Magistratura democratica

La riforma governativa del primo grado: le ragioni di un ragionevole scetticismo e alcune proposte organizzative ancora possibili*

di Marco Gattuso

La riforma del primo grado, rendendo possibile anche in Italia la definizione dei processi tendenzialmente già in prima udienza, giunge in porto con la promessa di condurre finalmente la nostra giustizia civile in Europa. Essa presenta, tuttavia, alcuni aspetti critici, posto che il legislatore non ha seguito l’impostazione di altri ordinamenti europei, ma ha proseguito nel solco di un progressivo allontanamento dal principio di oralità, persino aumentando il numero di atti scritti e introducendo ulteriori rigidità. La riforma non pare più emendabile, a causa della fiducia posta dal Governo, ma alcuni correttivi sono forse ancora possibili in sede di attuazione. L’obiettivo perseguito dalla riforma, inoltre, può avere qualche chance solo se sarà accompagnato da profondi e radicali interventi organizzativi e, verosimilmente, da un piano straordinario di smaltimento del pesantissimo arretrato presente in molti tribunali del Paese. 

1. La riforma del rito civile: una lunga gestazione e un brusco epilogo /2. La riforma del primo grado di giudizio: le principali modifiche / 2.1. La fase introduttiva: una clamorosa rottura della nostra tradizione / 2.2. La fase decisoria / 2.3. L’istruttoria stragiudiziale / 2.4. Alcuni istituti minori / 3. Primi rilievi critici / 4. Verso il fallimento del PNRR in materia di giustizia civile? / 5. Una visione alternativa: puntare sulla riorganizzazione del sistema giustizia civile / 5.1. Maggiore specializzazione / 5.2. Rivedere la nostra professionalità: il giudice (e l’avvocato) conciliatore / 5.3. Ridurre i carichi / 5.4. Un piano straordinario / 6. Conclusioni

 

1. La riforma del rito civile: una lunga gestazione e un brusco epilogo

La riforma della giustizia civile è approdata in Parlamento con la blindatura della fiducia al Governo Draghi, precludendo dunque qualsiasi ripensamento o emendamento migliorativo. Nella nuova versione della delega, contenuta tutta in un unico articolo (com’è ormai prassi quando si vuole evitare ogni discussione parlamentare[1]), restano ferme solo alcune delle idee contenute nel ddl originario, mentre la fase introduttiva del primo grado subisce una riformulazione che si discosta nettamente tanto dalle proposte scaturite dalla Commissione Luiso quanto dal testo presentato dal Governo appena in giugno.

L’iniziativa di riforma, annunciata con l’obiettivo dichiarato di accelerare il processo civile italiano raggiungendo il resto d’Europa, ha ricevuto un’accoglienza piuttosto fredda, per il diffuso scetticismo, che accomuna giudici e avvocati, rispetto a riforme annunciate ogni volta come epocali, ma che di rado si sono rivelate efficaci e, soprattutto, per la preoccupazione che l’intervento sul rito generi incertezze interpretative, per anni o decenni, in una materia in cui il valore primario dovrebbe essere la certezza. Il comprensibile scetticismo e la preoccupazione non debbono indurre tuttavia a un riflesso conservatore, poiché il sistema della giustizia italiana necessita davvero di profonde riforme, in più direzioni. È vero che negli ultimi anni la situazione è migliorata e che in molti tribunali, soprattutto nel Centro e Nord-Italia, i tempi del primo grado di giudizio si sono ridotti e non superano più, salvo che per una piccola percentuale, i famosi tre anni indicati dalla Corte di Strasburgo. Ma sappiamo che i nostri due/tre anni (che diventano quattro o cinque in molte parti del Paese) sono ancora molto lontani dalle medie di altri Paesi europei, dove la sentenza di primo grado giunge subito dopo la prima udienza, entro sei/sette mesi dall’inizio della causa[2]

Una giustizia civile efficiente è indispensabile per rapporti sociali ed economici informati a principi di correttezza e legalità. Non si tratta soltanto di rendere il nostro mercato più affidabile per gli investimenti stranieri: si tratta di fare leva sulla giustizia civile per la stessa tenuta democratica del Paese, in un passaggio storico di grande difficoltà. Penso al nostro Sud, da cui provengo, dove una più serrata lotta alla grande criminalità e alla corruzione non può non accompagnarsi alla diffusione di una cultura della legalità, che deve trovare sostegno in una risposta celere alle domande di giustizia, che sono spesso domande di giustizia civile. Se i cittadini e le imprese possono fare affidamento in una decisione esecutiva in tempi celeri, non solo chi ha subito un torto avrà la forza di chiedere il rispetto delle regole, ma tutti i cittadini e il sistema socio-economico saranno spinti verso condotte più corrette e rispettose della legalità.

Va superata allora, a mio avviso, la contrapposizione fra l’aspirazione a una giustizia più attenta alla tutela delle persone e dei diritti fondamentali ed obiettivi di efficienza e celerità. L’obiettivo di rendere i nostri tempi compatibili col quadro europeo non deve condurre a un approccio contabile, numerico, respingente, attento più ai dati statistici che alla qualità della giurisdizione, anzi una giustizia più celere, informata ai principi di oralità, immediatezza e concentrazione è il presupposto di una giurisdizione di qualità. Una giustizia lenta e farraginosa è funzionale agli interessi di quei poteri che del giudice possono fare a meno e che, anzi, nel tempo infinito in cui questi arriva alla decisione hanno modo di imporsi, di salvaguardare comunque i loro interessi. Una giustizia più veloce consente di dedicare attenzione e risorse a una protezione più attenta dei diritti fondamentali. Dunque non vi è contraddizione fra efficienza e qualità, anzi, l’una è il presupposto dell’altra.

Il momento storico impone al nostro Paese, con il «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza» (PNRR), una profonda riforma della nostra giustizia civile e l’occasione va colta. Pur consapevoli dell’insufficienza del numero di giudici, che in Italia sono, in rapporto alla popolazione, meno che in altri Paesi, e della necessità di aumentare l’organico, sappiamo dell’enorme difficoltà di un sostanziale reclutamento di nuovi giudici, sicché siamo chiamati a fare comunque ogni sforzo per migliorare le condizioni di lavoro dei magistrati oggi presenti in organico, coscienti che pur presentando livelli di produttività fra i più alti d’Europa, lavorano in uno dei sistemi più lenti e inefficienti[3]

Dopo l’esposizione delle principali novità relative al giudizio di primo grado[4] (§ 2) e al commento di alcuni aspetti, a mio avviso, assai critici (§ 3), tornerò dunque su alcune proposte che attengono soprattutto a profili organizzativi, più che di riforma del rito, che avevo già esposto nel 2020 (l’articolo vide la luce il 10 marzo 2020, proprio nelle prime tragiche giornate del primo lockdown), aggiornandole alla luce della straordinarietà e urgenza imposta dal PNRR (e dalla disponibilità di risorse ad esso collegato). 

 

2. La riforma del primo grado di giudizio: le principali modifiche

 

2.1. La fase introduttiva: una clamorosa rottura della nostra tradizione

La legge delega stabilisce la precisazione delle domande ed eccezioni e l’indicazione dei mezzi di prova a pena di decadenza già prima della prima udienza di comparizione

Ferma la costituzione del convenuto entro un termine precedente all’udienza di comparizione (con le decadenze già previste dall’attuale art. 167 cpc[5]), la riforma prevede infatti che, entro un congruo termine prima dell’udienza, l’attore, «a pena di decadenza», possa proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto e chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto, nonché in ogni caso precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, «a pena di decadenza, indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali»[6].

Prevede, inoltre, che entro un secondo termine anteriore all’udienza il convenuto possa modificare «le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali»[7].

Prevede, infine, che entro un terzo termine prima dell’udienza le parti possano «replicare alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative e indicare la prova contraria».

Dunque, tre termini tassativamente previsti dalla legge e senza possibilità di intervento da parte del giudice, uno per parte (attore e convenuto) e uno comune per repliche e prove contrarie. A differenza del quadro delineato negli emendamenti governativi di giugno, l’indicazione dei mezzi di prova a pena di decadenza non è più prevista negli atti introduttivi, ma entro i successivi termini.

Per conseguenza, il Governo è delegato a modificare le disposizioni del cpc al fine di adeguare ai detti principi «le disposizioni sulla trattazione della causa»[8] e di «modificare, in conformità ai criteri di cui al presente comma, le connesse disposizioni del codice di procedura civile»[9], in particolare adeguando la disciplina della chiamata in causa del terzo e dell’intervento volontario[10] e «se del caso anche ampliando il termine a comparire previsto dall’articolo 163-bis e il termine per la costituzione del convenuto previsto dall’articolo 166 del codice di procedura civile»[11]

Ancora con riguardo alla fase introduttiva, la legge delega prevede che le parti debbano comparire sempre personalmente alla prima udienza e che la loro mancata comparizione personale senza giustificati motivi sia valutabile a norma dell’art. 116, secondo comma, cpc[12]. Il giudice è quindi chiamato a provvedere già alla prima udienza sulle richieste istruttorie, predisponendo il calendario del processo e «disponendo che l’udienza per l’assunzione delle prove sia fissata entro novanta giorni»[13] e, in caso di mancata ammissione di prove costituende, a procedere direttamente alla decisione della causa, con trattazione orale o scritta[14].

Il nuovo rito ordinario rende dunque la causa in astratto già definibile in prima udienza. Il giudice istruttore dovrà ammettere o rigettare i mezzi istruttori in udienza, o con ordinanza riservata, dare quindi corso alla istruttoria entro 90 giorni o, se non vi sono prove orali, procedere direttamente in prima udienza alla fase decisoria

In buona sostanza, viene rotta l’abitudine – in effetti, tutta italiana – di utilizzare la prima udienza solo per alcune valutazioni preliminari e come udienza di sostanziale smistamento e rinvio con la imprescindibile concessione di termini (solitamente richiesti in tutti i processi e sostanzialmente da concedere senza margini discrezionali per il giudice, salvo che una questione preliminare consenta la definizione immediata). La prima udienza diviene, come accade Oltralpe, lo snodo fondamentale del processo, dove se ne decidono le sorti, compresa la possibilità che il giudice, valutata l’inammissibilità di prove costituende, decida subito la causa.

 

2.2. La fase decisoria

La legge delega prevede che, esaurita la trattazione della causa, il giudice, ove abbia disposto la discussione orale ai sensi dell’art. 281-sexies cpc, possa riservare il deposito della sentenza entro un termine fino a trenta giorni dall’udienza di discussione, in alternativa alla scomoda lettura già in udienza del dispositivo e delle motivazioni[15]. L’astrusa previsione della lettura del dispositivo e delle motivazioni immediatamente dopo la discussione orale è in effetti alla base dello scarso successo di tale modulo decisorio, che presuppone che il giudice possa decidere complesse questioni in fatto e in diritto nello spazio di pochi minuti o che abbia già deciso e scritto la sentenza prima della stessa discussione orale. Che le parti discutano la causa e che all’esito il giudice si riservi di decidere è modulo talmente ovvio e razionale che si fa fatica a capire come non sia già previsto dal codice italiano (mentre lo è comunemente all’estero).

Quando il giudice opti invece per la trattazione scritta, la riforma prevede che il medesimo assegni non più termini successivi all’udienza in cui trattiene la causa in decisione, ma a ritroso: un termine fino a 60 giorni prima dell’udienza in cui tratterrà la causa in decisione per il deposito di note scritte di precisazione delle conclusioni; termini fino a 30 e 15 giorni prima dell’udienza per il deposito di comparse conclusionali e note di replica, provvedendo quindi al deposito della sentenza nei 30 giorni successivi all’udienza (60 giorni nelle cause in cui il tribunale decide in composizione collegiale)[16]

In buona sostanza, già alla prima udienza se non vi è istruttoria, oppure conclusa la stessa, il giudice può decidere la causa invitando le parti a discuterla oralmente e riservando il deposito della sentenza entro 30 giorni, oppure può rinviare ad altra udienza assegnando termini per la trattazione scritta.

