Il tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie della legge delega di riforma del processo civile
Il saggio sottolinea l’importanza e l’opportunità storica della scelta operata dalla legge delega che istituisce il «Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie», come occasione unica, dopo decenni di tentativi di riforma, di cui si tracciano le linee essenziali e le ragioni del loro fallimento, confutando le tesi che ritengono necessario, nella giustizia minorile, un organo collegiale multidisciplinare e una continuità del tribunale per i minorenni, istituito nel 1934, quando i minori e le persone fragili non erano titolari di diritti soggettivi come lo sono ora, con la conseguente necessità di un giudice imparziale e di un processo aperto alle garanzie della difesa e del contraddittorio, anche in relazione ai giudizi scientifici del consulente.
1. I tentativi di riforma del tribunale per i minorenni nel passato e le ragioni del suo fallimento / 2. La duplicazione dei giudici. La sua origine storica / 3. Il problema del giudice consulente: la violazione del principio del contraddittorio / 4. Il problema del contrasto dei giudicati / 5. La disuguaglianza tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio / 6. La necessità indilazionabile di un giudice unico delle controversie sulle relazioni familiari e il problema della collegialità / 7. Le soluzioni della legge delega
1. I tentativi di riforma del tribunale per i minorenni nel passato e le ragioni del suo fallimento
L’emendamento governativo presentato dalla Ministra Cartabia all’originario disegno di legge ispirato dal precedente Ministro della giustizia, contenente delega di riforma del solo processo civile comune, introduce invece una serie di principi direttivi destinati a unificare (e razionalizzare, in funzione delle garanzie del giusto processo) il rito delle controversie sui diritti delle persone, dei minorenni e delle famiglie.
In linea con il progetto di maggior respiro della Commissione ministeriale, presieduta da Francesco P. Luiso, il Senato, grazie all’impulso della Commissione giustizia, ha ampliato, nel disegno di legge approvato dall’aula il 21 settembre 2021 e poi confermato dalla Camera dei deputati il 24 novembre 2021, l’area di intervento del ddl, intervenendo sull’ordinamento giudiziario e avviando, seppure con una prorogatio di due anni, il de profundis del tribunale per i minorenni, le cui competenze vengono nel disegno assorbite, come quelle del tribunale ordinario, in un organo unico specializzato, il «Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie».
Si esaurisce, con la legge delega, una lunga stagione di tentativi di riforma mai giunti all’epilogo legislativo e di cui vanno approfondite le ragioni, per comprendere il presente.
Da sempre si sono manifestati tentativi contrapposti, progetti in una prima fase ispirati dalla magistratura minorile[1], poi anche nell’ambito forense e accademico, come dibattuto in occasione di un importante convegno tenutosi a Cagliari[2].
La progettualità, negli anni sessanta ancora ispirata al modello del tribunale per i minorenni, che avrebbe unificato le competenze, si è espressa, nel periodo più recente, in favore della introduzione di una sezione specializzata del tribunale ordinario[3]. Certamente emblematico, in questa direzione, il progetto Casellati del 2013.
L’idea di una sezione specializzata del tribunale, sul modello adottato per le controversie di lavoro, ha tuttavia incontrato la ferma opposizione e il dissenso della magistratura minorile, mai disposta a cedere sul modello originario, con la sua composizione anche laica[4].
In una posizione equivoca, invece, il ddl delega di ispirazione del Ministro Orlando[5], approvato dalla Camera dei deputati in data 16 marzo 2016 e mai approvato, successivamente, dal Senato, il quale incontrò ostacoli insormontabili per le aspre critiche, ancora, dei magistrati minorili, ma anche delle principali associazioni specialistiche forensi, sino a una presa di posizione critica del Csm del 13 luglio 2013. Il disegno riproponeva modelli del passato, rivestendo solo nominalisticamente il tribunale per i minorenni, denominato «Sezione distrettuale del tribunale ordinario», ma confermandolo sostanzialmente nella struttura e nelle funzioni.
Ma questo progetto, l’ultimo nel tempo, merita un maggiore approfondimento per comprendere le scelte del presente.
Il tribunale per i minorenni cambiava – come detto – solo denominazione, ma assorbiva i giudici togati e onorari dell’antico organo, sino al personale amministrativo, e conservava intatte le competenze (i procedimenti adottivi e la responsabilità genitoriale). L’omonima sezione del tribunale circondariale ereditava semplicemente le competenze già affidate al tribunale ordinario. Cosa mutava del recente passato: nulla; salvo il nomen.
I profili critici erano molti.
La diversità delle competenze confermava il tema dell’attrazione per connessione di domande verso il tribunale circondariale, con tutti i problemi relativi; permaneva la distanza del cittadino dall’organo (è auspicabile al contrario, nella particolare materia, che la parte possa accedere più agevolmente al tribunale circondariale rispetto a quello distrettuale); si conservava all’interno della camera di consiglio l’esperto (art. 2-sexies) al cui parere le parti non possono né potevano contraddire. Veniva poi proposto un rito, per le controversie sulla responsabilità genitoriale presso la sezione distrettuale (art. 2-septies), privo di concreti principi direttivi, che rischiava di abbandonare il processo alla discrezionalità del giudice, se non addirittura alla sua libertà (con una duplicazione dei riti, rispetto alle controversie devolute alla sezione circondariale, veramente incomprensibile).
Su tale disegno di legge le varie categorie professionali tentarono un emendamento unitario, in un tavolo di discussione promosso dal Cnf.
L’estremo tentativo di una composizione delle diverse idee, in quel dibattito degli anni 2016 e 2017 favorito dal Cnf, si concluse con un progetto che incontrò, al termine, ancora la contrarietà dell’Aimmf[6].
Il modello fu il risultato dell’elaborazione, per iniziativa delle principali associazioni forensi specialistiche (in particolare, Osservatorio e “Cammino”; con dei distinguo, anche Aiaf), che hanno approvato un documento di riforma delle competenze – sul modello del giudice di sorveglianza, con la sua articolazione collegiale distrettuale e monocratica circondariale – e del rito, con l’adesione di massima dell’Anm, confluito nel cd. “emendamento Cnf”, fatto proprio dalla relatrice del ddl delega governativo del Ministro Orlando, Sen. Rosanna Filippin, e presentato al culmine della legislatura, ma che perì con il suo termine.
