Magistratura democratica

Crisi e rifondazione della democrazia nell’Unione europea

di Luigi Ferrajoli

Effetto del mutamento storico più recente, il connubio tra populismi e liberismo ha dato vita a due sistemi perversi di potere: quello dei poteri privati del mercato e quello dei poteri politici di governo, gli uni e gli altri insofferenti di limiti e controlli ma il secondo, inevitabilmente, subalterno al primo. Questa asimmetria, minando alla base i diritti civili e sociali e le forme della rappresentanza politica, ha portato a una compressione sostanziale dello Stato di diritto, che costituisce il cuore delle moderne democrazie e trova conferma nei valori unitari fondamentali che, oggi, l’Europa rischia di perdere: la pace e l’uguaglianza.

1. Il declino, in Italia, della democrazia costituzionale, determinato dal connubio perverso tra populismi e liberismo / 2. La rifondazione della Repubblica sull’idea parafascista del capo quale espressione organica della volontà popolare / 3. Il premierato elettivo quale forma di governo più funzionale alla sovranità dei mercati / 4. Quale alternativa per l’Europa?

 

1. Il declino, in Italia, della democrazia costituzionale, determinato dal connubio perverso tra populismi e liberismo

In questi ultimi anni è avvenuto – in Italia, ma non solo in Italia – un mutamento profondo e regressivo sia del sistema politico che del sistema economico. Il mutamento delle istituzioni di governo è stato determinato da una crisi della politica, che si è manifestata nella progressiva verticalizzazione e personalizzazione del sistema politico. Il mutamento del sistema economico è avvenuto con la dislocazione dei grandi poteri economici e finanziari fuori dai confini statali. Entrambi i mutamenti sono stati indotti da trasformazioni profonde, generate dalla globalizzazione dei mercati, ma non del diritto e della politica. A causa dell’asimmetria tra il carattere globale dei poteri economici e finanziari e il carattere statale e locale dei poteri politici e del diritto, non è più la politica che governa l’economia assicurando la concorrenza delle imprese, ma viceversa: sono i grandi poteri economici globali che governano la politica, mettendo gli Stati tra loro in una concorrenza al ribasso, cioè spostando i loro investimenti in Paesi nei quali possono sfruttare il lavoro in forme schiavistiche, devastare impunemente l’ambiente, non pagare le imposte e corrompere i governi. 

Le due mutazioni, quella della politica e quella dell’economia, sono dunque tra loro connesse. Si è infatti prodotta, in Italia, un’alleanza perversa tra i poteri economici e i poteri politici e tra le relative ideologie, cioè tra liberismo e populismi. Da un lato, le culture e le pratiche liberiste, promuovendo, in assenza di limiti, la precarietà dei rapporti di lavoro, hanno disgregato i tradizionali soggetti collettivi, primo tra tutti il movimento operaio, minando l’uguaglianza nei diritti sociali, le solidarietà collettive e le forme della rappresentanza politica, e così offrendo le basi elettorali agli odierni populismi. Dall’altro, le politiche populiste hanno ricambiato questo contributo al loro successo con favori ancor più decisivi ai poteri economici e finanziari: facendosi tramiti dei dettami dei mercati in maniera ben più efficiente di quanto non fosse possibile alle vecchie democrazie parlamentari; accentuando a tal fine la personalizzazione e la verticalizzazione della politica, onde renderla più facilmente subalterna e impotente rispetto ai mercati e più potente nei confronti della società; opponendosi infine, in nome della difesa della sovranità nazionale, a tutte le forme di integrazione sovranazionale, dall’Unione europea alle Nazioni Unite, in grado di imporre limiti ai mercati. Infine i conflitti di interessi e, in particolare, il controllo dei media sono serviti a conquistare il consenso elettorale, a sua volta invocato per legittimare come voluti dal popolo i conflitti di interessi medesimi e ogni altro tipo di malaffare al vertice dello Stato. 