 

2.3. L’istruttoria stragiudiziale

Resta confermata la scelta di introdurre un’attività di istruzione stragiudiziale, sicché nell’ambito della negoziazione assistita (dunque per le cause con valore fino a 50.000 euro) i difensori delle parti potranno concordare l’acquisizione di prove orali (testimonianza e interrogatorio formale), che, in caso di fallimento delle trattative, diverranno utilizzabili nel giudizio di merito «fatta salva la possibilità per il giudice di disporne la rinnovazione»[17]

 

2.4. Alcuni istituti minori

Infine, vengono introdotte ulteriori innovazioni minori, fra cui segnalo solo alcune, a mio avviso condivisibili: la possibilità di condanna ai sensi dell’art. 96, terzo comma, cpc anche a favore della Cassa ammende[18]; la previsione di conseguenze processuali e sanzioni pecuniarie nei casi di rifiuto non giustificato di consentire l’ispezione ai sensi dell’art. 118 cpc e di inadempimento dell’ordine di esibizione ai sensi dell’art. 210 cpc[19]; la previsione di un termine non superiore a sessanta giorni per la pubblica amministrazione raggiunta da una richiesta del giudice istruttore di informazioni ai sensi dell’art. 213 cpc[20]

La legge delega prevede, inoltre, che il giudice possa formulare una proposta di conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione[21]. In effetti, la previsione attuale per cui la proposta ex art. 185-bis cpc può essere avanzata «sino a quando si è esaurita l’istruttoria» e dunque, a rigore, non dopo l’istruttoria orale o il deposito della ctu, appare priva di ragionevolezza (tant’è che la preclusione è diffusamente derogata, essendo peraltro priva di sanzione). Il chiarimento, forse non indispensabile, è volto comunque a rafforzare la spinta verso le soluzioni conciliative ed è coerente con uno schema di trattazione più semplificato. Da segnalare, peraltro, che posto che le memorie conclusionali sono anticipate rispetto all’udienza in cui il giudice trattiene la causa in decisione, diviene ora possibile proporre una soluzione conciliativa persino dopo il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

Vi è, infine, delega «a individuare, in caso di mediazione obbligatoria nei procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo, la parte che deve presentare la domanda di mediazione, nonché definire il regime del decreto ingiuntivo laddove la parte obbligata non abbia soddisfatto la condizione di procedibilità»[22]. Posto che la legge non indica quale sarebbe tale parte, e posto che non possono ravvisarsi vincoli di natura costituzionale nella scelta della parte onerata, mi pare che, nonostante la diversa posizione assunta dalla Corte di cassazione de jure condito, sia utile segnalare come si profili qui l’occasione per assicurare che l’onere di promuovere la mediazione sia posto in capo non all’opposto, ma all’opponente, con un evidente e assai opportuno effetto deflattivo.

Nel testo definitivo non viene più recepito, invece, il principio già presente in altri ordinamenti europei per cui la contumacia vale non contestazione, previsto nel testo di giugno[23].

 

3. Primi rilievi critici

Così esposte per grandi linee le principali novità del rito di primo grado, possono tentarsi alcuni primi rilievi critici.

 

3.1. Come si è detto, la novità più eclatante della riforma sta nella previsione che già prima dell’udienza di comparizione delle parti debba essere definito integralmente l’oggetto del processo e debba esservi «a pena di decadenza» l’indicazione specifica dei mezzi di prova.

In un primo tempo (con gli emendamenti di giugno 2021) il progetto di riforma prevedeva che l’indicazione dei mezzi di prova avvenisse «a pena di decadenza» già negli atti introduttivi[24]. Nell’ultima versione, introdotta nella concitazione delle ultime ore, l’indicazione avviene invece, a pena di decadenza, entro tre termini previsti fra gli atti introduttivi e l’udienza. La piena definizione dell’oggetto del processo e dei mezzi di prova prima dell’udienza configura una novità di enorme rilievo per il nostro rito civile, che ricalca analoghe previsioni di altri ordinamenti europei. La previsione di ben tre memorie fra gli atti introduttivi e l’udienza rappresenta, invece, una riforma inedita negli altri ordinamenti a me noti, i cui contorni e le cui conseguenze risultano ancora in larga misura indefinite[25].

Com’era prevedibile, la formidabile novità, prevista nella prima proposta Cartabia di giugno 2021, dell’anticipazione a pena di decadenza del termine per l’indicazione delle prove negli atti introduttivi aveva suscitato forti reazioni e dissensi, nell’avvocatura e fra i processualcivilisti[26]. L’introduzione, tuttavia, di ben tre termini fra il deposito degli atti introduttivi e l’udienza di comparizione rischia di suscitare, adesso, negli operatori dubbi e sconforto ben maggiori, evocandosi da più parti, a ragione, lo spettro della rovinosa esperienza del rito societario. 

Come si vedrà, la radicale trasfigurazione della fase introduttiva necessiterà peraltro di ulteriori approfondimenti e, verosimilmente, soltanto in fase di esercizio della delega sarà possibile avere un quadro più chiaro del suo necessario coordinamento con altri istituti del codice di rito. Per l’intanto, è possibile ricostruirne i principali elementi e i punti deboli.

 

3.2. Come avevo scritto su questa Rivista, a mio avviso erano in buona misura condivisibili le critiche alla “riforma di giugno”, provenienti non solo dall’avvocatura ma anche da autorevoli esponenti della magistratura. La stessa, infatti, conduceva a mio avviso in alcune controversie a una eccessiva contrazione della trattazione, non potendosi negare che una parte delle controversie civili, verosimilmente minoritaria ma comunque presente (in particolare per alcune materie, penso a vicende contrattuali complesse e non agevolmente dipanabili in un solo atto introduttivo), necessiti di una più ampia trattazione scritta, in cui le parti possano meglio chiarire le rispettive posizioni, meglio dedurre i fatti principali e secondari, anche articolando ulteriori mezzi istruttori in ragione delle difese di controparte. Non si trattava solo di dare spazio ad argomentazioni e valutazioni giuridiche, sempre possibili nel corso della trattazione, ma di consentire (entro certi limiti e quando sia imposto dalla particolare complessità della vicenda) che i fatti e le prove emergano via via dal dibattito processuale. La contrazione eccessiva della trattazione, prevista in giugno indiscriminatamente anche per questi casi particolarmente complessi, rischiava dunque di comprimere eccessivamente il diritto di difesa e, va detto, di non consentire neppure al giudice di addivenire a una precisa comprensione dei fatti e delle questioni oggetto di controversia.

Da questo punto di vista, già nel commento del 2020 avevo suggerito l’ipotesi di un “intervento chirurgico” sul (solo) art. 183, sesto comma, cpc. Un ritocco avrebbe consentito di superare le rigidità del sistema attuale, modulato su una inevitabile sequela di memorie scritte, affidando al giudice istruttore la scelta del tipo di trattazione confacente al caso concreto, secondo una moderna logica di case management

Sarebbe bastato emendare, allora, il codice di rito con una semplice modifica dell’art. 183, sesto comma, cpc, stabilendo, oltre alle conseguenze della proposizione di «nuove domande e eccezioni» dell’attore a prima udienza, la sostituzione del termine «concede» con la locuzione «può concedere, ove indispensabile in ragione della complessità delle questioni in fatto o in diritto». Una tale correzione (che sarebbe stata sostanzialmente soluzione di compromesso fra le due ipotesi scaturite dalla Commissione Luiso e la più radicale proposta governativa di giugno) avrebbe impresso verosimilmente alla riforma un analogo effetto acceleratorio, forse persino rinunciando all’introduzione di una preclusione perentoria come quella indicata per le prove nei primi atti, posto che sarebbe stato comunque chiaro che la trattazione scritta è solo eventuale, così inducendo i difensori ad anticipare comunque nell’atto introduttivo la disclosure di ogni argomento, eccezione, mezzo istruttorio. Il rito italiano, in effetti, si caratterizza per una imposizione autoritaria di termini perentori che, oltre a rendere l’attività del difensore assai gravosa e ansiogena, produce l’evidente rischio di scollamento fra realtà sostanziale e processuale, irreggimentando e contraendo il dialogo processuale. Per contro, altri ordinamenti non impongono decadenze così rigide, ma puntano sulla concentrazione del dibattito processuale in un’unica udienza, rafforzando il vigoroso potere/dovere del giudice di indirizzo delle parti (in Germania, ad esempio, il rito non conosce rigide barriere istruttorie, ma grazie a un’incisiva riforma del 2001 del fondamentale paragrafo 139 Z.P.O., potenziata nel dicembre 2019, il giudice deve indicare, anche attraverso «avvisi», Hinweise, «il più presto possibile» le questioni da approfondire così come le questioni ritenute irrilevanti e le circostanze che secondo il tribunale devono essere ancora provate, così da indirizzare subito le parti sui temi rilevanti ai fini della decisione). 

La prima udienza sarebbe potuta divenire il luogo di una effettiva discussione della causa, dei fatti e delle questioni giuridiche rilevanti e irrilevanti, anche consentendo alle parti di precisare e modificare in quella sede le loro conclusioni. Solo all’esito, valutato il tutto, comprese le prospettive conciliative, il giudice avrebbe potuto scegliere la strada – solo eventuale – della ulteriore trattazione scritta, solo se avesse valutato che ciò fosse indispensabile in ragione della complessità delle questioni in fatto o in diritto, restando in ogni altro caso preclusa ogni ulteriore modifica o istanza istruttoria. Non si sarebbe trattato dunque – come paventato da alcuni – di estendere a tutti i processi il rito del lavoro, o un rito simile, probabilmente più consono a un contenzioso più standardizzato, a tratti quasi seriale, ma di introdurre una dinamica di case management che tenga conto della varietà e complessità del contenzioso civile. In questo senso abbiamo già oggi l’art. 183-bis cpc, che consente al giudice di evitare la concessione dei termini istruttori mutando il rito in sommario, ma la sua proposizione come mera eccezione rispetto alla via maestra del giudizio ordinario e la carenza di strutturali riforme di contorno induce i giudici a farne scarsissimo uso (salvo che in alcuni fori, come qui a Bologna, dove invece ha avuto una certa fortuna), sicché i difensori fanno ancora massimo affidamento nella circostanza che vi sarà comunque una trattazione scritta con il deposito delle tre memorie, con la conseguenza che la redazione degli atti introduttivi risente necessariamente di tale possibilità, data per scontata. Si trattava, allora, di ribaltare l’impostazione codicistica, affermando che il rito ordinario procede come un rito “tendenzialmente a udienza unica”, salvo che la causa presenti la necessità di una trattazione più approfondita.

La scelta di consentire anche in Italia al giudice un effettivo governo del processo presuppone, tuttavia, che si torni ad avere fiducia nel giudice. Il giudice cui affidiamo la decisione finale dovrebbe essere ritenuto soggetto idoneo a valutare e decidere il tipo di percorso processuale opportuno per quella causa. Ingabbiare il suo lavoro in rigidi schemi predeterminati dal legislatore in ogni dettaglio, per timore che non sappia garantire il diritto di difesa delle parti, rende la giustizia meno efficiente e allontana la decisione dalla verità sostanziale. 