Anche su tale iniziativa, in occasione della quale era stato tentato uno strenuo compromesso con i magistrati minorili, si è manifestata, come si è detto, la contrarietà dell’Aimmf.
Dunque una lunga sequela di tentativi, i quali, ogni qual volta toccavano l’esistenza del tribunale per i minorenni, nato da una legge del 1934, quindi del ventennio, naufragavano inesorabilmente.
2. La duplicazione dei giudici. La sua origine storica
L’incapacità del legislatore italiano, contrariamente a quanto accaduto nella disciplina dei diritti, di offrire un sistema unitario, razionale e sistematico alla giustizia delle relazioni familiari, con un giudice unico specializzato, proponendo al contrario interventi settoriali, frammentari e non coerenti, sulle fondamenta di un’impostazione positiva dovuta al ventennio – la legge degli anni trenta[7], istitutiva del tribunale speciale, e i codici degli anni quaranta – è l’unica plausibile ragione di un giudice minorile e della famiglia sdoppiato: il tribunale per i minorenni e il tribunale ordinario.
L’impianto del ventennio attingeva alla visione intensamente pubblicistica e autoritaria dell’epoca: quella di affidare a un giudice, svincolato da ogni regola processuale e perciò munito della massima libertà nella scelta delle forme, un potere autoritario nella direzione e nello svolgimento del processo e nella determinazione delle regole sostanziali. Si spiega solo così (in quella fase storica) l’uso – significativamente adottato parallelamente nel diritto fallimentare, che si alimentava della stessa visione intensamente pubblicistica, nel diverso ambito dell’economia e della crisi dell’impresa – delle scarne regole del processo a cui attinge la giurisdizione volontaria (il rito camerale ex artt. 737 ss.).
Si tratta di un modello che nella istituzione familiare non vedeva una componente intrisa di valori di libertà, eguaglianza, dignità, solidarietà, educazione e crescita del minore nella società civile, ma caratterizzata, come istituzione gerarchica, dalle prerogative del marito/padre sugli altri componenti e dalla scarsa o quasi inesistente considerazione di interessi meritevoli di tutela in capo al coniuge e, in particolare, ai figli.
Il giudice, come pater familias, avrebbe dovuto sostituire il padre/marito incapace di evitare la dissoluzione o la crisi. La rigorosa gerarchia che “caratterizzava” l’istituzione, sul piano della disciplina sostanziale della famiglia, anteriore alla riforma del 1975, imponeva sul piano processuale una soluzione autoritaria, nel caso di violazione della legge, svincolata dalle regole del giusto processo.
L’impostazione pubblicistica di un giudice pater familias, massima espressione dell’espansione dell’intervento dello Stato nella istituzione familiare, aveva reso necessaria una particolare sensibilità del giudicante per gli aspetti non strettamente giuridici imposti dalla crisi dell’istituzione, verso il profilo psicologico, psichiatrico e medico della crisi dell’unica relazione familiare rilevante all’epoca, quella fondata sul matrimonio.
Si giustificava così l’ulteriore aspetto della giustizia familiare minorile, costituita dalla presenza di un giudice laico, con una originale composizione paritetica del collegio di quattro membri (ciò che offre alla decisione un sapore fortemente compromissorio), di cui due togati e due laici, reclutati, nella disciplina delle origini, con criteri non del tutto coerenti alla specializzazione psicologica e medica[8] che avrebbe dovuto contraddistinguere, in via esclusiva, la componente laica dell’organo.
In tal modo, con un’evidente abilità del legislatore dell’epoca, l’elemento autoritario era “mitigato” dalla componente psicologica e medica, che avrebbe dovuto indurre una particolare attenzione alle conoscenze scientifiche ed extragiuridiche.
Questa matrice storica e ideologica dell’istituzione, pur nell’evidente diverso quadro discendente dall’entrata in vigore, nel 1948, della Costituzione repubblicana e delle leggi di riforma successive, dal 1975 in poi, resta oggi nella persistente continuità di un organo giurisdizionale svincolato da forme processuali e fortemente influenzato dalla componente laica.
Lo sfondo è pure, non lo si deve dimenticare, nella visione “amministrativa” e non “giurisdizionale” delle attività del giudice minorile, così come, in una significativa armonia, si contraddistingueva, prima della riforma degli anni 2006 e 2007, l’attività del giudice nel diritto fallimentare (un giudice snaturato dalle sue funzioni giurisdizionali e proiettato in quelle di amministrazione dell’impresa).
Lo scopo dello Stato era quello di amministrare interessi in ossequio al principio gerarchico di cui era intrisa la famiglia e, paternalisticamente, di imporre soluzioni coerenti con gli interessi pubblici, con conseguente funzione vicaria di giudice pater familias.
Almeno allora l’istituzione si manifestava una piena coerenza tra diritto sostanziale e diritto processuale, come deve essere e come la qualità, ovviamente tecnica, del legislatore dell’epoca favoriva.
In questo quadro, che è quello della legge del 1934 istitutiva del tribunale per i minorenni, si introduceva un elemento di forte contraddizione, già presente negli anni quaranta. Nel segno di una concezione del legislatore non del tutto coerente all’inquadramento amministrativo e non giurisdizionale dell’intervento pubblico nella istituzione familiare: si concedevano infatti spazi al tribunale ordinario in sede giurisdizionale, per alcune controversie che non fossero esplicitamente indicate come affidate al tribunale specializzato dall’art. 38 disp. att. cc.
È la componente “liberale” che, anche nella massima espansione del regime, contraddistinse i giuristi più illuminati.
Ne scaturiva, oltre all’impianto autoritario e paternalistico del tribunale per i minorenni, la ripartizione delle competenze tra due organi giurisdizionali differenti: appunto, il tribunale per i minorenni e il tribunale ordinario (con il suo bagaglio di garanzie processuali).
