/2021/09/15/news/al_senato_la_scommessa_del_processo_civile_per_gareggiare_in_europa-317912116/).
14. Come ritiene, invece, B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, in Giustizia insieme, 18 maggio 2021 (www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1736), seppure in un commento a prima lettura degli emendamenti proposti dal Governo; ma anche M. Gattuso, La riforma governativa del primo grado: il rischio di un suo fallimento e alcune proposte alternative, in questa Rivista online, 14 settembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-governativa-del-primo-grado, nonché, in versione aggiornata (vds. Id., La riforma governativa del primo grado: le ragioni di un ragionevole scetticismo e alcune proposte organizzative ancora possibili), in questo fascicolo.
15. In tale senso è l’opinione prevalente della dottrina: cfr. G. Basilico, Il procedimento sommario di cognizione, in Giusto proc. civ., n. 3/2010, pp. 737-770, nonché in Enciclopedia Treccani online (www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti/diritto_processuale_civile_e_delle_procedure_concorsuali/2_Basilico_procedimento_sommario.html); M. Bove, Il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis, c.p.c., in www.judicium.it (www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/36/bove%20%20procedimento%20sommario%20cognizione.pdf) ; L. Guaglione, Il nuovo processo sommario di cognizione, Neldiritto, Roma, 2009, p. 206; S. Menchini, L’ultima idea del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in Corr. giur., n. 8/2009, p. 1031.
16. Art. 3, comma 1, lett. i, n. 2, ddl n. 1662-331/S/XVIII. Peraltro, il calendario del processo è già previsto nel nostro ordinamento processuale dall’art. 81-bis disp. att. cpc (a cui è stato aggiunto dal secondo comma dell’art. 1-ter dl 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14 settembre 2011, n. 148) e, come ha osservato la Corte costituzionale con l’ord. 18 luglio 2013, n. 216, «ll legislatore, rendendo esplicito e disciplinando con maggior dettaglio il potere-dovere del giudice di formare il calendario del processo (quando provvede sulle richieste istruttorie e, quindi, non in relazione ad ogni causa e ad ogni momento di essa), ha inteso perseguire l’esigenza di rendere conoscibili alle parti (sia pure in modo non rigido) i tempi del processo stesso, la necessità di evitare (per quanto possibile) inutili rinvii». La pronuncia del Giudice delle leggi esclude, allora, ogni possibilità di ancorare al mancato rispetto del calendario conseguenze disciplinari qualora, come generalmente accade, ciò accada per circostanze sopravvenute e mutate condizioni di lavoro. Se è vero che «si tratta di uno strumento che consente un’organizzazione programmata del processo, attraverso un governo dei tempi delle fasi di necessaria articolazione della procedura, che ne riduca la durata, introducendo elementi di prevedibilità concreta del momento nel quale la causa arriverà a decisione», questo effetto di riduzione dei tempi del processo non dipende dal calendario in sé, ma dalle condizioni di lavoro dell’ufficio giudiziario, la cui “stabilità” consente la prevedibilità dei tempi di decisione.
17. Come rilevano anche S. Boccagna e C. Consolo, Quale delega per la ulteriore riforma (specie, ma non solo, del tanto smagliato) libro II del codice di rito? (vds. www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/210/701/Prof._CONSOLO_-_Univ._La_Sapienza_di_Roma.pdf), che sottolineano la rilevanza del “fattore umano” nella riuscita di qualsiasi riforma processuale.
18. L’espressione «nelle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica», utilizzata dalla prima parte del n. 3 della lett. n, non è tecnicamente corretta: infatti, la competenza è senz’altro del tribunale, essendo poi prevista una diversa composizione di tale organo collegiale in relazione a determinate controversie dall’art. 50-bis cpc o da altre disposizioni normative extracodicistiche.
19. È stata espunta, infatti, la previsione di cui alla lett. c-bis del comma 3 dell’art. 1, secondo cui «la contumacia ritualmente verificata del convenuto determina la non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda ove la stessa verta in materia di diritti disponibili», la cui introduzione – per molti versi inopportuna, anche avendo riguardo alla possibile incidenza sulla durata dei giudizi – avrebbe, però, sicuramente determinato un maggiore ambito di applicazione del rito semplificato di cognizione.
20. Nel sistema disegnato dalla proposta della Commissione Luiso, all’ipotesi indicata nel testo andava aggiunta anche quella in cui il convenuto fosse rimasto contumace e la causa vertesse in materia di diritti disponibili, in ragione della previsione di cui alla nota precedente.
21. Di ciò tiene conto lo stesso legislatore al n. 1 della lett. o, in cui tra i presupposti dell’ordinanza anticipatoria di condanna vi è proprio che «i fatti costitutivi sono provati», oltre alle difese del convenuto «manifestamente infondate».
22. Cass., 12 dicembre 1998, n. 10077.
23. Cfr. Corte cost., 7 febbraio 2005, n. 73.
24. Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, circolare 26 ottobre 2007, n. 33, www.tribunale.gorizia.giustizia.it/it/Content/Index/44974.
25. In Aa. Vv., Giustizia 2030. Un libro bianco per la giustizia e il suo futuro, febbraio 2021, p. 45 (https://www.giustizia2030.it/), viene evidenziata anche la singolarità di un sistema che consenta l’iscrizione della causa a ruolo in mancanza di pagamento del contributo unificato, onerando la cancelleria del recupero.
26. A seguito della modifica dell’art. 181, comma 1, cpc da parte del dl 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazione dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, alla cancellazione della causa dal ruolo consegue sempre la contestuale estinzione del giudizio.