 

3.3. Con la legge delega, il legislatore, tuttavia, ha percorso tutt’altra strada

Il legislatore non ha riconosciuto che le cause possono essere, in concreto, suscettibili d’essere decise con trattazione più o meno complessa, demandando al giudice civile il compito di disporre una trattazione più articolata, ma ha creato una griglia priva di flessibilità, sottratta all’intervento del giudice e, anzi, anticipata rispetto al suo stesso ingresso in scena. 

Anticipando per tutte le cause, già prima della prima udienza di comparizione, una composita e articolata trattazione scritta, il legislatore ha ignorato del tutto la semplice constatazione che la necessità di trattazione dipende dalla complessità, oggettiva e soggettiva, che si presenta in concreto e nel singolo caso. Avere previsto una lunga trattazione scritta per cause semplici, per cause definibili sulla base di mere questioni preliminari (incompetenza, carenza di giurisdizione o di legittimazione, nullità dell’atto introduttivo, tardività dell’opposizione a decreto ingiuntivo, etc.), conduce inesorabilmente a un ulteriore e indesiderato appesantimento del rito italiano, che in molti casi rischia di divenire, se possibile, ancora più farraginoso di quello attuale. Questa riforma rischia, a mio avviso, di non aiutare l’ingresso della nostra giustizia civile in Europa, ma addirittura di complicare anche le cause semplici.

 

3.4. Ad ogni modo, il complesso meccanismo previsto dal legislatore per la fase introduttiva meriterà, in sede di esercizio della delega, un approfondimento e qualche chiarimento. 

Riguardo alla definizione dell’oggetto del processo, il convenuto è chiamato, come già oggi, a svolgere in comparsa di risposta a pena di decadenza le eccezioni in senso stretto, le domande riconvenzionali e le chiamate di terzo. L’attore potrà quindi svolgere a pena di decadenza nel successivo termine le domande, le eccezioni e le istanze a chiamare un terzo che siano conseguenza delle difese del convenuto, nonché «in ogni caso» (?) precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. la legge prevede inoltre che il convenuto possa modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, ma non segnala espressamente che tali modifiche debbano essere conseguenza delle difese dell’attore né che debbano essere svolte in questa sede «a pena di decadenza». Infine, la legge delega prevede che entro il terzo termine entrambe le parti possano «replicare alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative», ma curiosamente qui non indica che le repliche vadano svolte «a pena di decadenza». 

Riguardo, poi, alla deduzione dei mezzi istruttori, come si è visto nella nuova riformulazione di settembre 2021, l’indicazione delle prove negli atti introduttivi non è (più) «a pena di decadenza», ma lo diviene solo nei due successivi termini ove è «a pena di decadenza» l’obbligo di indicare «i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali». Tali «nuove prove», secondo l’indicazione letterale della legge delega, non sono necessariamente conseguenza delle difese di controparte. La decadenza è indicata solo per le «nuove prove», ma non si può dubitare, credo, che se possono indicarsi solo qui le «nuove prove» a pena di decadenza, lo saranno a maggior ragione quelle già indicate nell’atto introduttivo: in buona sostanza, è questo il momento entro il quale l’attore è obbligato a una completa disclosure delle prove dirette. Sorprendentemente, però, non è invece «a pena di decadenza» l’indicazione di prove contrarie nel terzo e ultimo termine. 

Come si vede, un quadro più chiaro potrà aversi solo in seguito all’attuazione della delega.

 

3.5. Avevo già segnalato, nel precedente commento, un’ulteriore criticità del nuovo sistema in relazione ai tempi consentiti alle parti e ai loro difensori per apprestare le necessarie difese, criticità di cui il legislatore sembra essersi accorto e che, tuttavia, dovrà essere tenuta bene in mente in fase di esercizio della delega. 

Sul punto la legge si limita a delegare la determinazione di «termini per le memorie di cui alla lettera f) in modo tale da permettere la celere trattazione del processo garantendo in ogni caso il principio del contraddittorio e il più ampio esercizio del diritto di difesa, se del caso anche ampliando il termine a comparire previsto dall’articolo 163-bis e il termine per la costituzione del convenuto previsto dall’articolo 166 del codice di procedura civile»[27]

Oggi l’art. 163-bis cpc assicura al convenuto un termine per comparire solitamente pari a 90 giorni, con necessità di costituzione entro 20 giorni prima della prima udienza, a pena di decadenza da tutta una serie di attività (eccezioni non rilevabili d’ufficio, domande riconvenzionali, autorizzazione a chiamare in causa), sicché il cittadino citato in giudizio ha oggi 70 giorni per comprendere d’essere stato convenuto, per trovare un avvocato, essere ricevuto, spiegare i fatti, fornirgli i documenti, indicargli le proprie prove etc., e perché il difensore valuti i fatti (magari tentando anche un primo contatto con la controparte anche a fini transattivi), raccolga i documenti, selezioni i mezzi istruttori, scriva e depositi la sua comparsa di risposta. Tutto ciò sapendo che precisazioni e nuove prove potranno essere indicate anche nel prosieguo del processo, successivamente alla prima udienza. Non è dunque ragionevole che questo termine resti immutato nonostante la precisazione delle difese e l’indicazione dei mezzi istruttori sia adesso «a pena di decadenza» entro uno stretto termine prima dell’udienza.

Per altro verso, l’attore, letta la comparsa di risposta, ha oggi 19-20 giorni per organizzare le proprie difese conseguenti alle difese del convenuto, sapendo, ancora una volta, che precisazioni e nuove prove potranno comunque essere allegate anche nei mesi successivi alla prima udienza. A me pare, ancora, irragionevole che il termine di 19-20 giorni resti fermo anche se adesso l’attore dovrà dedurre tutti i mezzi istruttori a prova contraria in un termine che precede la prima udienza, a pena di decadenza. 

Va pure considerato che anche il convenuto avrà un successivo termine per difese e vi sarà quindi un terzo termine per entrambe le parti. Tutte attività di preparazione e redazione di atti che necessitano di colloqui con l’assistito, ricerca e acquisizione di mezzi istruttori, insomma di tempo.

In sede di delega sarebbe dunque ragionevole estendere congruamente il termine per la notifica dell’atto di citazione e anticipare di (almeno) qualche settimana il momento della costituzione del convenuto, così da consentire all’attore di replicare entro un termine congruo, al convenuto di replicare a sua volta e, quindi, a entrambi di depositare l’ulteriore memoria entro congrui termini. Nell’applicare il principio segnalato dalla legge delega (se del caso, anche ampliando i termini...) davvero non lesinerei. La lentezza del nostro sistema non dipende dai giorni, 90 o più, che intercorrono fra la notifica e l’udienza, mentre non v’è dubbio che una causa mal impostata ci allontana dalla verità sostanziale e rischia di produrre ulteriori disfunzioni

Certo, rammarica che una lunga fase preparatoria divenga oggi obbligatoria anche per cause non complesse e, soprattutto, per cause che necessiterebbero di tempi serrati. In particolare, dispiace che la decisione ai sensi dell’art. 648 cpc possa giungere ben oltre i tre/quattro mesi di oggi, né in caso di urgenza l’udienza di comparizione potrà essere anticipata, ai sensi dell’art. 163-bis, terzo comma, cpc, a prima del decorso di tutti i termini prescritti ante udienza. In buona sostanza, vi è il rischio che la dilatazione della fase introduttiva incentivi il ricorso a opposizioni dilatorie (non potendosi confidare che l’opponente proponga opposizione con rito sommario…). 

Inoltre, come dirò più avanti, se vogliamo davvero che la prima udienza assuma un ruolo centrale nel sistema, è indispensabile consentire alle parti una effettiva interlocuzione anche a fini conciliativi prima dell’udienza di comparizione avanti al giudice. È vero che una interlocuzione avviene già solitamente prima della notifica dell’atto di citazione, ma tutti sappiamo che l’inizio del processo e l’esposizione delle difese imprime un’accelerazione alle trattative, e sappiamo inoltre che le frequenti richieste di rinvio per trattative o il rischio di mancata comparizione in udienza rappresenta un concreto disincentivo ad una attenta preparazione dell’udienza da parte del giudice. Purtroppo, la previsione di un appesantimento della fase introduttiva rischia, delle due, di ostacolare le trattative, poiché le parti saranno impegnate nella redazione delle diverse memorie (due per parte, dopo l’atto introduttivo). Sarebbe stato più utile, come avevo suggerito, prevedere per contro che le parti possano chiedere un rinvio della prima udienza per trattative, congiuntamente ed entro un termine ampiamente precedente l’udienza (e vietando tali richieste in udienza), così che il giudice abbia certezza che le parti davvero intendono sottoporgli la controversia (potrebbe addirittura prevedersi, più agevolmente, che in mancanza di conferma, entro un certo termine, da una delle parti della prima udienza, questa slitti automaticamente di qualche settimana). Come ho detto, infatti, la circostanza che con una certa frequenza le parti chiedano in udienza un rinvio per trattative rischia di indurre il giudice a non svolgere uno studio approfondito di tutte le – a questo punto assai numerose – carte processuali.

 

3.6. Come si è visto, il Governo è pure delegato a modificare le disposizioni del cpc al fine di adeguare ai nuovi princìpi la disciplina della chiamata in causa del terzo e dell’intervento volontario[28].

Il detto coordinamento sembra tuttavia talmente complesso da rasentare, forse, l’irrealizzabilità.

Cosa accadrà, infatti, nell’ipotesi in cui il convenuto chieda in comparsa di risposta l’autorizzazione a chiamare un terzo e, com’è verosimile se non certo, il giudice istruttore non riesca a emettere il provvedimento prima del deposito della successiva memoria difensiva dell’attore? E se l’attore, per l’effetto delle difese del convenuto, chieda a sua volta di chiamare in causa un terzo e, com’è prevedibile, il provvedimento di autorizzazione non giunga prima della scadenza del successivo termine? Vi è il rischio, assai concreto, che il provvedimento del giudice istruttore arrivi quando le successive memorie sono state già depositate, con conseguente spostamento dell’udienza, sicché le parti dovrebbero poi depositare ulteriori memorie prima della nuova data, avendo però già letto le memorie delle controparti, con un inestricabile groviglio di atti scritti, destinato a moltiplicarsi esponenzialmente se il terzo chiamato chieda a sua volta di chiamare altri e così via. Dunque, una lievitazione ingestibile delle carte processuali.

L’unico rimedio, in sede di esercizio della delega, sembra essere la previsione di tempi dilatati che consentano la valutazione delle istanze da parte del giudice istruttore ben prima della scadenza del successivo termine (e, forse, seguendo l’indirizzo di cui a Corte di cassazione, sez. unite, sent. n. 4309 del 23 febbraio 2010, una valutazione da parte dei giudici molto selettiva dell’autorizzazione a integrare il contraddittorio, tenendo pure conto che processi più rapidi dovrebbero consentire anche da noi, come accade all’estero, di estendere il contraddittorio solo in casi del tutto eccezionali).

Inoltre, come visto, il primo e il secondo termine sono assegnati ex lege rispettivamente in favore “dell’attore”’ e del “convenuto”, sicché occorrerà chiarire come tale meccanismo si adatti quando chi è “convenuto” in giudizio sia a sua volta “attore” nei confronti di un terzo chiamato…

 

3.7. La legge, più in generale, delega il Governo ad adeguare ai nuovi principi della fase introduttiva «le disposizioni sulla trattazione della causa»[29]

Incredibilmente, tuttavia, non è chiarito in sede di delega se e in che termini l’introduzione dei tre termini per memorie ante udienza dovrà condurre a una abrogazione (o a una modifica?) dell’art. 183, sesto comma, cpc. 