Questa scelta era indice, quando fu elaborata negli anni quaranta, di un’opzione, già maturata all’epoca, verso un processo più garantistico, quello disciplinato dal rito contenzioso del codice di rito e da un giudice integralmente professionale e certamente coadiuvato da esperti nella scienza medica, psicologica e sociologica, ma nella veste corretta di “ausiliari” e non di “giudici”. In tal modo, il legislatore coglieva l’esistenza in nuce, pur in un quadro di diritto sostanziale molto diverso, di diritti soggettivi meritevoli di tutela giurisdizionale e non solo di un intervento autoritario e amministrativo dello Stato.
Il tribunale ordinario – è bene ripeterlo – che acquisiva così le competenze sulle azioni di status e sul rito della separazione, giudicava in una composizione rigorosamente togata. Vi è da aggiungere che le controversie sullo status o quelle discendenti dalla crisi – la separazione con colpa, non essendo noto all’epoca l’istituto della separazione tout court o del divorzio – attingevano a forme ancor più garantistiche, in quanto volte a mutuare le regole ordinarie della cognizione, senza alcun distinguo particolare.
Ne seguiva, nell’impianto già emergente con il codice di rito del 1940 e il codice civile del 1942, una frantumazione dei giudici competenti, con una diversificazione dei riti, evidente nelle materie affidate al tribunale ordinario.
Questo modello, nato in un contesto ideologico del tutto avulso dalle soluzioni di principio che la Costituzione adotterà nel 1948, è stato nella sostanza mutuato nel sistema di giustizia minorile e familiare attualmente in vigore, mantenendosi la ripartizione delle competenze tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario. Una larga parte delle controversie nascenti dalle relazioni familiari (particolarmente il rito innanzi al tribunale per i minorenni e, seppure in parte, il rito innanzi al tribunale ordinario), è contraddistinta ancora da un rinvio mero alle scarne disposizioni degli artt. 737 ss. cpc, dedicati al rito camerale; resta la composizione paritetica, con il giudice laico, del tribunale per i minorenni.
È evidente che questo modello, aderente all’ordinamento della famiglia che contraddistingueva il ventennio, non può più essere riproposto in un quadro di diritto sostanziale del tutto nuovo, dovuto a un’evoluzione legislativa frenetica, ove il sistema muove dai diritti soggettivi che fanno capo al minore e ai componenti fragili della famiglia e tutto deve rendersi coerente alle garanzie della tutela giurisdizionale dei diritti.
3. Il problema del giudice consulente: la violazione del principio del contraddittorio
La necessità della presenza di un giudice laico nel collegio che decideva e decide la controversia affidata al tribunale per i minorenni, che certamente può avere – ed ha – un significato differente nella parallela esperienza del giudizio penale sui reati del minore, dissoltasi la visione paternalistica e pubblicistica della famiglia con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e delle leggi successive, a partire dal 1975, incontra difficoltà di tenuta sistematica e di principio sempre più evidenti per poter essere conservata, in un’auspicata (e mai praticata, in quasi un secolo) ipotesi di intervento del legislatore nella razionalizzazione e unificazione delle competenze e dei riti del processo sulle relazioni familiari.
Anzitutto, l’esperienza del tribunale ordinario, pure adombrata in modo esplicito, anche nell’impianto pre-repubblicano, attraverso l’art. 38 disp. att. cc, della cui eredità beneficia, per così dire, ancora oggi l’ordinamento, ne è conferma.
Forse che gli accertamenti e le indagini istruttorie nell’ambito della tutela dei diritti del minore sotto il profilo dell’affidamento e del collocamento, e comunque di un diritto pieno alla bigenitorialità, pongono problematiche diverse in sede di separazione e divorzio, rispetto alle stesse problematiche poste dalle controversie sulla responsabilità genitoriale innanzi al tribunale per i minorenni?
Forse la giustizia offerta alle controversie familiari o alla crisi della famiglia dal tribunale ordinario è di diversa qualità rispetto alla giustizia offerta dal tribunale per i minorenni, tanto da rendere giustificata l’esistenza di una diversa composizione dei due organi?
Sono domande intorno alle quali deve essere condotta l’indagine.
Che diversità di una giustizia minorile con il consulente in camera di consiglio e una giustizia ordinaria, che si occupa – si badi bene – della stessa materia, con un consulente fuori dalla camera di consiglio, ausiliario del giudice sottoposto al contraddittorio delle parti? Che differenza tra il processo sulla responsabilità genitoriale, celebrato innanzi all’organo minorile, e il processo in cui si discute di affidamento condiviso o esclusivo e di rapporti tra genitori e figli, innanzi al processo ordinario, senza dimenticare la competenza attrattiva dello stesso art. 38 disp. att. cc nell’attuale versione?
Certamente la materia delle relazioni familiari necessita, più di ogni altra, dell’ausilio di cognizioni extragiuridiche, per le forti implicazioni personali e psicologiche del conflitto, ma tale profilo, su cui vi deve essere sempre piena consapevolezza del giudicante, è risolto innanzi al tribunale ordinario in maniera corretta: l’accesso alle nozioni extragiuridiche di natura psicologica e medica nel giudizio avviene attraverso l’ausiliario del giudice, il consulente, il quale offre, attraverso la relazione peritale a cui viene incaricato, quegli elementi diversi dal diritto che il giudice intende utilizzare per dettare la regola concreta di comportamento alle parti, in cui si sostanzia il giudicato.
Tale impostazione, corretta sul piano dell’opportunità, lo è probabilmente anche sul piano della costituzionalità e dei principi.
Senza voler invocare il principio di razionalità ed eguaglianza dell’art. 3 Cost. (come può un sistema giuridico stabilire due pesi e due misure per lo stesso oggetto di giudizio?), vi è da considerare l’implicazione di quel principio, cardine del processo, che è il contraddittorio, disciplinato nell’art. 24 Cost. e, soprattutto, nell’art. 111 Cost.