È così che il connubio tra populismi e liberismo ha dato vita a due sistemi perversi di potere: quello dei poteri privati del mercato e quello dei poteri politici di governo, gli uni e gli altri insofferenti di limiti e controlli ma il secondo, inevitabilmente, subalterno al primo. Nel vuoto politico, oltre che intellettuale e morale, creatosi a sinistra, si sono succeduti in Italia più governi populisti, l’uno peggiore dell’altro, fino al populismo post-fascista attualmente al potere, che ha inaugurato la XIX legislatura con iniziative ostentatamente illiberali e antisociali: l’attacco alla libertà di riunione; gli ostacoli opposti al salvataggio dei naufraghi e, poi, all’approdo nei nostri porti delle navi che li hanno salvati; la vergogna dello stato d’emergenza e delle ridotte protezioni contro il dramma dei migranti; la soppressione del pur misero reddito di cittadinanza approvato nella precedente legislatura; i condoni e le agevolazioni fiscali a favore dei ricchi e le misure contro i sussidi ai poveri; l’attacco all’unità della Repubblica con il progetto dell’autonomia regionale differenziata; la riduzione della spesa sanitaria e l’aumento delle spese militari su pressione delle lobby delle armi; la non iscrizione all’anagrafe dei genitori non biologici e la conseguente menomazione dei diritti civili dei bambini nati da coppie omosessuali; l’aggressione ai magistrati che indagano su persone dell’area di governo e la riapertura dello scontro con la magistratura. 

Questa alleanza tra liberismo e sovranismi ha la sua manifestazione più clamorosa nella riforma costituzionale promossa da Giorgia Meloni e consistente nell’elettività del Presidente del Consiglio.

A questa riforma sono state fatte innumerevoli critiche, tutte fondate: la concentrazione di tutti i poteri nelle mani di una sola persona; la marginalizzazione del Parlamento e del Presidente della Repubblica; l’indebolimento del pluralismo politico, per la sostanziale svalutazione delle minoranze in favore della centralità del capo; l’indebolimento del pluralismo istituzionale, cioè della separazione dei poteri e dei limiti e dei vincoli imposti dalla Costituzione ai poteri di governo; lo squilibrio dell’intero sistema politico, per l’inevitabile controllo da parte della maggioranza e del suo capo di tutte le istituzioni di garanzia – del Presidente della Repubblica, della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura e delle autorità indipendenti. Ma non si è insistito abbastanza e si sono, anzi, tendenzialmente ignorati i due difetti più gravi della riforma: la rifondazione dell’identità della Repubblica da essa perseguita e, paradossalmente, la maggiore subalternità da essa favorita della politica ai mercati.

 

2. La rifondazione della Repubblica sull’idea parafascista del capo quale espressione organica della volontà popolare

Il primo difetto è di ordine simbolico e ideale. Una simile riforma provocherebbe un’alterazione dell’identità della nostra Repubblica. Le Carte costituzionali sono le carte d’identità degli ordinamenti cui appartengono. Ebbene, l’obiettivo politico di questa riforma, oltre allo sfascio del nostro assetto istituzionale, è rifondare la Repubblica, cancellare il suo fondamento anti-fascista e sostituirlo con un nuovo fondamento, quello post-fascista dell’attuale destra al governo: dunque la rifondazione della Repubblica su basi opposte a quelle sulle quali è nata, non più l’antifascismo e la lotta di liberazione dall’occupazione nazista, ma la vecchia idea fascista della massima concentrazione dei pubblici poteri nella figura del capo del governo. È in questa mutazione non solo dell’assetto costituzionale, ma dell’identità stessa della Repubblica, che si manifesta l’ambizione della destra, attualmente vincente: superare il vecchio complesso di inferiorità, sostituire, con un voto di maggioranza, una sua qualche egemonia culturale a quella della sinistra, dar vita a un nuovo inizio della nostra Repubblica.

C’è poi un aspetto più specifico di questa riforma che ne segnala la continuità con la tradizione fascista, questo sì messo in luce da più parti. È l’idea del “capo” come rappresentante organico della società e incarnazione, in quanto investito direttamente dalle elezioni, della volontà popolare. Si tratta di un’antica perversione ideologica, nel senso comune e nello spirito pubblico, dell’idea stessa di rappresentanza e di democrazia, che ha le sue origini nell’opzione per il governo degli uomini in luogo del governo delle leggi. La sua formulazione più perversa è nel principio del capo teorizzato da Carl Schmitt attraverso una serie di equivalenze: l’idea che le decisioni della maggio­ran­za di go­verno, nonché del capo della maggioranza e del­l’e­secu­tivo, ri­fletterebbero la volontà della maggioranza degli eletto­ri, che a sua volta si identificherebbe con la volontà del popolo intero[1]. Si tratta, come ha mostrato Hans Kelsen, di una costruzione ideologica che scambia la realtà con l’“ideologia”, cioè la “finzione politica” della rappresentanza con l’idea che gli eletti rappre­sen­tino realmente la volontà popolare o anche solo la volontà della maggioranza[2], la quale equivarrebbe così alla volontà del popolo intero necessariamente incarnata da un capo, cioè dal capo della maggioranza.