La scelta di non delegare al giudice il concreto governo del processo, ma di anticipare la trattazione a una fase in cui il giudice non è ancora presente, non consente alle parti di calibrare gli atti su una decisione già adottata dal giudice istruttore o comunque su sue indicazioni in udienza (ad esempio, in materia di questioni preliminari, di esecuzione del decreto ingiuntivo, di questioni rilevate d’ufficio dal giudice, etc.), sicché in alcuni casi la concessione di ulteriori memorie sarà indispensabile. Per altro verso, mantenere l’attuale previsione di ben tre termini per memorie istruttorie, da concedersi inderogabilmente, è in tutta evidenza del tutto incompatibile con la nuova fase introduttiva.

È verosimile che la concessione di termini debba essere affidata alla prudente valutazione del giudice. In ogni caso, appare piuttosto evidente l’indeterminatezza della legge delega sul punto (con i rischi di eccesso di delega) e il confuso ginepraio consegnato al legislatore delegato.

 

3.8. Passando alla fase decisoria, appare scarsamente comprensibile perché la legge preveda che quando il giudice opti per la trattazione scritta debba assegnare non più termini successivi, ma a ritroso (come si è visto, un termine per la precisazione delle conclusioni fino a 60 giorni prima dell’udienza; fino a 30 e 15 giorni prima dell’udienza per le comparse conclusionali e note di replica[30]), peraltro indicando un termine massimo, ma non minimo (com’è previsto nell’attuale art. 190, che al secondo comma cpc indica 20 giorni per le comparse conclusionali e al primo comma 20 giorni per le memorie di replica), sicché il giudice potrebbe ridurre i termini anche a pochi giorni.

È abbastanza evidente che tale nuova regola non indurrà al benché minimo risparmio di tempo, posto che il giudice, com’è ovvio, tiene la propria agenda programmando il momento in cui sarà in grado di scrivere quella sentenza, a prescindere dalle modalità di decorrenza dei termini per le memorie conclusionali. 

Non si comprende, infine, che senso abbia nel nuovo sistema un’udienza, successiva alla precisazione delle conclusioni e al deposito delle memorie, dove le parti, se non erro, non potrebbero svolgere più alcuna attività (ma allora perché convocarle?), dovendosi il giudice limitare a riservare la decisione (salvo l’ipotesi, improbabile, che abbia già letto tutte le memorie conclusionali e voglia proporre una conciliazione). L’udienza di precisazione delle conclusioni – oltre alla funzione reale di consentire al giudice di programmare l’agenda pianificando il numero di sentenze da scrivere – ha nel sistema attuale un qualche (limitatissimo) senso al fine di verificare l’interesse delle parti alla decisione, l’insorgenza di cause di interruzione, la volontà di procedere a trattative o, infine, per eventuali esigenze di smistamento, tutte attività che appaiono assai tardive se le parti hanno già depositato le loro memorie conclusionali. 

La norma, in effetti, sembra un mero ossequio alla tradizione dell’art. 190 del codice italiano; molto meglio sarebbe stata, come avviene in altri codici europei, la previsione di un unico modulo decisorio, con la discussione orale, eventualmente seguita da termini per memorie e repliche, se richieste dalle parti, e quindi il termine di 30 giorni (o 60) per il deposito della sentenza, decorrente dalla scadenza dell’ultimo termine assegnato.

 

3.9. Mal si comprende per quale ragione la legge delega, intrapresa con decisione la strada di un processo definibile a prima udienza, si sia rimangiata l’abrogazione del rito sommario che, come noto, era stata invece prevista nell’originaria riforma Bonafede. 

La legge delega prevede al riguardo che il rito sommario assuma la nuova denominazione di «procedimento semplificato di cognizione», sia collocato nel libro II del codice e si concluda con sentenza, a sottolinearne la nuova centralità e rilevanza. Prevede, oltre alla possibilità che l’attore vi ricorra di sua iniziativa, che debba essere adottato d’ufficio dal giudice istruttore «in ogni procedimento anche nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, quando i fatti di causa siano tutti non controversi, quando l’istruzione della causa si basi su prova documentale o di pronta soluzione o richieda un’attività istruttoria costituenda non complessa», aggiungendo, rispetto alla sua regolamentazione, esclusivamente che sia «disciplinato mediante l’indicazione di termini e tempi prevedibili e ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario per lo svolgimento delle difese e il maturare delle preclusioni, nel rispetto del contraddittorio fra le parti».

Se la cancellazione del rito sommario si esponeva a critica in un rito che rimaneva assai contorto e macchinoso come quello previsto nell’originaria versione Bonafede, davvero non si comprende che necessità vi sia di conservare oggi due riti che sarebbero, sostanzialmente, entrambi diretti a consentire al giudice di decidere già alla prima udienza, senza una effettiva differenza in termini di durata del processo e un risparmio di attività. È abbastanza evidente, difatti, che se in prima udienza, dopo il deposito degli atti introduttivi e diverse memorie istruttorie, il giudice valuti che «i fatti di causa siano tutti non controversi» o che «l’istruzione della causa si basi su prova documentale o di pronta soluzione o richieda un’attività istruttoria costituenda non complessa», anche col rito ordinario potrà procedere a decidere la causa, eventualmente con discussione orale, senza che il mutamento del rito comporti il minimo vantaggio.

Nel precario coordinamento fra ddl originario e novità dell’ultima ora, non è chiaro peraltro quali termini potrebbero essere «ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario», visto che nel rito ordinario i termini istruttori saranno già decorsi prima dell’intervento del giudice e che, anche nel rito ordinario, non saranno – se non erro – più concedibili quelli oggi previsti ai sensi dell’art. 183, sesto comma, cpc, mentre il giudice potrà sempre disporre la discussione orale e, in caso di trattazione scritta, concedere quelli per memorie conclusionali che sono comunque sempre riducibili a piacimento dal giudice. Sembrerebbe, dunque, che solo in caso di scelta del rito semplificato da parte dell’attore o di materie per cui il rito semplificato è imposto dalla legge vi siano dei termini che potrebbero essere «ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario» (quelli ante udienza di comparazione). 

A prima lettura, sembrerebbe, in buona sostanza, che non vi sia più alcuna effettiva differenza fra i due riti, sicché sfugge la ratio della sua stessa previsione.

 

3.10. La legge delega prevede, ancora, che nel corso del giudizio di primo grado, nelle controversie che hanno ad oggetto diritti disponibili, il giudice possa pronunciare una ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate, nonché ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta «quando quest’ultima è manifestamente infondata ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito dall’articolo 163, terzo comma, numero 3), del codice di procedura civile ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al numero 4) del predetto terzo comma». È previsto in entrambi i casi che l’ordinanza sia reclamabile e «non acquisti efficacia di giudicato ai sensi dell’articolo 2909 del codice civile, né possa avere autorità in altri processi» e che, in caso di accoglimento del reclamo, il procedimento di merito prosegua davanti a un magistrato diverso appartenente al medesimo ufficio. 

A prescindere dall’evidente contraddizione fra la previsione di un rito tendenzialmente a udienza unica e la previsione di ordinanze interlocutorie, quasi che lo stesso legislatore non creda nell’efficacia acceleratoria della sua riforma, non è chi non veda come le controversie menzionate dalla norma (quelle dove «i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate», oppure dove la domanda proposta «è manifestamente infondata» ovvero è nulla) rappresentano esattamente le domande per cui, più verosimilmente, il giudice potrà invitare le parti a precisare e discutere la causa a prima udienza, senza che la redazione di una ordinanza provvisoria possa suggerire un qualche significativo risparmio di tempo

Al contrario, la sua reclamabilità al Collegio e, addirittura, la sottrazione del processo al suo giudice naturale sono forieri di confusione, di perdita di tempo e, forse, anche di profili di sospetta illegittimità costituzionale.

 

3.11. Come si è detto, non solo la fase di trattazione risulta anticipata rispetto all’intervento del giudice, ma la legge delega prevede persino un’attività istruttoria precedente allo stesso inizio della causa. 

Il quarto comma dell’articolo unico della legge delega prevede difatti la possibilità di svolgere attività istruttoria, denominata «attività di istruzione stragiudiziale», consistente «nell’acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti in relazione all’oggetto della controversia» e nella «richiesta alla controparte [sic!] di dichiarare per iscritto, ai fini di cui all’articolo 2735 del codice civile, la verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte richiedente» con successiva «utilizzabilità delle prove raccolte nell’ambito dell’attività di istruzione stragiudiziale nel successivo giudizio».

L’intento sarebbe, ancora una volta, quello di accelerare i processi sottraendone spezzoni al controllo del giudice.

La regolamentazione della detta «attività di istruzione stragiudiziale» appare, tuttavia, assai lacunosa.

A tale riguardo, la legge delega parla assai genericamente di «garanzie (…) per le modalità di verbalizzazione», ma non è chiaro se sarà prevista la necessaria articolazione mediante capitoli (oppure come si individui in caso contrario il tema della prova), né è chiaro in che termini sarà richiesto un preventivo accordo fra le parti (su ogni singolo capitolo?). Non si comprende, inoltre, come si eviteranno prove generiche, valutative, contrarie a scritture, e come si risolva l’eventuale disaccordo fra le parti. 

Per l’ipotesi in cui i terzi rifiutino di rendere dichiarazioni, la legge delega prevede «in tal caso» l’intervento del giudice al fine della loro acquisizione, ma nulla dice sulla soluzione di eventuali conflitti sulla ammissibilità della prova, sulla capacità del teste, sul modo di proporre una domanda. Anche a immaginare un intervento più incisivo del giudice, non si comprende come si possa dichiararle irrilevanti, se non vi sono ancora atti introduttivi che definiscano il thema decidendum e probandum (né è chiarito come si individui il giudice competente, posto che non vi sono ancora atti introduttivi, né come si eccepisca e risolva l’eventuale incompetenza o carenza di giurisdizione).

La legge delega prevede, come detto, l’utilizzabilità delle prove orali così acquisite «salva la possibilità per il giudice di disporne la rinnovazione», ma, immagino, anche di dichiararle inammissibili e/o inutilizzabili (in blocco? O anche espungendo singole dichiarazioni?) quando siano valutative, ridondanti, in violazione di preclusioni o quando il teste sia incapace. Non è chiaro, peraltro, cosa accada quando il giudice dichiari l’inutilizzabilità della prova e la sua rinnovazione: chiederà alle parti di formulare i capitoli, li formulerà lui stesso, le parti depositando le prove acquisite stragiudizialmente dovranno formulare comunque – nelle memorie ante udienza, a pena di decadenza! – un capitolato per l’ipotesi di rinnovazione? 

La legge delega prevede che alla detta istruttoria stragiudiziale debbano partecipare tutti gli avvocati che assistono le parti «coinvolte (…) in relazione all’oggetto della controversia», ma mal si comprende cosa accada se, una volta iniziata la causa, dovessero risultare più parti (più convenuti, più terzi chiamati), sicché andrà chiarito se le prove così raccolte saranno del tutto inutilizzabili, oppure se lo saranno solo per le parti non inizialmente coinvolte, restando utilizzabili per le altre (con una pericolosissima complicazione del processo).

In ogni caso, a nessuno sfugge la differenza fra una valutazione ex ante di inammissibilità di un capitolo di prova e la valutazione di non utilizzabilità ex post di eventuali lunghe prove orali contenenti giudizi valutativi o dirette a provare patti aggiunti o contrari a un contratto scritto. È facile immaginare l’aggravio di lavoro per il giudice e gli effetti indiretti di una prova che, seppure dichiarata inutilizzabile, resti agli atti del processo (basti pensare alla deposizione che davanti al giudice assuma contenuto opposto a quella raccolta in sede stragiudiziale).