L’impostazione confuta altresì la tesi, ripetuta in maniera un po’ stereotipata, sulla maggiore propensione del tribunale dei minorenni verso la tutela del minorenne rispetto al tribunale ordinario, che sarebbe più adatto al conflitto familiare tra coniugi.
L’ingresso nel processo alle nozioni tecniche e scientifiche necessarie nelle forme più corrette, sul piano dei principi e delle garanzie, della consulenza, rispetto alla quale si esprime il contraddittorio delle parti, sia nella formazione della relazione peritale e sia, al suo termine, nei suoi contenuti finali, rende necessario superare il modello del tribunale per i minorenni.
Un contraddittorio che si conduce in coerente linea con il diritto di difesa e che oggi, dopo la legge n. 69 del 2009, assume forme procedimentali molto peculiari (vds. art. 195 cpc).
Se sulla rilevazione officiosa della quaestio facti si deve condurre necessariamente, a pena di nullità, il contraddittorio delle parti, non è dubitabile che il contraddittorio si debba esprimere sulla formazione e sui contenuti finali delle regole extragiuridiche espresse dall’esperto, qualora il giudice in camera di consiglio intenda fondare su di esse il giudizio finale.
L’emersione solo in sede di camera di consiglio, in mancanza del contraddittorio delle parti, di una valutazione tecnica della controversia, è caso evidente di violazione del principio del contraddittorio, potendone discendere una “via” scelta dal giudice, sulla quale le parti non si sono potute confrontare e ciò particolarmente in una formazione del collegio dove il giudice esperto di diritto è presente come componente paritetica rispetto al giudice-consulente tecnico.
La riprova si coglie in una norma, ispirata dai codificatori del 1940, che dimostrano, almeno nel processo comune, un’invidiabile sensibilità verso le garanzie processuali, ovvero l’art. 197 cpc: «quando lo ritiene opportuno il presidente invita il consulente tecnico ad assistere alla discussione davanti al collegio e ad esprimere il suo parere in camera di consiglio in presenza delle parti, le quali possono chiarire e svolgere le loro ragioni per mezzo dei difensori».
Quando il legislatore del processo comune consente al consulente l’accesso alla camera di consiglio, ovvero al luogo nel quale si forma il giudizio, ad esso devono accedere anche le parti, per il sacrosanto (costituzionale) diritto di contraddire alla relazione tecnica che il consulente offre al giudice.
L’art. 197 cpc, ma probabilmente anche l’art. 101, comma 2, cpc, sul contraddittorio in relazione alle questioni che rileva l’ufficio[9], e il suo antenato, l’art. 384, comma 3, cpc, preceduto da alcune fondamentali pronunce del giudice di legittimità[10], sono la base coerente ai principi costituzionali di una regola che rende inconcepibile l’accesso del giudice laico, ovvero del consulente tecnico, alla camera di consiglio senza il contraddittorio delle parti.
La parte può trovarsi la sorpresa di un giudizio finale che tiene conto di alcuni elementi tecnici offerti dal consulente nel solo contesto della camera di consiglio, sui quali non ha potuto condurre la propria difesa e il proprio contraddittorio, potendola offrire esclusivamente ex post nel contesto delle impugnative consentite avverso la sentenza o il decreto, ciò che può condursi in sede di appello o reclamo, molto meno in sede di ricorso per cassazione, per i noti limiti al sindacato sul giudizio di fatto che contraddistingue questo organo, particolarmente dopo la novella, con la legge n. 134 del 2012, dell’art. 360, n. 5, cpc.
Vi è poi, e non deve essere trascurata, nella perfetta fungibilità del giudice togato e del giudice laico, la possibilità di una delega alla conduzione del processo e all’attività istruttoria, affidata al giudice laico, a questo punto non solo affidatario di compiti di enunciazione delle regole della scienza psicologica e medica, bensì più strettamente giuridici, propri dell’organo che conduce e dirige il processo.
La delega è all’origine delle più gravi violazioni delle garanzie del giusto processo destinate, presto o tardi, a essere sanzionate con l’annullamento del decreto da parte del giudice di legittimità.
Considerazioni tutte queste che, nel loro complesso, e non solo sul piano dell’opportunità ma anche su quello della costituzionalità, rendono ingiustificata dal punto di vista dei principi – almeno nell’esperienza codicistica – la previsione di un giudice laico nel collegio.
Oltre ai principi, troppo eloquente in questa direzione l’esperienza del tribunale ordinario per non valorizzare tale impostazione. Sono affidate al tribunale comune delicate questioni di affidamento che coincidono con gli stessi casi di responsabilità genitoriale, affidati al tribunale per i minorenni, nella sua composizione mista.
4. Il problema del contrasto dei giudicati
La duplicazione delle competenze, oltre a rendere del tutto ingiustificata la presenza, in una sola articolazione, di un giudice laico, pone di per sé gravi difficoltà applicative, in particolare a tutela della certezza dei giudicati.
La sentenza sull’affidamento, sul collocamento dei figli e sui diritti del genitore non collocatario, ha lo stesso oggetto dei decreti sulla responsabilità genitoriale. L’uno è affidato, in sede di rito camerale, al tribunale ordinario, per i figli nati fuori dal matrimonio, o in sede di rito della separazione e divorzio, se il figlio è nato nel matrimonio; l’altro, anche dopo i recenti interventi sull’art. 38 disp. att. cc, dovuti alla legge n. 219 del 2012 sulla filiazione, al tribunale per i minorenni.
Si tratta di questioni che hanno tendenzialmente lo stesso oggetto, in quanto riguardano la regolamentazione dei comportamenti delle parti nel rapporto tra genitori e figli, eppure sono giudicate da giudici diversi e, in alcuni casi, con riti diversi.