È invece evidente che un organo monocratico non può, per sua natura, rappresentare, come avviene invece con il Parlamento, la pluralità delle forze e degli inte­ressi in conflitto nella società, ma al massimo la parte vincente nelle elezioni. «In ter­mini pseudo‑demo­cratici», aggiunge Kelsen, «la formula del presi­den­zia­lismo suona press’a poco così: il popolo che forma lo Stato è un collettivo unitario omo­geneo e ha quindi un inte­resse col­let­tivo unitario che si esprime in una volontà colletti­va unita­ria». Ebbene, dichiara Kel­sen, questa “vo­lontà collet­ti­va unitaria” non esiste, e la sua assunzione serve solo a «masche­rare il con­trasto d’in­te­ressi, ef­fetti­vo e radica­le, che si esprime nella realtà dei par­titi poli­tici e nella realtà, an­cor più importante, del con­flitto di clas­se che vi sta dietro»[3]

C’è un passo bellis­simo di Kelsen, che non mi stanco di ricordare, contro questa tentazione del gover­no degli uomini che sempre si ripropone nei momenti di crisi: «L’i­dea di democra­zia im­pli­ca assenza di capi. Intera­mente nel suo spiri­to sono le pa­role che Plato­ne, nella sua Re­pub­blica (III, 9), fa dire a So­cra­te, in ri­sposta alla questione sul come dovreb­be es­sere trat­tato, nello Stato ideale, un uomo dotato di qualità su­perio­ri, un ge­nio, in­somma: “Noi l’o­noreremmo come un essere de­gno d’adora­zio­ne, mera­viglioso ed ama­bile; ma dopo aver­gli fat­to no­tare che non c’è uomo di tal genere nel no­stro Stato, e che non deve es­serci, un­togli il capo ed in­corona­tolo, lo scor­teremmo fino alla fron­tie­ra”»[4].

 

3. Il premierato elettivo quale forma di governo più funzionale alla sovranità dei mercati

Il secondo difetto è di ordine sistemico. È il difetto del quale ho già parlato all’inizio, ma che è utile illustrare ulteriormente. Dietro il sovranismo sbandierato dalla destra e l’illusione di un maggior potere che verrebbe dato ai cittadini, questa concentrazione dei poteri nella figura del capo è il tramite più funzionale della subalternità del governo ai poteri economici e finanziari globali.

È utile ricordare che questa istanza di semplificazione dei poteri di governo fu avanzata, con il nome di “governabilità”, da allora entrata nel nostro lessico politico, dal Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale del 1975: dove “governabilità” significa massima potenza della politica sulla società e sui diritti delle persone, quale condizione della sua massima impotenza e, sostanzialmente, della sua subalternità nei confronti dei mercati[5]. A questi fini non sono funzionali parlamenti divisi tra partiti radicati nella società. Serve, al contrario, una personalizzazione e una verticalizzazione del sistema politico come quelle perseguite e realizzate in Italia tramite riforme elettorali di tipo fortemente maggioritario. L’esito ultimo di questi processi è l’autocrazia elettiva voluta dalla riforma Meloni, che è certamente la forma di governo più funzionale alla subalternità della politica al dominio dell’economia. Ne risultano lese entrambe le dimensioni della democrazia: quella formale della democrazia politica e quella sostanziale della democrazia costituzionale.

È chiaro, anzitutto, che questa subalternità, resa possibile dall’asimmetria tra il carattere globale dei mercati e il carattere locale o statale della politica e del diritto, produce la crisi della rappresentanza politica: i governi rispondono assai più ai mercati che agli elettori e perciò rappresentano assai più i primi che i secondi. I governi non sono più neppure i gestori degli affari della borghesia, come scriveva Marx nel 1848, bensì gli esecutori dei dettami dei mercati. Alla personalizzazione della politica e alla sua distanza dalle sue basi sociali corrisponde, peraltro, la passivizzazione della società, che si manifesta nella crescita dell’astensionismo e della qualità del voto: si vota per i partiti ritenuti non già più corrispondenti agli interessi della società, ma semplicemente meno penosi e meno pericolosi degli altri. 