Oltre alle incertezze applicative e al disagio per un ulteriore carico per il giudice, il quale dovrà leggere pagine e pagine di prove orali, per magari poi disporne comunque la rinnovazione, o potrebbe essere chiamato a dirimere complessi conflitti già prima dell’apertura del processo, appare a mio avviso evidente la deroga al principio di immediatezza (e di concentrazione), con una ulteriore complicazione di un meccanismo processuale già sufficientemente delicato. V’è da dire, d’altra parte, del prevedibile limitatissimo impatto di tale misura, non solo per il valore ridotto delle cause coinvolte (come detto, sino a euro 50.000), ma anche e soprattutto per la scarsa verosimiglianza di accordi su capitolati concordati (ma quale avvocato, mi chiedo, consentirà che il proprio assistito sia interrogato per provocarne la confessione?).

In buona sostanza, a me pare che la riforma, ove applicata, sia destinata non a semplificare, ma ad aggravare il lavoro del giudice e, in ultima analisi, ad appesantire il processo e allungare i suoi tempi.

 

3.12. Pur essendo oggetto di un altro commento, vorrei concludere questa parte relativa ai rilievi critici con un brevissimo cenno, esclusivamente dal punto di vista del giudice di primo grado, sulla introduzione del cd. rinvio pregiudiziale[31]

Al riguardo, al di là dei numerosi rilievi tecnici[32], a me pare che tale nuovo strumento rischi di non tenere conto del valore culturale della giurisdizione e di sottovalutare il contributo che l’elaborazione della giurisprudenza di merito, e della dottrina che con essa dialoga, fornisce alla Corte di cassazione nello svolgimento della sua funzione nomofilattica. Rischia di sacrificare, sull’altare della speditezza e dell’efficienza (peraltro con risultati assai dubbi, a partire dal rischio di sospensione del processo ogniqualvolta il giudice pensi, a ragione o a torto, di avere dinnanzi una questione giuridica complessa), l’altrettanto rilevante esigenza di un diritto aderente alla evoluzione della realtà sociale e economica. Una realtà sempre più complessa e in rapido mutamento, caratterizzata da fenomeni che trascendono i confini nazionali (penso a tutta la vicenda, apertissima, della gestione dei social network, dell’e-commerce, della tutela dei consumatori nel mercato globale, delle nuove famiglie, delle grandi migrazioni, del diritto alla protezione internazionale, per fare solo qualche esempio), la quale necessita, a mio avviso, dell’approfondimento culturale proveniente dalla giurisprudenza di merito. La possibilità per il giudice di ricorrere alla Suprema corte in ogni caso in cui una questione di diritto gli appaia come di particolare importanza e gli presenti gravi difficoltà interpretative, e sia suscettibile di porsi in ulteriori controversie, espone al rischio di continue sospensioni e, soprattutto, di rifugio nel conformismo giudiziario

Vedo il pericolo, in buona sostanza, di un impoverimento della giurisprudenza della stessa Cassazione, non più preceduta dalle riflessioni dei giudici di primo e secondo grado, e il pericolo di una gestione troppo accentrata e verticistica della giustizia civile, sicché avrei limitato, quantomeno allo stato e in via sperimentale, tale strumento alle sole questioni di rito, dove è invece supremo il valore della certezza delle regole del gioco e dunque utile che la Cassazione detti da subito una precisa e stabile linea interpretativa di ogni incerta novità introdotta dal legislatore.

 

4. Verso il fallimento del PNRR in materia di giustizia civile?

Più che di riforme radicali del codice, avremmo forse avuto bisogno di tornare ai suoi principi cardine, quelli indicati dai padri della procedura civile e che sono peraltro i medesimi principi condivisi nei sistemi processuali che raggiungono risultati migliori dei nostri: oralità, concentrazione e immediatezza.

Oralità, lo sappiamo, significa meno atti e una discussione vera fra giudice e parti. L’art. 180 cpc dice che «la trattazione della causa è orale», ma la norma (la Muendlichkeit presente anche negli altri codici europei) qui da noi non è stata mai presa sul serio e la nostra realtà è spesso quella di un processo interamente, o quasi, scritto. Siamo affogati dagli atti scritti. Non ha risolto il problema avere trasferito gli atti scritti, spesso centinaia di pagine, dal cartaceo al formato informatico (che, delle due, li rende persino meno fruibili). A mio avviso avremmo avuto bisogno, invece, di eliminare, quando è possibile, la trattazione scritta e di tornare all’oralità sancita dal codice, con un rito che consenta al giudice di modulare l’eventuale trattazione scritta soltanto se e quando indispensabile in ragione dell’effettiva complessità delle questioni in fatto e in diritto dedotte dalle parti.

Concentrazione significa, in buona sostanza, come accade in altri ordinamenti, processo tendenzialmente in unica udienza. Abbiamo bisogno di un processo nel quale un giudice preparato e che ha studiato a fondo gli atti possa discutere già alla prima udienza la causa oralmente con le parti e con i difensori (presenti e preparati, non dunque con loro sostituti che magari ignorano gli atti, spediti in udienza da un avvocato oberato da decine di inutili udienze di rinvio), valutando caso per caso se siano necessarie o meno ulteriori memorie. In un processo tendenzialmente a udienza unica, il giudice, i difensori e le parti hanno la consapevolezza che in quel giorno e a quell’ora si terrà il loro processo (sicché converrà essere sempre presenti e preparati), che la causa sarà discussa e che, tendenzialmente, il giudice la deciderà.

Immediatezza significa, quantomeno, evitare in tutti i modi e a ogni costo che un processo passi da un giudice all’altro, considerando una vera iattura che una causa passi di mano, rendendo inutile tutto il dialogo già instaurato fra le parti e il giudice, con una dannosa perdita di tempo e di conoscenze.

L’idea contenuta nella legge delega di valorizzare la prima udienza, di introdurre anche nel nostro Paese un rito che consenta, tendenzialmente, la definizione dei processi in unica udienza, è a mio avviso da apprezzare. Si tratta, anzi, dell’unica riforma del rito effettivamente utile, se vogliamo davvero portare la nostra giustizia civile in Europa. 

Mentre i nostri colleghi d’Oltralpe, giudici e avvocati, studiano le carte tendenzialmente una volta sola, in occasione dell’unica udienza, spesso raggiungendo già in questa sede la conciliazione o emettendo la decisione, noi torniamo a studiare e ristudiare le carte di tutti i processi più e più volte (alla prima udienza, all’ammissione delle prove, alla loro assunzione, al momento della decisione), spesso con intervalli di mesi o di anni, esaminando ogni anno centinaia e centinaia di atti in più e ritrovandoci, infine, con ruoli intasati e spesso ingestibili. Oppure, peggio ancora, giudici così oberati sono costretti a rinunciare a uno studio approfondito di ogni causa prima di ogni udienza, finendo col rinviare la valutazione di ogni aspetto al momento conclusivo della decisione, rinviando le decisioni interlocutorie, ammettendo le prove orali senza un effettivo vaglio, con una ulteriore, inaccettabile, lievitazione delle carte e delle attività istruttorie. La definizione dei processi “tendenzialmente a udienza unica”, è opportuna e anzi indispensabile, dunque, non tanto perché contrae i tempi del processo o riduce i termini, ma perché consente al giudice di studiare le cause una volta sola. Non tutte le cause, ma la maggioranza.

Tuttavia, a parte i rilievi critici che, forse, potranno trovare una qualche risposta in sede di esercizio della delega, va detto che la riforma del rito, per comune opinione, non basta e, anzi, in carenza di riforme altrettanto radicali sugli aspetti organizzativi del sistema della giustizia civile è, verosimilmente, destinata al fallimento.

Chiunque frequenti un tribunale italiano sa, difatti, che la durata spropositata dei nostri processi non è dovuta certo alla estensione dei termini (di comparizione, o di quelli istruttori ex art. 183, sesto comma, o al calcolo dei termini ex art. 190 cpc in avanti o a ritroso), ma al tempo lunghissimo, a volte di anni, che trascorre fra l’assegnazione di un termine e l’altro, fra il momento in cui una causa è matura per essere decisa e il momento in cui il giudice ha il tempo materiale per scrivere la sentenza (il cd. “collo di bottiglia”).

Come avevo evidenziato nel commento del 2020 («La lepre e l’anatra (…)»), l’ennesima riforma del rito sembra fondata su un evidente fraintendimento, da parte del legislatore, delle ragioni più profonde dei ritardi della giustizia italiana[33]. Si possono abbreviare i termini, si può chiedere a giudici e avvocati di fare più in fretta, lusingandoli o magari intimidendoli, ma se l’agenda è piena per i prossimi uno o due anni, non c’è modo di anticipare autoritativamente e con un tratto di penna il momento della decisione. Detto altrimenti: se un’automobile è in mezzo a un ingorgo, è inutile sollecitare il pilota a fare più in fretta e a premere sull’acceleratore, intimandogli di sbrigarsi o magari minacciandolo, perché è necessario che chi è tenuto a occuparsi della circolazione liberi innanzitutto la strada dal traffico.

 

5. Una visione alternativa: puntare sulla riorganizzazione del sistema giustizia civile

Al di là delle critiche al progetto di riforma del rito, proverò in questa ultima parte ad abbozzare qualche proposta che non riguarda il rito, ma profili organizzativi.

Si tratta, com’è ovvio, di idee e proposte che porgo all’attenzione del lettore come meri spunti per un dibattito comune. Certo non proposte definitive, ma piuttosto primi abbozzi che vanno meditati, emendati e arricchiti, in un necessario dialogo che dovremmo intraprendere nelle prossime settimane fra gli operatori della giustizia civile, mentre il Governo si appresta a concludere questa riforma, con l’obiettivo di accompagnarla a ulteriori misure dirette a raggiungere il comune obiettivo di ridurre l’arretrato e rendere il sistema più aderente agli standard europei.

 

5.1. Maggiore specializzazione

In un’epoca sempre più complessa, anche la realtà giuridica è sempre più complicata e necessita di una elevata conoscenza specialistica delle questioni, di fatto e di diritto, che si pongono nei diversi settori della vita e dell’economia. Non è più il tempo per un giudice o un avvocato onniscienti, esperti in ogni campo del diritto.

Va contro la necessaria specializzazione la cd. decennalità, per cui ogni giudice civile è costretto ad abbandonare una materia dopo averla a lungo studiata, perdendo una professionalità costruita in anni di esperienza e formazione. L’attuale divieto per il giudice civile di cognizione di restare nel ruolo più di dieci anni è privo, a mio avviso, di qualsiasi giustificazione e razionalità (e, infatti, non l’ho riscontrata in altri ordinamenti di cui ho notizia). A differenza, forse, di altri ruoli in magistratura, il giudice civile di cognizione ordinaria non può costruire alcun “pericoloso” accentramento di potere, poiché decide negli anni processi che riguardano parti sempre differenti. Superare tale inutile divieto consentirebbe di conservare le professionalità e di evitare che interi ruoli passino da un giudice all’altro, creando evidenti disfunzioni, in aperta violazione del principio di immediatezza.

Va contro ogni esigenza di specializzazione anche la composizione delle sezioni civili con cinque, sei, sette o addirittura dieci giudici, tutti competenti insieme per un amplissimo numero di materie e con scarse possibilità di coordinamento e accordo sulle linee interpretative. Mentre nei tribunali grandissimi è possibile creare comunque molte sezioni civili, così che ognuna può occuparsi di materie omogenee, nei tribunali medi o peggio ancora in quelli piccoli, l’attuale organizzazione in “ipersezioni” composte da cinque, sei, sette o persino dieci giudici impedisce una razionale distribuzione delle materie. Gli stessi giudici sono chiamati a studiare troppe questioni, spesso del tutto disomogenee, con una evidente dispersione di energie. Prendendo esempio da altri ordinamenti, e ribaltando la previsione ordinamentale che impone un numero minimo di giudici per sezione, dovrebbe essere possibile riorganizzare le sezioni dei tribunali prevedendo che ogni sezione civile sia composta da tre giudici (salvo, ovviamente, la necessaria correzione quando il numero di giudici addetti al contenzioso civile ordinario non sia multiplo di tre).