Orbene, potrebbe aversi, come si è avuto in concreto, ed è altamente probabile che avvenga, che il tribunale ordinario affidi congiuntamente il figlio ai genitori, dando collocazione preferenziale a uno di essi e riservando ampio spazio all’altro, in un pieno esercizio della bigenitorialità e, al contrario, il tribunale per i minorenni, magari sulla scorta di una consulenza espressa solo in camera di consiglio o di una relazione dei servizi sociali consegnata dopo l’ultimo degli atti difensivi della parte, non contraddetta quindi da alcuno, pronunci la decadenza proprio del genitore collocatario in sede di responsabilità genitoriale, ovvero un giudicato esattamente contrario.
Possiamo veramente pensare applicabili al giudicato nelle controversie sulle relazioni familiari i principi applicabili al contrasto dei giudicati nell’ambito del processo comune, ovvero, in difetto di impugnazione del secondo giudicato, ritenerlo prevalente, con una casualità tutta temporale?
Questo sistema è tollerabile nel contesto di diritti personali e sensibili che coinvolgono assai spesso persone fragili e vulnerabili come i figli minori?
A tale problematica non risponde affatto, anche alla luce di certe applicazioni giurisprudenziali, la previsione pur contenuta nell’art. 38, comma 1, disp. att. cc, laddove è imposta un’attrazione innanzi al tribunale ordinario delle questioni sulla responsabilità genitoriale quando penda giudizio di separazione o divorzio, o giudizio ai sensi dell’art. 316 cc. La ragione della inidoneità di questa disposizione sull’attrazione per connessione a risolvere il contrasto di giudicati, è nei limiti della sua applicazione[11].
Nonostante il legislatore affermi “l’esclusione della competenza” del tribunale per i minorenni, la giurisprudenza[12] ha applicato il diverso criterio della prevenzione, per cui il procedimento avviato anteriormente innanzi al tribunale per i minorenni prosegue indisturbato il suo corso se il procedimento sull’affidamento innanzi al tribunale ordinario è stato successivamente introdotto. Nell’escludere la competenza, il legislatore ha però introdotto una regola differente rispetto a quella della litispendenza o della connessione. La litispendenza, la perpetuatio jurisdictionis, la prevenzione non hanno rilievo alcuno[13]; ugualmente una disamina dello stato delle cause per valutare la convenienza del simultaneus processus ai sensi dell’art. 40 cpc; se introdotta prima o dopo la causa-pilota davanti al tribunale ordinario, ha sempre funzione attraente.
Ma il diritto vivente non è questo.
Il legislatore sottolinea, poi, «per tutta la durata del processo», il che fa presagire che l’attrazione non operi nei cd. casi di litispendenza attenuata, perché un grado di giudizio si è concluso e pende semplicemente il termine per impugnare, anche se non si è consumato, o il processo è quiescente. Qui appare doverosa la lettura ampia, che ammetta anche in questo caso l’attrazione[14].
Il contrasto di giudicato si risolve in un modo solo: o attraverso l’applicazione rigorosa delle norme sulla litispendenza, per cui chi ha adito per primo prosegue e chi per secondo declina (art. 39 cpc), oppure – nel segno di una disciplina razionale, unitaria e sistematica – si affidano a un solo giudice tutte le controversie in materia di relazioni familiari.
Questo snodo non può essere più trascurato da un legislatore che tenga conto delle più elementari applicazioni del principio di certezza del diritto, particolarmente in relazione a situazioni sensibili e personali come quelle che fanno capo ai genitori e ai loro figli.
5. La disuguaglianza tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio
La ripartizione delle competenze, seppure con una certa attenuazione, dovuta alla trasmigrazione delle controversie sull’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, ex art. 316 cc, innanzi al tribunale ordinario, dovuta alla legge sulla filiazione n. 219 del 2012, non esclude la maggiore probabilità di una regolamentazione delle controversie sull’affidamento e la responsabilità genitoriale dei figli nati fuori dal matrimonio innanzi al tribunale per i minorenni, il quale viene spesso adito fuori dall’impulso delle parti private, prevalentemente dal pm attraverso le segnalazioni dei servizi sociali alle procure minorili.
Al contrario, la diversa vicenda della filiazione nel contesto della famiglia fondata sul matrimonio accede preventivamente, di fronte alla crisi, alle forme ben più garantistiche (e non rette dal rito camerale) del procedimento per separazione e divorzio, il quale è destinato a prevalere sulla competenza del tribunale per i minorenni.
Resta dunque sullo sfondo, anche se fortemente attenuata per l’affidamento delle controversie dell’art. 316 cpc al tribunale ordinario, una ripartizione del recente passato verso un’attribuzione delle controversie minorili a differenti giudici, a seconda che il figlio sia nato nel matrimonio o fuori del matrimonio, con una discriminazione veramente intollerabile, alla luce proprio della unificazione degli status dovuta alla riforma della filiazione negli anni 2012 e 2013.
6. La necessità indilazionabile di un giudice unico delle controversie sulle relazioni familiari e il problema della collegialità
La soluzione alle gravi problematiche applicative dell’attuale sistema, denunciato nei paragrafi che precedono, può essere una sola: l’istituzione di un tribunale specializzato delle persone, dei minorenni e delle famiglie, come giudice unico delle controversie sulle relazioni familiari, conseguentemente munito di una competenza generale[15].
Almeno nel settore civilistico, tale giudice dovrà essere rigorosamente togato, ovvero un professionista del diritto, reclutato per concorso pubblico, il quale abbia le conoscenze per la piena applicazione delle garanzie del giusto processo, particolarmente il diritto di difendersi e di contraddire delle parti.
Le nozioni scientifiche necessarie per dettare la regola concreta al comportamento dei coniugi o dei partner dell’unione o dei conviventi e dei figli dovranno avere accesso al processo con le modalità della consulenza tecnica, attraverso la nomina di esperto di conclamata preparazione ed esperienza, la cui relazione peritale, sia nella sua formazione sia nelle sue conclusioni, dovrà essere posta al vaglio del contraddittorio delle parti. Perché così impone la Costituzione, che garantisce il contraddittorio.
Si tratta di nozioni di grande semplicità e coerenza con i principi e le garanzie del giusto processo, che il legislatore potrà finalmente far proprie (senza attendere altro tempo, essendo decorso quasi un secolo dalla istituzione del tribunale per i minorenni, avvenuta nel 1934).