Ne risulta dissestata anche la dimensione sostanziale della democrazia. La maggior potenza della politica, unitamente alla sua obbedienza ai dettami dei mercati, rende possibile la demolizione del diritto del lavoro e il taglio delle spese sociali conseguente alla riduzione delle imposte. Le stesse funzioni di garanzia, per il maggior peso che le maggioranze di governo hanno nella scelta dei loro titolari – nella scuola, nella sanità, nella pubblica amministrazione –, ne risultano indebolite o peggio neutralizzate. In breve, al di là della deformazione della rappresentanza e dello squilibrio tra i poteri che essa comporta, questa verticalizzazione del sistema politico è la formula più funzionale a realizzare la dipendenza della politica dai mercati quanto alle politiche sociali e del lavoro.

Perfino nella giustizia penale questa subalternità si manifesta in una sua aperta accentuazione classista. Io considero un’offesa alla ragione chiamare “garantismo” il garantismo della disuguaglianza e del privilegio che si manifesta nella pretesa di impunità dei potenti e ignora quella vergogna che sono le due forme di carcere duro: quello previsto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, detto “ostativo” perché non consente i permessi e le misure alternative al carcere a quanti non collaborino con la giustizia e che, nell’agosto 2023, colpiva ben 9369 detenuti di cui 1267 ergastolani, ma dal quale sono stati esentati, dalla legge di conversione n. 199 del 30 dicembre 2022, i soli condannati per peculato, concussione e corruzione; e quello ancora più duro introdotto dall’art. 41-bis, che alla stessa data riguardava 743 persone e che incredibilmente assegna al Ministro della giustizia, in violazione della separazione dei poteri e degli articoli 13 e 25 della Costituzione, il potere di determinare la qualità della pena. Mi domando che Paese è diventato l’Italia se la Corte costituzionale non ha ancora spazzato via questo obbrobrio.

 

4. Quale alternativa per l’Europa?

Di tutto questo non si parla nell’attuale campagna per le elezioni europee. Dobbiamo allora chiederci dove sta andando l’Europa. L’Unione europea è nata su due fondamenti, la pace e l’uguaglianza: per porre fine alle guerre, ai razzismi, ai campi di concentramento. Entrambi questi fondamenti stanno oggi venendo meno. 

Innanzitutto, la pace. Nel Consiglio europeo del 21 marzo i nostri governanti hanno parlato serenamente, con incredibile irresponsabilità, del fatto che si prospetta uno scontro tra la NATO e la Russia sul suolo europeo. Tusk, Presidente della Polonia, ha poi ripetuto che dobbiamo prepararci alla guerra. Per le persone della mia generazione la guerra atomica era un tabù. Era impensabile parlare di una guerra contro la Russia, che possiede 6000 testate nucleari, 50 delle quali sono sufficienti a distruggere l’intera umanità. Certamente nessuno parla di guerra atomica, ma altrettanto certamente non si può negare che uno scontro tra potenze nucleari possa degenerare in una guerra nucleare, che raderebbe al suolo il nostro intero continente. Certamente una simile degenerazione è improbabile, dato che anche la Russia rischierebbe la distruzione se facesse uso delle sue bombe atomiche. Ma se Putin è il criminale, cioè il nuovo Hitler di cui parla la nostra propaganda, questa ipotesi non è neppure del tutto improbabile. E poi, il solo fatto che si pensi a uno scontro nucleare, improbabile ma non impossibile, è il segno della cecità, anzi della stupidità e dell’incoscienza dei nostri governanti e delle nostre opinioni pubbliche. Nel dibattito pubblico, nella stampa, si sta capovolgendo il senso delle parole: i pacifisti sono gli irresponsabili, i bellicisti sono i benpensanti, responsabili e ragionevoli. È questa perdita della ragione, questa cecità di fronte alle catastrofi che incombono sull’umanità – il pericolo dell’olocausto nucleare; la catastrofe ecologica, che rischia di rendere gran parte della Terra inabitabile; la crescita delle disuguaglianze e della povertà – la vera nemica dell’umanità. 