Tre giudici che si dedicano senza limite di decennalità a una materia assai limitata (solo famiglia, solo alcuni tipi di contratto, etc.) possono raggiungere un elevatissimo livello di specializzazione e di esperienza e possono assicurare migliori risultati sotto il profilo della qualità, della celerità e della prevedibilità delle decisioni. Non è neppure da sottovalutare il benefico effetto di un radicale ridimensionamento degli incarichi semidirettivi, che perderebbero gran parte del loro peso attuale (un bel colpo al carrierismo). Una riforma che consentirebbe di sfruttare tutte le potenzialità del rafforzamento dell’ufficio per il processo con le annunciate 16.000 assunzioni di soggetti, più competenti e più stabili rispetto agli attuali tirocinanti.

Ai fini di un razionale utilizzo delle risorse, mi pare indispensabile, inoltre, che a livello centrale (Csm) si determinino i differenti “pesi” delle varie materie (tanto del contenzioso ordinario che della volontaria giurisdizione, etc.). Ogni giudice sa bene che dieci cause di separazione consensuale o di occupazione senza titolo non hanno lo stesso “peso” di dieci cause di appalto pubblico o di diritto societario. Come accade in altri ordinamenti, è necessario definire il “peso” delle singole materie, così da orientare, pur con la necessaria flessibilità, la ripartizione dei carichi a livello locale e di verificare in modo più razionale l’andamento e la produttività degli uffici, anche ai fini del monitoraggio nazionale della pianta organica degli uffici giudiziari[34].

Mi pare indispensabile, ancora, assicurare una comunicazione costante fra i diversi gradi di giudizio: è indispensabile, ad esempio, che ogni giudice abbia conoscenza dell’esito del processo dopo il deposito della sua sentenza. È in effetti sconcertante che nessuno comunichi al giudice italiano se la sua decisione è stata confermata o riformata. Potremmo continuare a commettere tutta la vita lo stesso errore (anche su una questione di dettaglio, la decorrenza degli interessi o la liquidazione di un certo tipo di danni) senza che nessuno ce lo segnali mai. La lettura della sentenza che ha confermato o riformato il proprio lavoro è vitale e uno stimolo imprescindibile per la costruzione della propria professionalità, né limita in alcun modo la libertà del giudice di, consapevolmente e motivatamente, dissentire dagli indirizzi del giudice di grado superiore. Basterebbe stabilire che venga trasmessa d’ufficio al giudice estensore copia della sentenza che conferma o riforma la sua decisione (l’uso degli strumenti informatici lo consente senza alcun costo).

L’esigenza di maggiore formazione e specializzazione non concerne, a mio avviso, la sola magistratura. Sarebbe assai utile prevedere l’obbligatorietà del tirocinio presso gli uffici giudiziari per l’accesso all’avvocatura (e, reciprocamente, un periodo di tirocinio del futuro magistrato presso uno studio legale) al fine di garantire una formazione più condivisa e una migliore reciproca comprensione delle rispettive esigenze. Nei Paesi in cui il percorso di formazione di giudici e avvocati è in larga misura comune, la collaborazione e la fiducia reciproche, nel rispetto delle diverse funzioni, agevolano una più efficiente gestione di una macchina che, comunque, si muove solo se vi è collaborazione fra i diversi attori.

Mi pare assai utile, inoltre, che la legge delega preveda la revisione del sistema di funzionamento degli albi dei consulenti tecnici, la previsione di una più attenta e continua formazione (come ben sappiamo, un buon tecnico non è necessariamente un consulente capace di gestire la complessa dinamica del sub-procedimento e di fornire al giudice e alle parti la risposta più utile ai fini della decisione o della conciliazione) e la creazione di un albo nazionale unico[35]. Al riguardo sarà fondamentale verificare come sarà esercitata la delega. Seguendo quanto introdotto in alcune realtà locali, sarebbe a mio avviso importante introdurre altresì – senza necessità per questo di una delega legislativa, trattandosi di questioni meramente amministrative – una modalità di verifica dell’attività dei consulenti attraverso, ad esempio, la comunicazione da parte del giudice al gestore dell’albo, al momento del deposito della relazione del ctu o al momento della decisione, di un sintetico giudizio sul suo elaborato (magari mediante ricorso a un voto, riservato ma visibile per gli altri giudici).

 

5.2. Rivedere la nostra professionalità: il giudice (e l’avvocato) conciliatore

Negli ultimi anni, il legislatore ha segnalato il suo interesse per soluzioni alternative delle controversie, non solo in sede stragiudiziale (mediazione, negoziazione assistita), ma anche in corso di causa, ad esempio attraverso l’introduzione della proposta del giudice ai sensi dell’art. 185-bis cpc e degli effetti del rifiuto ingiustificato di una proposta transattiva sulle spese di lite ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cpc. Si tratta di istituti che, là dove sono stati utilizzati in modo diffuso, hanno dato ottimi risultati. 

Non v’è dubbio, tuttavia, che restiamo tuttora molto ancorati all’idea di un giudice “cultore del diritto” e “interprete della regola astratta”, spesso poco disposto a farsi coinvolgere in una attenta analisi dei concreti interessi in gioco. In Europa tende ad affermarsi invece l’idea di un giudice del caso concreto, che cerca e propone soluzioni pratiche formulando proposte conciliative in gran parte delle cause (in Germania l’80% dei processi si chiude con la conciliazione delle parti, sicché la quantità di sentenze, e di appelli, si riduce drasticamente, favorendone, invece, la qualità).

Al fine di sostenere questo mutamento, è indispensabile innanzitutto modificare i criteri di valutazione e di verifica dell’attività del giudice, che non può basarsi sul numero di sentenze emesse, ma sull’andamento del suo ruolo e sulla durata media dei suoi processi. Paradossalmente, è un buon giudice quello che, senza fare aumentare il ruolo o magari facendolo diminuire, riesce a scrivere poche sentenze. Perché solo una causa conciliata non produrrà, con certezza, ulteriori gradi di giudizio. Che la valutazione del giudice passi per il numero di sentenze è un ingiustificabile anacronismo, causa di evidenti disfunzioni (il giudice che muta il rito da ordinario a sommario, o che concilia una causa, rischia una valutazione peggiore di quello che muta il rito da sommario a ordinario, che non concilia mai o che magari emette sentenze parziali).

Parimenti, credo che l’attività di conciliazione dell’avvocato debba essere sostenuta e premiata. Tempi più distesi fra la notifica dell’atto introduttivo e la prima udienza possono consentire una interlocuzione fra i difensori e, come detto, potrebbe anche prevedersi che tali tempi si dilatino ulteriormente se le parti lo necessitano, così da favorire la trattativa prima del processo e giungere all’udienza quando l’intervento del giudice sia giudicato indispensabile (evitando a questi di studiare inutilmente una causa che è già sulla via di un accordo). 

Andrebbe introdotta anche in Italia la restituzione, anche integrale, del contributo unificato in caso di conciliazione (una piccola spesa che può contribuire a un grande risparmio). 

Andrebbe assicurato che il difensore percepisca un congruo compenso in caso di accordo, non inferiore ma anzi significativamente superiore a quello che avrebbe percepito se la causa fosse giunta in decisione. È necessario prendere laicamente atto che nel processo non vi sono solo gli interessi delle parti, ma anche quelli dei professionisti, con la conseguenza che, se si chiede agli avvocati collaborazione nella ricerca di soluzioni conciliative, va riconosciuto il legittimo interesse a un congruo compenso.

So che è impopolare suggerire una ennesima revisione dei parametri per la liquidazione dei compensi degli avvocati (già modificati due volte nell’ultimo decennio, nel 2012 e nel 2014), ma la previsione di parametri fissi per valore della controversia, che prescindano dalle singole fasi, consentirebbe di prevedere con precisione il costo del processo, favorendo così le soluzioni conciliative (peraltro, una revisione dei parametri forse si impone, atteso che la “fase introduttiva” risulta del tutto trasfigurata, con la previsione di ulteriori due memorie per parte). Lamentiamo spesso il deposito di troppi atti e di scritti troppo lunghi, e tuttavia troppo spesso nella liquidazione del compenso il giudice è indotto, a mio avviso erroneamente, a liquidare di più se vi sono più atti (ad esempio, liquidando meno se il difensore non ha depositato le memorie istruttorie o le memorie conclusionali); per contro, la liquidazione dovrebbe tener conto esclusivamente della efficacia della difesa, delle due premiando la concisione, la sinteticità e la scelta di limitare il deposito agli atti davvero necessari (in questo senso si esprime il «Protocollo sugli atti processuali» approvato lo scorso maggio dall’Osservatorio bolognese sulla giustizia civile). Per superare queste evidenti contraddizioni, potrebbero ripensarsi i parametri (ripartiti, come noto, dal dm n. 55/2014 in quattro fasi - studio, introduzione, trattazione e decisione - non più confacenti a un processo tendenzialmente a udienza unica) facendo sì che a ogni fascia di valore della causa corrisponda un, congruo e soddisfacente, valore fisso dei compensi. Il giudice potrebbe limitarsi, allora, a indicare, in dispositivo, il valore della causa e se vi è compensazione, parziale o integrale, mentre la liquidazione conseguirebbe automaticamente dai parametri fissi.

 

5.3. Ridurre i carichi

Dobbiamo dirci con franchezza che l’obiettivo di una durata ragionevole dei processi non può essere perseguito se non si alleggerisce il carico di lavoro. È materialmente impossibile studiare e decidere le cause in prima udienza se il ruolo del contenzioso ordinario supera una certa soglia o se il giudice è oberato da mille altri impegni.

Si pone, quindi, il tema ineludibile delle misure necessarie per una riduzione dei ruoli, che il legislatore propone di affrontare attraverso il ricorso a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie (ADR: “alternative dispute resolution”) e attraverso l’espansione delle competenze del giudice di pace. 

Va accolto con estremo favore il rafforzamento alle ADR, nella consapevolezza, tuttavia, che possono funzionare solo se funziona la giustizia civile, perché le forme alternative e complementari non possono basarsi sulla frustrante considerazione che il sistema giustizia non sarebbe in grado di assicurare in tempi celeri una risposta più giusta. 

Va invece, a mio avviso, respinta con forza la scelta di ridurre la competenza per valore del giudice professionale. L’art. 1, settimo comma, lett. b delega il Governo a «provvedere a una rideterminazione della competenza del giudice di pace in materia civile, anche modificando le previsioni di cui agli articoli 27 e 28 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116», la cui entrata in vigore è stata differita come noto al 31 ottobre 2025[36]. A me pare che l’ulteriore contrazione delle competenze del giudice professionale per le sole cause di valore oltre 30.000 euro[37] (ma già si parla di una ulteriore elevazione del valore) rappresenti una sostanziale e inaccettabile rinuncia al giudice professionale per le concrete istanze di giustizia dei cittadini e delle cittadine (lavoratrici, risparmiatori, consumatori…) che chiedono risposte proprio per vicende di valore non elevatissimo, ma che incidono profondamente sulla loro vita. La percezione della effettività della giustizia è legata proprio alle vicende di minor valore, dove peraltro le persone spesso non hanno le risorse per ricorrere in appello. Il trasferimento di competenze dal tribunale al giudice di pace può dare l’illusione di sgravare il primo (ma le cause ritornerebbero sotto forma di appelli), ma non incide minimamente sul rendimento generale del sistema giustizia, anzi, è certo che il problema, poste le attuali scoperture d’organico del giudice di pace, semplicemente si trasferirebbe dal tribunale a quest’ultimo. Il trasferimento di competenze avrebbe allora, come unico effetto, un divario crescente tra le vertenze economicamente più rilevanti e le altre, secondo una logica del respingimento della domanda di giustizia, dal sapore evidentemente classista.