Il giudice unico potrà essere, poi, modellato sul tribunale ordinario con sezione specializzata, sulla scia dell’esperienza del giudice del lavoro, oppure essere, al contrario, su di una duplice articolazione territoriale, circondariale e distrettuale, secondo il modello dell’ufficio di sorveglianza penale, ove il giudice circondariale va a comporre il giudice distrettuale quando investito, a cui lato sensu si ispira il disegno di legge approvato dal Senato.
Resta elemento imprescindibile, tuttavia, l’istituzione di un giudice unico della famiglia e dei minori.
Vi è, nondimeno, un ulteriore aspetto che si è trascurato sinora, costituito dalla prossimità del giudice alla controversia. Il carattere esclusivamente distrettuale della distribuzione territoriale dei tribunali per i minorenni ha reso assai complesso il trasferimento delle parti e degli avvocati, nonché l’acquisizione dei mezzi istruttori, solo che si pensi alle testimonianze e, particolarmente, seppure non costituisca mezzo istruttorio, all’ascolto del minore.
Pertanto, la riforma del giudice unico non potrà prescindere da un primo grado affidato all’articolazione circondariale, con competenza generale, come giudice della prossimità, essendo i reclami e gli appelli affidati all’articolazione distrettuale. In questo modo, si potrebbe sacrificare quella collegialità in prima istanza che si recupera in sede di impugnazione dei provvedimenti anticipatori o finali, con buona pace della spesa pubblica.
Infine, un ulteriore elemento di sapore ordinamentale è la necessità di un’elevata professionalità specializzata del giudice (come auspicabilmente degli avvocati, ma qui il legislatore ha già avviato una strada da tempo), e ciò attraverso norme che il sistema può mutuare dalla consolidata esperienza del giudice del lavoro: reclutamento attraverso selezioni autonome, formazione specialistica prima e durante il servizio, stabilità nell’appartenenza all’organo.
Si tratterà dunque di un tribunale munito di elevata specializzazione, nelle componenti del giudice e degli avvocati, e che segue – ne è espressione evidente il presente saggio – un processo dalle regole intensamente differenziate.
Esiste, sotto questo particolare aspetto, nel disegno di alcuni strenui difensori del tribunale per i minorenni, una incomprensione della proposta abrogatrice contraria, sotto il profilo dalla specializzazione.
In occasione del tentativo di introdurre un tribunale in duplice articolazione distrettuale e circondariale, la resistenza dei magistrati minorili giunse a fare raccolta di firme autorevoli a difesa di un giudice specializzato: il tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, composto da giudici specializzati, irremovibili dall’ufficio, non è forse la massima espressione della specializzazione?
La riunificazione delle competenze in un giudice unico si riferisce a un giudice altamente specializzato, il quale, in una prima fase, potrà certamente beneficiare del “travaso” dell’esperienza, della preparazione e della professionalità dei magistrati impegnati presso il tribunale per i minorenni o presso le procure minorili, conservati al nuovo organo. La proposta del giudice unico non conduce affatto, come si vorrebbe, alla negazione della specializzazione dell’organo, anzi ne costituisce la massima esaltazione.
La collegialità non può, infine, essere considerata un tabù e potrà certamente essere recuperata in sede di reclamo avverso i provvedimenti provvisori o di appello avverso i provvedimenti definitivi.
7. Le soluzioni della legge delega
Fatte queste premesse sui tentativi falliti e sulle solide ragioni che giustificano l’istituzione di un tribunale specializzato, nell’articolazione circondariale, per il primo grado di giudizio, e nell’articolazione distrettuale, per i reclami e il secondo grado di giudizio, non resta che brevemente commentare il comma 24, dell’art. 1 della legge delega.
Il tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, salvo le competenze penali e di giudice di sorveglianza che restano affidate all’articolazione distrettuale (comma 24, lett. b, l e m) e quelle civili relative all’adozione, vede trasferite all’articolazione circondariale in composizione monocratica tutte le competenze civili, ivi comprese quelle che l’art. 38 disp. att. cc affida al tribunale per i minorenni, quelle relative all’affidamento del minore, quelle che erano affidate al tribunale ordinario, fossero esse soggette al rito camerale, al rito della separazione e divorzio oppure al rito ordinario e, tra queste, il risarcimento del danno endo-familiare, a esclusione delle cause relative alla cittadinanza, l’immigrazione e il riconoscimento della protezione internazionale; infine, quelle di competenza del giudice tutelare (comma 24, lett. c).
Normalmente, l’articolazione distrettuale giudica collegialmente, ma con la presenza di un magistrato onorario forma il collegio solo per i procedimenti di adozione (lett. n) e ovviamente opera collegialmente se adita in secondo grado, in sede di reclamo avverso i provvedimenti provvisori e, di appello, avverso i giudizi finali. In tal modo la monocraticità in primo grado recupera la collegialità in secondo grado.
Come già stabilito in occasione dei principi direttivi offerti al rito unitario (comma 23, lett. r), le misure provvisorie dettate dal giudice circondariale sono (tutte senza distinzione) reclamabili innanzi al giudice collegiale del distretto, senza che ad esso possa partecipare il giudice che ha pronunciato in prime cure (con una disciplina non dissimile dal processo cautelare uniforme, art. 669-terdecies cpc, comma 24, lett. o). L’ulteriore particolarità è data dal consentire pure il ricorso straordinario in Cassazione, per misure che non hanno efficacia decisoria e non passano mai in giudicato, ma qui, raccogliendo l’eredità di un filone giurisprudenziale del giudice di legittimità, si è ritenuto di assicurare il ricorso straordinario a misure che incidono molto spesso su diritti personalissimi[16].
Il giudice onorario che accede alla camera di consiglio solo per la materia delle adozioni entra altrimenti nell’ufficio del processo (lett. h), salvo delega espressa di alcune funzioni, come quella conciliativa, di ausilio all’ascolto del minore o di altri specifici compiti (è da sperare, non di carattere istruttorio).