Il secondo fondamento dell’Unione europea è l’uguaglianza, che imporrebbe la costruzione di uno Stato sociale europeo e l’uguale valore associato a tutte le differenze. L’Europa è nata, oltre che sulla pace, sull’uguaglianza, sull’esclusione dei razzismi, delle discriminazioni, dei campi di concentramento, dei fili spinati. La questione migranti è perciò il banco di prova della democrazia in Europa. Giacché tutti i Paesi europei sono accomunati dalla volontà di blindare l’Europa, di impedire l’accesso dei migranti, fino a sabotare e a penalizzare, come è avvenuto in Italia, lo stesso soccorso in mare se operato contro gli intralci burocratici per esso predisposti. Di queste politiche dovremmo vergognarci. L’Europa ha un debito gigantesco nei confronti del resto dell’umanità. Per secoli ha invaso, occupato, depredato e sottomesso gran parte del mondo, sulla base del diritto di emigrare teorizzato dalla nostra filosofia politica quando si trattava di giustificare l’invasione e la conquista delle Americhe, la loro occupazione e sottomissione. Naturalmente quel diritto di emigrare, proclamato come universale, era un diritto asimmetrico, perché per secoli poteva essere esercitato soltanto dagli europei. Lo scandalo, di cui dovremmo essere consapevoli, è che quando l’asimmetria si è ribaltata e sono i disperati della terra che fuggono dai loro Paesi, ridotti in miseria dapprima dalle nostre colonizzazioni e poi dall’attuale globalizzazione, l’esercizio di quel diritto si è trasformato in un reato. Ha così rifatto la sua comparsa, in Italia, la figura della persona illegale per ragioni di nascita, a causa della sua stessa esistenza. 

Ebbene, io credo che dobbiamo avere il coraggio di dire che l’Europa ha un solo modo per salvare non solo i migranti ma se stessa, cioè la propria identità democratica: prendere sul serio il diritto di emigrare – stabilito dalla Dichiarazione universale del 1948, dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 e dall’art. 35, comma 4 della nostra Costituzione –, aprire le frontiere a tutti, dando l’esempio al resto del mondo. È il solo modo per risarcire i migranti degli orrori di cui sono stati vittime i loro antenati. Le migrazioni, d’altro canto, ci sono sempre state, e sempre sono state un fattore di progresso. Gli Stati Uniti, il Paese più potente del mondo, all’inizio del Settecento aveva solo 250.000 abitanti e meno di 4 milioni nel 1790; nel 2023 la sua popolazione ha raggiunto i 340 milioni di abitanti grazie a un’emigrazione di massa da tutto il mondo[6]. Contrariamente alle ossessioni identitarie di tutte le destre, dobbiamo essere consapevoli che le migrazioni sono un fattore di crescita delle società e che l’umanità avrà un futuro di progresso solo se sarà un’umanità meticcia, accomunata dall’uguaglianza, dal valore delle differenze e dalla riduzione delle disuguaglianze.

Per questo ho più volte sostenuto che i migranti sono il vero popolo costituente del futuro popolo della Terra e dell’unificazione politica del genere umano in una sola Federazione. Per ragioni soggettive, perché essi sono persone differenti, per culture, per religioni, per lingue, per tradizioni e perciò prefigurano, con il loro meticciato, l’umanità meticcia del futuro. Ma soprattutto per ragioni oggettive: perché la pressione degli esclusi alle frontiere degli inclusi, solo quando diverrà irresistibile costringerà ad affrontare e a risolvere i problemi da cui le migrazioni sono provocate. Giacché nessuno emigra per il gusto di emigrare. Si emigra dalla miseria, dalle guerre, dal riscaldamento climatico, dai disastri provocati in gran parte dalle nostre politiche. Per questo, quando si capirà, dalle dimensioni delle migrazioni, che nessun muro e nessuna legge saranno in grado di arrestarle, solo allora affronteremo i problemi del mondo e prenderemo sul serio i diritti fondamentali, oggi soltanto proclamati, introducendone le necessarie garanzie.

 

 

1. C. Schmitt, Il custode della co­stituzione (1931), tr. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 134-135: «si distrugge il presupposto fondamentale di ogni democrazia, se si abbandona l’assioma che la minoranza risultata in minoranza voleva soltanto il risultato elettorale (non la sua volontà particolare) ed abbia perciò aderito alla volontà della maggioranza come alla sua propria volontà».

2. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), tr. it. di S. Cotta e G. Treves, Edizioni di Comunità, Milano, 1959, parte II, cap. IV, p. 296.

3. H. Kelsen, Chi deve essere il custode della costitu­zio­ne? (1931), in Id., La giustizia costituzionale, tr. it. di C. Geraci, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 275‑276. 

4. H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia (1929), cap. VIII, in Id., La democrazia, tr. it. a cura di G. Gavazzi, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 120. 

5. M.J. Crozier - S.P. Huntington - J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale (1975), tr. it. di Vito Messina, Franco Angeli, Milano, 1977.

6. B. Bailyn e G.S. Wood, Le origini degli Stati Uniti (1985), tr. it. di R. Falcioni e D. Panzieri, Il Mulino, Bologna, 1987, pp. 414 e 415.