Altri sono, a mio avviso, i rimedi utili per recuperare risorse senza incidere sulla qualità della giustizia.

È, al riguardo, del tutto condivisibile che la legge delega preveda la riduzione delle cause collegiali, con la previsione che le controversie avanti all’istituendo «tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie» siano svolte con rito monocratico (salvo reclamo avanti al collegio)[38] e indicando quale ulteriore criterio di individuazione delle cause che resteranno collegiali la «complessità giuridica» e la «rilevanza economico-sociale» della materia[39]. Appare nondimeno critica la previsione della riduzione solo per le ipotesi di collegialità previste nel codice di procedura civile[40] e, quindi, non per alcune materie che incidono sul sovraccarico dei tribunali (come, ad esempio, il procedimento ai sensi dell’art. 14 d.lgs n. 150/2011). 

Come avevo sottolineato nei precedenti commenti, credo che sia ormai tempo di accettare che tutte le cause ordinarie di primo grado possono essere decise da un giudice monocratico. L’appesantimento e l’incidenza della collegialità sulla durata dei processi è certa, tant’è che il «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza» espressamente prevede fra i principali obiettivi della riforma della giustizia civile «la riduzione dei casi nei quali il tribunale è chiamato a giudicare in composizione collegiale»[41]. So che eliminare la collegialità nelle cause di famiglia, anche quando sono presenti figli, o nei procedimenti dove sono coinvolte questioni di stato, di cittadinanza, diritti fondamentali, suscita già perplessità, ma a mio avviso si tratta meno di effettive e concrete esigenze processuali, legate alla necessità di assicurare la qualità delle decisioni, che di questioni squisitamente culturali, come se alla collegialità fosse connesso un giudizio di valore. In molti Paesi europei a elevatissima civiltà giuridica le cause di famiglia sono monocratiche (ad Amburgo, ad esempio, la famiglia è monocratica, mentre sono collegiali la responsabilità medica o le locazioni), a dimostrazione che si tratta più di una malcelata, e assai relativa, sottolineatura di valori che di effettive esigenze processuali. Peraltro, il legislatore si è già mosso verso una de-giurisdizionalizzazione della cessazione del matrimonio e dell’unione civile, consentendola in determinate condizioni persino avanti all’ufficiale di stato civile, sicché l’attuale quadro appare in buona misura incoerente. 

È dunque opportuno, a mio avviso, eliminare del tutto la collegialità nelle cause ordinarie di primo grado, riservandola esclusivamente a cause lato sensu di impugnazione di una decisione già assunta da un giudice togato monocratico (dunque, ad esempio, in sede di reclamo).

La necessaria collegialità, intesa non come assunzione formale della decisione, ma come esigenza di uno scambio continuo fra i giudici che si occupano di una materia, potrebbe essere assicurata assai meglio e in modo assai più intenso e proficuo grazie allo snellimento delle sezioni con la previsione di soli tre giudici, la quale consentirebbe, al di là della poco rilevante responsabilità formale per il provvedimento emesso, un dialogo continuo fra i tre membri della sezione e una buona condivisione degli indirizzi e delle stesse decisioni, anche sui casi specifici.

Credo sia anche il caso di ripensare ancora più a fondo la figura del nostro giudice onorario, studiando la delega di spezzoni di attività giurisdizionali minori, quali ad esempio l’emissione dei decreti ingiuntivi (due o tre giudici onorari, magari coordinati da un togato, possono assicurare una corretta applicazione, garantendo persino maggiore uniformità rispetto alla turnazione fra decine di giudici togati). Ognuno di noi, in effetti, può individuare nella propria attività alcune specifiche funzioni, o spezzoni di attività, che potrebbero essere tranquillamente delegate al giudice onorario, già in sede legislativa o comunque in sede locale, tenendo conto delle specifiche esigenze degli uffici (penso a interi settori della giurisdizione volontaria, in materia di fallimento, esecuzione mobiliare e immobiliare, sempre prevedendo forme di coordinamento e di controllo da parte di un giudice togato). In alcune materie un pratico sistema potrebbe essere la previsione di una richiesta di “ripensamento”, con cui il difensore potrebbe chiedere al GOA di confermare o riformare il proprio provvedimento alla luce di specifiche allegazioni, e solo successivamente un diritto di reclamo al giudice togato.

Avrebbe un rilevante effetto processuale e deflattivo adeguare l’importo indicato dall’art. 2721 cc (fermo ancora a un anacronistico «euro 2,58»), prevedendo che la prova per testimoni dei contratti e dei pagamenti non sia ammessa quando il valore eccede un importo più adeguato all’attuale valore della moneta, così da favorire una maggiore rigidità nell’interpretazione del suo secondo comma (che consente di derogare a quel divieto) e dunque maggiore certezza nei rapporti giuridici, con un effetto indiretto anche in materia di lotta all’evasione fiscale.

È indispensabile, ancora, una ricognizione nazionale dei flussi in entrata per ogni singolo ufficio, tenendo conto del “peso” delle materie (indicate dunque a livello centrale), e con l’obiettivo di determinare una pianta organica nazionale dei giudici addetti alla giustizia civile.

 

5.4. Un piano straordinario

Temo, infine, che nell’ambito del PNRR sia necessario riflettere – e qui arriviamo a una questione dolente ma centrale… – sull’opportunità di un piano straordinario per la eliminazione delle cause nei tribunali più afflitti (collocati per la gran parte nel Centro-Sud, ma non solo), verificando, con un’attenta ricognizione sul territorio, il carico per giudice civile nei singoli tribunali e verificando, soprattutto, la qualità delle cause pendenti (essendo noto che vi sono enormi differenze per materia, se è vero che un’enorme parte delle cause pendenti da più tempo, a quanto si dice oltre un milione, sarebbe in un’unica materia, previdenziale, e avrebbe lo stesso convenuto resistente, l’Inps). 

Oltre un certo numero di cause non è possibile un effettivo governo del ruolo e dei singoli processi, né si può sperare che il giudice sia in grado di decidere direttamente le cause che non necessitano di istruttoria e di deciderle comunque subito dopo la chiusura dell’eventuale istruttoria orale. Neppure con la riforma del rito secondo lo schema oggi proposto è possibile perseguire l’obiettivo di tagliare l’arretrato e di portare nei prossimi anni tutti i ruoli italiani entro la soglia europea, dei 150-200 processi civili per ruolo, che è la precondizione perché questa riforma del rito produca effetti solidi e stabili, conducendo il nostro sistema in Europa. 

Avremmo bisogno, dunque, di sbloccare l’ingorgo, di liberare il traffico. 

Possono immaginarsi varie opzioni, diverse da quelle già usate in passato, anche grazie all’attuale disponibilità di fondi straordinari. È forse possibile, ad esempio, pensare che una parte dell’arretrato venga definito da giudici togati, sia in servizio che non più in servizio, e da giudici onorari con specifici requisiti di professionalità, oltre che da avvocati e accademici di elevata professionalità, alla condizione che siano per ciò incentivati e adeguatamente compensati. Solo un adeguato incentivo economico potrebbe consentire di elevare i requisiti di professionalità del decisore e assicurare che non vi sia una perdita di qualità, com’è purtroppo accaduto per analoghi piani straordinari. Si tratterebbe di un investimento non indifferente ma sostenibile, tenuto conto delle risorse oggi a disposizione e, soprattutto, se commisurato all’obiettivo di condurre tutti i ruoli italiani a un’analoga posizione di partenza, sotto una soglia che consenta una effettiva gestione della riforma che viene oggi proposta. Si tratta peraltro, in larga misura, di cause già alla fase della decisione, ma la trattazione e un’eventuale istruttoria potrebbe essere assicurata anche senza dispendiose trasferte grazie alle modalità tecniche sperimentate durante l’emergenza sanitaria. 

Un piano straordinario potrebbe forse centrare l’obiettivo di portare la nostra giustizia civile stabilmente in Europa, soprattutto se accompagnato da meditati rimedi, relativi al rito e a profili organizzativi, diretti a prevenire il pericolo che l’arretrato si ricrei rapidamente. È indispensabile affrontare subito il carico del primo grado di giudizio. Con una sua consistente riduzione, gli effetti sul secondo grado e in Cassazione si produrranno necessariamente negli anni a venire.

Per una seria proposta, sono necessarie un’attenta ricognizione dei carichi e delle forze in campo, e idee serie e ben calibrate. Qualche cosa io credo si possa fare, ma ovviamente non è questa la sede per proposte concrete.

 

6. Conclusioni

Grazie a Radio Radicale, ho potuto seguire nel mese di luglio il congresso di Md di Firenze (seppure febbricitante per la seconda dose vaccinale), godendo in particolare del magnifico intervento di Matilde Betti sulla necessità di muovere verso una giustizia più empatica[42], in cui ho ritrovato tante suggestioni sull’uso dell’argomento empatico a partire dalla giurisprudenza europea e americana[43]. È un tema che mi sta molto a cuore, essendomi formato sulle decisioni delle corti nordamericane e credendo in un approccio giuridico che muova dal riconoscimento delle differenze, a partire da Martha Nussbaum.

Una giustizia più colta, più attenta, più giusta può perseguirsi solo se lasciamo al giudice e alle parti lo spazio e il tempo per una discussione orale vera. Una giustizia più celere, non per questo frettolosa o superficiale, è, paradossalmente, una giustizia che concede più tempo. Ho ricordato più volte il mio breve scambio presso il Tribunale di Amburgo, dove i processi durano sette mesi non al costo di una maggiore superficialità: come ho detto, lì le cause di locazione (non quelle di famiglia) sono collegiali, perché – mi spiegò il gentilissimo presidente – è in gioco il diritto fondamentale all’abitazione; assistetti dunque a un’ approfondita discussione orale dove la conduttrice di un povero appartamento in un palazzo di periferia lamentava che, dopo i lavori realizzati dal locatore, lo spazio tra il wc e il lavandino fosse divenuto troppo stretto (mostrando in udienza, a prova, il tappetino spiegazzato) e al cui esito il Collegio dispose per la settimana successiva la formale ispezione giudiziale dei luoghi, recandosi tutti e tre i giudici (in metropolitana!) a visionare il bagno della signora. Una giustizia civile, dunque, che non si riduce a evasione burocratica di carte, magari davanti a uno schermo e senza alcun contatto personale fra il giudice e i difensori, fra il giudice e le parti. 

Per innovare in profondità il sistema bisogna superare, però, qualche diffuso pregiudizio: bisogna smettere di credere, da parte nostra, che i ritardi di cui soffre la giustizia civile italiana siano inesorabilmente dovuti a un numero di processi in entrata superiore a quello dei nostri vicini (sempre al congresso di Md, Claudio Castelli ha rammentato che il nostro dato è oggi sostanzialmente analogo a quello tedesco[44]) e bisogna smettere di pensare, da parte di chi ci critica, che i ritardi siano da imputare alla “lentezza” degli operatori, giudici e avvocati. È indispensabile analizzare in modo puntuale e articolato le disfunzioni, studiare in dettaglio cosa accade all’estero, guardando alle prassi più che ai codici, e mettere quindi in atto precise soluzioni tecniche, a partire da radicali riforme organizzative e dalla necessaria flessibilità in una moderna logica di case management

Una giustizia civile più efficiente libera risorse e tempo, consentendo di spostare l’accento verso una più attenta protezione dei soggetti fragili, vulnerabili, delle persone più esposte, dei loro e dei nostri diritti fondamentali, sicché una risposta più celere alle istanze di giustizia civile è il primo motore di un sistema più democratico e rispettoso dei diritti di tutte e di tutti. 