Naturalmente, il processo davanti al tribunale resta regolato dal rito unificato, di cui ai principi direttivi contenuti nel comma 23.
Il giudice assegnato alla sezione monocratica, come distrettuale, è un giudice specializzato, perché munito di specifiche competenze per avere già esercitato la materia, ed è tendenzialmente irremovibile nella funzione, potendo, in caso di carenza di organici, essere applicati giudici appartenenti a un’articolazione all’altra, salvo prevedere in tal caso la modalità della trattazione scritta o della trattazione orale da remoto (lett. g). Ovviamente l’intero procedimento innanzi al tribunale viene informatizzato, con l’obbligo della formazione e trasmissione digitale degli atti processuali (lett. bb).
Per gli impegni di spesa, la Ragioneria ha imposto al Parlamento e al Governo di stabilire una prorogatio di due anni, in vista dell’entrata in vigore della riforma. Non si tratta mai di buona cosa, per la tendenza incontenibile a prorogare ulteriormente le riforme già programmate.
1. Di cui è data documentazione in A. Germanò (a cura di), La riforma della giustizia minorile in Italia (atti del convegno di Firenze, 9-11 maggio 1986), Unicopli, Milano, 1986, con un’appendice sulle principali ipotesi di riforma sino a quell’epoca (vds. part. pp. 263 ss.).
2. I cui atti sono raccolti in L. Fanni (a cura di), Quale processo per la famiglia e i minori (atti del convegno di Cagliari, 5-6 dicembre 1997), Giuffrè, Milano, 1999, con relazioni di F.P. Luiso, F. Cipriani, A. Proto Pisani e S. Chiarloni, con una ricca appendice di documenti, pp. 185 ss.
3. A partire dal ddl governativo n. 2517 del 2002, in Dir. fam., 2003, p. 491 e di iniziativa parlamentare, nel biennio 1996-1997, promotori gli Onorevoli Magliocchetti (n. 966, 16 luglio 1996) e Casinelli (n. 3041, 23 gennaio 1997)
4. Cfr. L. Fadiga, Le proposte governative di modifica della giustizia minorile: riforma o controriforma?, in Minori giustizia, nn. 1-2/2002, pp. 7 ss., e Le ragioni di contrarietà alle proposte governative di abolizione del tribunale per i minorenni del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, ivi, nn. 3-4/2002, pp. 313 ss.
5. Vds. documenti essenziali in C. Cecchella (a cura di), Il processo di famiglia: problemi e prospettive. Contributo critico al disegno legge delega di riforma, DiF, Pisa, 2016, pp. 63 ss.
6. Cfr. il Comunicato Aimmf sulla decisione del Ministro di stralciare dalla riforma del processo civile la parte ordinamentale relativa alla giurisdizione minorile, 3 agosto 2017, www.minoriefamiglia.org/index.php/documenti/attualita/320-comunicato-a-i-m-m-f-sulla-decisione-del-ministro-di-stralciare-dalla-riforma-del-processo-civile-la-parte-ordinamentale-relativa-alla-giurisdizione-minorile-3-8-2017).
7. Nel 1908 il Guardasigilli Orlando, con una circolare (11 aprile, n. 1615) rimasta nella storia della giustizia minorile, evidenziava la necessità, particolarmente nell’ambito dei procedimenti penali, di una specializzazione del giudice minorile, ma non trascurava la tutela dei diritti civili del minore, invitando il pubblico ministero ad avviare le opportune azioni a protezione del minore dalle distorsioni della potestà paterna (vds. R. Majetti, La circolare del Ministro Orlando circa la delinquenza dei minorenni, Tipografia Italiana, Roma, 1909, pp. 2 ss.; oppure G. Novelli, Note illustrative del regio decreto 20 luglio 1934, n. 1404 - su L’istituzione ed il funzionamento del Tribunale per i minorenni -, in Riv. dir. pen., 1934, p. 802); l’illuminato politico liberale si è espresso esplicitamente in V.E. Orlando, La delinquenza minorile secondo l’On. Vittorio Emanuele Orlando (conferenza tenuta all’Istituto pedagogico forense di Milano), in La scuola positiva nella dottrina e nella giurisprudenza penale, anno XX, n. 1/1910, pp. 137 ss.
Nel silenzio del legislatore (lo stesso Guardasigilli istituì, nel 1909, una commissione ministeriale presieduta dal primo presidente della Corte di cassazione, Oronzo Quarta, che elaborò un progetto di codice per i minorenni, contenente le modifiche ordinamentali, le norme sostanziali e processuali, senza tuttavia che sia mai stato presentato alle Camere). Seguì, in un ben diverso contesto storico, la circolare del Ministro Rocco n. 2236 del 22 settembre 1929 (in Bollettino Ufficiale del Ministero della giustizia e degli affari di Culto, Roma, 1929, pp. 766 ss.), la quale dispose che in dieci capoluoghi di corte di appello fossero istituite delle sezioni apposite dei tribunali ordinari, a cui il procuratore generale presso la corte di appello poteva rimettere, discrezionalmente, l’istruttoria e il giudizio nei confronti di imputati infradiciottenni, così facilitando, per reiterazione di esperienze, la specializzazione dell’organo. In quel tempo, in mancanza di una risposta legislativa, si pensava comunque e sempre al tribunale ordinario, nel contesto del quale alcuni giudici togati si sarebbero visti assegnare gli affari che coinvolgevano i minorenni, in tal modo specializzandosi.
La specializzazione del giudice, nell’impostazione liberale, nasceva evidentemente dalla necessità di valutare con particolare attenzione e preparazione gli interessi del minore, alla luce anche di conoscenze non strettamente giuridiche, prevalentemente nell’ambito penale, ma anche in quello civile.