Da qui passa la nostra comune, di noi giudici e avvocati, ri-legittimazione davanti all’opinione pubblica.

 

 

*  Questo articolo è un mero aggiornamento di due precedenti versioni pubblicate da Questione giustizia, che hanno seguito il percorso della riforma. Nel marzo del 2020 era stato pubblicato un mio primo commento alla prima versione del ddl n. 1662, voluta dall’allora ministro Bonafede e depositata in Senato il 9 gennaio 2020 (La lepre e l’anatra: il ddl sul rito civile, alcune proposte di modifica e qualche idea alternativa, in questa Rivista online, 10 marzo 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/la-lepre-e-l-anatra-il-ddl-sul-rito-civile-alcune-proposte-di-modifica-e-qualche-idea-alternativa_10-03-2020.php).  A poco più di un anno, nel giugno 2021, il progetto governativo era stato quindi modificato e in parte stravolto dagli emendamenti voluti dalla nuova ministra Cartabia (sulla scia delle proposte formulate nell’ambito della Commissione presieduta da Francesco Paolo Luiso), sicché era stato oggetto di un secondo commento: La riforma governativa del primo grado: il rischio di un suo fallimento e alcune proposte alternative, in questa Rivista online, 14 settembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-governativa-del-primo-grado. Il presente lavoro è dunque una versione rivista alla luce del testo conclusivo in via di approvazione. 

1. Rimando ad altra sede ogni considerazione sulle modalità di elaborazione e discussione di riforme di così ampio respiro e rilievo; per una severa critica riguardo alle modalità di discussione della riforma de qua, vds. G. Scarselli, La giustizia civile al tempo della pandemia (Sulla approvazione da parte del Senato del ddl 21 settembre 2021), in Giustizia insieme , 28 settembre 2021 (www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1955-la-giustizia-civile-al-tempo-della-pandemia-sulla-approvazione-da-parte-del-senato-del-ddl-21-settembre-2021-di-giuliano-scarselli).

2. Ad esempio, in Germania i dati delle statistiche ufficiali del 2007, che riportavo in uno studio a suo tempo pubblicato su Questione giustizia (M. Gattuso, Appunti sul processo civile in Germania, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/2009, pp. 183 ss.), parlano chiaro: in un processo civile nel Landgericht di Amburgo, la sentenza arriva mediamente in 7,6 mesi; a Stoccarda addirittura in 4,7; in Germania risulta fanalino di coda (per così dire) Colonia, con una media di 9,8 mesi per processo; ancora ad Amburgo, nel tribunale inferiore (Amtsgericht, composto anch’esso da giudici professionali competenti per la famiglia, la materia fallimentare e le cause di valore inferiore a 5000 euro), un processo dura in media 4,2 mesi. La ragione non è tuttavia rinvenibile, come si sente ripetere spesso, in un minor numero di cause iscritte annualmente sul ruolo rispetto a quello del giudice civile italiano, ma risiede soprattutto su ragioni organizzative. Nel Landgericht di Amburgo, che è il secondo più grande tribunale tedesco, ogni giudice incamera infatti ogni anno oltre 200 nuovi processi, a fonte dei 212-260 del tribunale civile di Bologna; i giudici del tribunale inferiore (Amtsgericht) superano addirittura i 600 processi iscritti ogni anno per giudice. Dunque numeri che non sono inferiori a quelli italiani e che non giustificano la diversa performance dei due sistemi, posto che la pendenza media per giudice del Landgericht è di soli 133 processi ed è di 247 nell’Amtsgericht (i dati sono del 2008), mentre a Bologna siamo oltre i 300 processi e in molte parti del nostro Paese viaggiamo oltre gli 800-1000 processi pendenti per giudice: dunque ruoli oggettivamente ingestibili. Se la differenza non consegue a una così diversa quantità di processi in ingresso, è allora indispensabile mettersi alle ricerca delle diverse ragioni del flop del nostro sistema di giustizia civile.

3. L’indice di smaltimento dei giudici italiani ha raggiunto infatti uno straordinario 113%, ma come carico sui ruoli l’Italia resta il quintultimo Paese in ambito Ue dopo Malta, Cipro, Grecia e Portogallo, come evidenziato nel 2020 dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia, Cepej, e nella stessa «Analisi di impatto della regolamentazione» che accompagna il ddl 1662.

4. Non mi occuperò, invece, in questa sede delle – importantissime – misure introdotte per i procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie, in quanto oggetto di altro commento. 

5. L’art. 1, quinto comma, lett. e prevede difatti che restino «ferme le preclusioni di cui all’articolo 167, secondo comma, primo periodo, del codice di procedura civile».

6. Art. 1, quinto comma, lett. f.

7. Art. 1, quinto comma, lett. f, seconda parte.

8. Art. 1, quinto comma, lett. i.

9. Art. 1, quinto comma, lett. t.

10. Art. 1, quinto comma, lett. h.

11. Art. 1, quinto comma, lett. g.

12. Art. 1, quinto comma, lett. i, n. 1.

13. Art. 1, quinto comma, lett. i, n. 2.

14. Art. 1, quinto comma, lett. l.

15. Art. 1, quinto comma, lett. l, n. 1.

16. Art. 1, quinto comma, lett. l.

17. Art. 1, quinto comma, lett. s.

18. Art. 1, ventunesimo comma, lett. a

19. Art. 1, ventunesimo comma, lett. b

20. Art. 1, ventunesimo comma, lett. c.

21. Art. 1, quinto comma, lett. m.

22. Art. 1, quarto comma, lett. d.

23. Il principio era enunciato (con il conseguente obbligo di introdurre il relativo avvertimento in atto di citazione) dall’emendamento n. 3.41, che introduceva la lettera c-bis nell’art. 3, comma 1, ddl 1662.

24. Così l’emendamento n. 3.41, che introduceva le lettere c (per l’attore) e c-quater (per il convenuto) nell’art. 3, comma 1, ddl 1662.

25. Sono state abbandonate, dunque, le più articolate proposte suggerite dalla Commissione Luiso, che aveva indicato due opzioni fra loro alternative, sintomo del disaccordo anche all’interno della stessa Commissione: A) il mantenimento del sistema attuale con qualche piccolo ritocco e con il rafforzamento della possibilità per il giudice di indirizzare le cause non complesse verso il rito sommario; B) la previsione dell’anticipazione delle preclusioni istruttorie negli atti introduttivi, con una dettagliata regolamentazione dei termini istruttori concedibili da parte del giudice istruttore per il caso di nuove difese dell’attore conseguenti a quelle del convenuto.

26. Vds. la lettera ai senatori sottoscritta congiuntamente il 2 luglio 2021 dal Cnf, dall’Unione nazionale delle Camere civili e dall’Organismo congressuale forense. Una critica serrata da parte di quasi tutti i relatori anche al convegno «La riforma del processo civile tra garanzie e ragionevole durata», organizzato in giugno dall’Unione nazionale delle Camere civili (www.unionenazionalecamerecivili.it/la-riforma-del-processo-civile-tra-garanzie-e-ragionevole-durata/).

27. Art. 1, quinto comma, lett. g.

28. Art. 1, quinto comma, lett. h.

29. Art. 1, quinto comma, lett. i.

30. Art. 1, quinto comma, lett. l.

31. Art. 1, nono comma, lett. g.

32. Sul rinvio pregiudiziale, vds. B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in Giustizia insieme, 19 giugno 2021 (www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1811-e-opportuno-attribuire-nuovi-compiti-alla-corte-di-cassazione-di-bruno-capponi) e C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, ivi, 22 giugno 2021 (www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1815-in-difesa-della-nomofilachia-prime-notazioni-teorico-comparate-sul-nuovo-rinvio-pregiudiziale-alla-corte-di-cassazione-nel-progetto-di-riforma-del-codice-di-procedura-civile-di-carlo-vittorio-giabardo).

33. Op. cit. Scrivevo in quel commento che, come davanti a una figura della Gestalt (la nota scuola di psicologia cognitiva del periodo di Weimar), dove l’osservatore può vedere una lepre oppure un’anatra, un doppio profilo di donna oppure un vaso, ma mai le due immagini insieme, il legislatore fissa il proprio sguardo sulla durata dei termini processuali, senza “vedere” che tra l’assegnazione di uno e l’altro scorrono sempre mesi e non di rado anni. L’errore di analisi è palese: nel nostro sistema, la lunga durata del processo non è determinata dalla lunghezza dei termini concessi, ma dall’interminabile tempo in cui un processo resta in attesa d’essere deciso perché il giudice (uno dei più produttivi in Europa) è impegnato a definirne altri.

34. Nel sistema che ho visto ad Amburgo, le cause sono assegnate sui ruoli secondo dettagliatissime tabelle che vengono redatte con estrema cura (contenute in un voluminoso tomo), dove i processi contano a seconda della difficoltà della materia (se, ad esempio, alla materia contrattuale ordinaria è assegnato 1, gli appalti pubblici conteranno invece 1,5, altri processi 0,9, 0,8, etc.).

35. L’art. 1, sedicesimo comma, prevede al riguardo la revisione del percorso d’iscrizione all’albo, con la distinzione «delle varie figure professionali, caratterizzate da percorsi formativi differenti anche per il tramite dell’unificazione o aggiornamento degli elenchi, favorendo la formazione di associazioni nazionali di riferimento» e con la previsione di una «formazione continua dei consulenti tecnici e periti».

36. Art. 8-bis del decreto cd. “milleproroghe” (l. 28 febbraio 2020, n. 8, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 51 del 29 febbraio 2020).

37. Ed euro 50.000 per il risarcimento dei danni prodotti dalla circolazione di veicoli e di natanti.

38. Art. 1, ventiquattresimo comma, lett. n.

39. Art. 1, sesto comma, lett. a.

40. L’art. 1, sesto e tredicesimo comma, ha infatti ad oggetto soltanto i decreti «recanti modifiche al codice di procedura civile» e la «disciplina dei procedimenti in camera di consiglio».

41. Nella parte del PNRR dedicata alla riforma della giustizia civile (p. 57), si legge che «Gli obiettivi perseguiti sono: - concentrare maggiormente, per quanto possibile, delle attività tipiche della fase preparatoria ed introduttiva; - sopprimere le udienze potenzialmente superflue e la riduzione dei casi nei quali il tribunale è chiamato a giudicare in composizione collegiale; - ridefinire meglio la fase decisoria, con riferimento a tutti i gradi di giudizio».

42. L’intervento è stato poi trasposto in M. Betti, Quali riforme per una giustizia civile in cambiamento, in questa Rivista online, 23 luglio 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/quali-riforme-per-una-giustizia-civile-in-cambiamento.

43. Suggerisco la lettura dell’ampio studio monografico sul ruolo dell’empatia cognitiva nelle dispute giudiziarie sui diritti umani, dell’amico e maestro Angelo Schillaci: Le storie degli altri. Strumenti giuridici del riconoscimento e diritti civili in Europa e Stati Uniti, Jovene, Napoli, 2018.

44. Anche in questo caso, l’intervento è stato poi pubblicato: C. Castelli, I luoghi comuni da sfatare della giustizia civile, in questa Rivista online, 2 settembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/i-luoghi-comuni-da-sfatare-della-giustizia-civile.