Solo nel 1934 (rdl 20 luglio 1934, n. 1404, poi convertito con modificazioni nella l. 7 maggio 1935, n. 835, tutt’ora vigente nel suo impianto essenziale), in pieno ventennio, fu istituito il tribunale per i minorenni, che estese la sua competenza anche agli affari civili. L’istituzione non fu ovviamente coerente con l’idea liberale originaria di un giudice specializzato all’interno del tribunale ordinario e preferì adottare la soluzione estrema, che contraddistingueva il diritto italiano rispetto alle esperienze straniere, di un vero e proprio giudice speciale (e non semplicemente specializzato), composto sia da magistrati togati che da magistrati laici – questa l’ulteriore novità –, organizzati all’interno di un organo diverso, una sorta di “giurisdizione speciale” minorile. Il differente contesto storico in cui fu approvata la riforma non poteva attingere all’idea liberale originaria, sotto l’influenza del positivismo giuridico e filosofico, in una funzione rieducativa più che punitiva della giustizia minorile, particolarmente nell’ambito penale, sulla base della diversa sensibilità che doveva ispirare il giudicante, maggiormente attento agli interessi rieducativi del minore. Erano evidenti altre finalità tipiche del regime: l’accentuazione dei profili pubblicistici di controllo e normalizzazione della società civile, anche con strumenti diversi da quelli strettamente autoritari. Ciò spiega l’apertura verso una competenza civile, nell’ambito soprattutto della titolarità e dell’esercizio della potestà, la partecipazione nell’organo giudicante di un giudice laico (inizialmente unito a due giudici togati, poi, a partire dalla l. n. 1441/1956, in posizione paritetica all’interno di collegi formati da quattro giudici) e l’uso delle forme della volontaria giurisdizione.
8. Basti ricordare la qualità richiesta dall’art. 2 rdl n. 1404/1934: «benemeriti dell’assistenza sociale».
9. Sulla rilevanza nell’art. 101, comma 2, cpc della questione di fatto o della questione mista di fatto e di diritto, rilevata d’ufficio, cfr. Cass., sez. unite, 30 settembre 2009, n. 20395, in Corr. giur., 2010, p. 352 con nota di C. Consolo (Le sezioni unite sulla causalità del vizio nelle sentenze della terza via: a proposito della nullità, indubbia ma peculiare poiché sanabile allorché emerga l’assenza in concreto di scopo del contraddittorio eliso); cfr., tra le ultime, Cass., 16 febbraio 2016, n. 2984.
10. Ex plurimis, Cass., 5 agosto 2005, n. 16577, in Foro it., 2006, I, c. 3174, e Cass., 21 novembre 2001, n. 14637, in Giur. it., 2002, I, pp. 1363 ss., con nota critica di S. Chiarloni (La sentenza «della terza via» in Cassazione: un altro caso di formalismo delle garanzie?). Tra le prime pronunce, dopo il riconoscimento legislativo dovuto al d.lgs n. 40/2006, cfr. Cass., 9 giugno 2008, n. 15194, in Giur. it., 2009, pp. 4 ss., con nota di A. Giordano (La sentenza della “terza via” e le “vie” d’uscita. Delle sanzioni e dei rimedi avverso una “terza soluzione” del giudice civile). In dottrina, cfr. E.F. Ricci, La sentenza «della terza via» e il contraddittorio, in Riv. dir. proc., n. 2/2006, pp. 750 ss.; P. Comoglio, «Terza via» e processo «giusto», in Riv. dir. proc., ivi, pp. 755 ss.; C. Consolo, Le sezioni unite, op. cit., pp. 355 ss.
11. Certamente favorita dalla scarsa tecnica del legislatore, cfr. F. Danovi, Il processo per separazione e divorzio, Giuffrè, Milano, 2015, p. 89; F. Tommaseo, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, in Fam. dir., n. 3/2013, pp. 251 ss.
12. Cass., 14 ottobre 2014, n. 21633, in Fam. dir., n. 2/2015, pp. 105 ss., con nota di A. Liuzzi (Provvedimenti de potestate vis attractiva del tribunale ordinario: primi chiarimenti dalla suprema corte); in dottrina, cfr. G. Impagnatiello, Profili processuali della nuova filiazione. Riflessioni a prima lettura sulla l. 10 dicembre 2012, n. 219, in Nuove leggi civ. comm., n. 4/2013, pp. 724 ss.; cfr. Cass., 22 febbraio 2015, n. 2833, in Foro it., 2015, I, c. 2046.
13. La tesi è sostenuta anche da F. Danovi, Il processo, op. cit., pp. 98 ss.; cfr. M.A. Lupoi, Il procedimento della crisi tra genitori non coniugati avanti al tribunale ordinario, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 4/2013, pp. 1289 ss.; in senso contrario, L. Durello, La tutela processuale dei figli nati fuori dal matrimonio, in A. Graziosi (a cura di), Diritto processuale della famiglia, Giappichelli, Torino, 2016, p. 100.
14. È la lettura di Cass., 26 gennaio 2015, n. 1349, in Fam. dir., n. 7/2015, pp. 653 ss., con nota di G. Buffone (Riparto di competenza tra T.O. e T.M. in materia di provvedimenti ablativi: Iudicium Finium Regundorum della Cassazione); vds., per un’ampia disamina, F. Danovi, Il processo, op. cit., p. 97. L’Autore, tuttavia, distingue i casi di pendenza del termine per impugnare da quello di quiescenza, dovuta a cancellazione dal ruolo, perché in quest’ultimo caso mancherebbe il riferimento a un giudice che decida il merito; la distinzione farebbe tuttavia propendere per una lettura rovesciata. La ratio che consente l’applicazione al primo caso fa ritenerlo applicabile ugualmente al secondo.
15. Di interesse il saggio di L. Querzola, Il processo minorile in dimensione europea, Bononia University Press, Bologna, 2010, part. pp. 36 ss., ove l’Autrice offre un modello di processo minorile ricavandolo dalle fonti di diritto internazionale privato europeo e dalle singole esperienze nazionali, in una prospettiva comparativa.
16. Sia consentito rinviare a C. Cecchella, Il giudice di legittimità apre all’impugnazione dei provvedimenti provvisori nelle controversie di famiglia e minorili, in Giusto proc. civ., n. 3/2020, pp. 917 ss.