L’incompiuta democrazia europea. Criticità e sfide per la decima legislatura europea
La democrazia europea è ancora incompiuta all’inizio della sua decima legislatura e servono atti forti per fare dell’Unione uno Stato di diritto, impedendo in primo luogo ai governi che ne violano i principi essenziali di metterne in pericolo il funzionamento e modificandone, in secondo luogo, le regole costituzionali per completare il cammino verso una casa comune dei cittadini europei.
L’impegno al rispetto dei diritti fondamentali come uno degli elementi qualificanti di una democrazia europea in statu nascendi ha costituito, fin dall’inizio, la preoccupazione principale e costante dei promotori dell’iniziativa del Parlamento europeo che condusse l’assemblea ad adottare, il 14 febbraio 1984, il «Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea» (cd. “Progetto Spinelli”).
L’idea di fondo, che aveva animato le principali forze politiche europee ispirate all’universalismo cristiano, all’internazionalismo socialista e al cosmopolitismo liberale, era fondata sulla consapevolezza che la costruzione di uno “Stato europeo”, sotto la forma di un modello inevitabilmente lontano sia dalla centralizzazione del potere a livello sovranazionale che dalla conservazione dei poteri nelle mani degli Stati nazionali e, dunque, organizzato attraverso un “patto federale”, avrebbe dovuto essere coerente con il metodo che aveva caratterizzato la nascita delle comunità europee:
- un processo – graduale ma irreversibile – di natura consensuale tale da coinvolgere, nello stesso tempo, le istituzioni e i cittadini;
- il riconoscimento e la valorizzazione dei principi comuni nelle Costituzioni degli Stati membri nate dopo gli orrori delle due Guerre mondiali;
- la protezione della dignità umana che doveva essere assicurata a ogni persona che appartenesse alla giurisdizione dell’Unione europea;
- la scelta di un metodo per giungere alla definizione dei diritti economici, sociali e culturali propri all’Unione e delle procedure per garantirne il rispetto a tutti i livelli;
- la condizione secondo cui l’unificazione democratica dell’Europa dovesse riguardare i suoi cittadini e i suoi Stati membri, ma anche la natura democratica dei popoli e degli Stati che auspicavano di farne parte.
Le conseguenze di queste convinzioni erano – si potrebbe dire naturalmente – la decisione che l’Unione europea avrebbe dovuto dotarsi «entro cinque anni dalla sua nascita» di una sua Carta dei diritti fondamentali e che la violazione «grave e persistente» dei principi democratici e dei diritti fondamentali avrebbe determinato delle sanzioni e delle procedure per comminarle.
L’Unione europea è nata con il Trattato di Maastricht nel 1993, anche se quel trattato non cancellò l’esistenza delle Comunità europee mantenendo la distinzione fra il pilastro economico, il pilastro della politica estera e quello dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia in un sistema definito sarcasticamente da Giulio Andreotti come il «tetto di un teatro bizantino», e si dovettero attendere sette anni per la proclamazione della Carta dei diritti e nove anni affinché essa diventasse giuridicamente vincolante, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona alla fine del 2009.
Un primo meccanismo di sanzioni fu introdotto con il Trattato di Amsterdam nel 1999, rafforzato con il Trattato di Nizza dall’introduzione di una procedura di allerta a carattere preventivo, dopo l’esperienza dell’alleanza di governo austriaco sostenuto dal partito di estrema destra guidato da Jörg Haider.
Contrariamente al progetto del Parlamento del 1984, che affidava alla Corte di giustizia il compito di constatare se un Paese membro si trovasse in una situazione di violazione grave e persistente dei principi democratici e dei diritti fondamentali prima di una decisione a maggioranza del Consiglio europeo, su parere conforme del Parlamento europeo, per sospendere la partecipazione dello Stato “incriminato” nelle istituzioni intergovernative, i trattati da Amsterdam a Lisbona hanno invece escluso il ruolo preliminare della Corte, introducendo il voto all’unanimità nel Consiglio europeo sia nella procedura di allerta che nella constatazione di una violazione grave e persistente, creando di fatto un meccanismo politicamente e giuridicamente inefficace, e hanno addirittura escluso il potere del Parlamento europeo quando il Consiglio è chiamato ad applicare delle sanzioni.
Alcuni timidi passi in avanti sono stati comunque fatti perché, nel 2007, è stata creata l’Agenzia europea dei diritti fondamentali, la Commissione ha deciso di usare i poteri di ricorrere alla Corte di giustizia applicando l’art. 258 TFUE e, soprattutto, sono stati introdotti in materia di bilancio e nella gestione del NGEU delle condizionalità legate al rispetto della rule of law che sono state applicate contro l’Ungheria e la Polonia sotto l’occhio attento del Parlamento europeo, che è arrivato recentemente al punto di portare la Commissione davanti alla Corte di giustizia per la mancata applicazione di quelle condizionalità nei confronti dell’Ungheria.
Ciononostante, dobbiamo constatare che l’Ue vive ancora in una situazione di democrazia incompleta da quando il Consiglio europeo – sfruttando le ambiguità del Trattato di Lisbona – si è auto-attribuito poteri di decisione legislativi che gli sarebbero interdetti dall’art. 15 TUE sottraendoli di fatto al Parlamento europeo, indebolendo il ruolo di iniziativa della Commissione europea e ignorando le regole della trasparenza pur fissate dal Trattato e dalla Carta dei diritti.
In attesa della revisione del Trattato di Lisbona, seguendo le indicazioni adottate dal Parlamento europeo nel rapporto votato dall’assemblea il 22 novembre 2023, la decima legislatura europea dovrebbe essere aperta con alcuni atti politicamente dirompenti, ma conformi al Trattato per dare un forte segnale secondo cui i cinque criteri che caratterizzano il rispetto della rule of law (legalità, sicurezza giuridica, prevenzione dell’abuso di potere, legalità davanti alla legge e non-discriminazione, accesso alla giustizia) devono essere considerati come una parte essenziale ma non esaustiva dei principi democratici che devono essere applicati rigorosamente dagli Stati membri al loro interno e nell’Unione europea, e che riguardano tutti i diritti sanciti dalla Carta.
Come un segnale forte nella direzione di un’Unione fondata sulla democrazia del suo funzionamento, il Parlamento europeo dovrebbe sostenere che la sospensione del diritto di voto di uno Stato membro implica anche l’esclusione dalla presidenza delle formazioni del Consiglio (su cui il Consiglio europeo decide a maggioranza qualificata sulla base degli artt. 16.9 TUE e 236 TFUE, e non sulla base dell’art. 7 TUE) e che tale esclusione debba essere applicata all’Ungheria oggi e in futuro, nel caso di una violazione grave e persistente dei principi democratici.
Secondo un’interpretazione dell’art. 11 TUE e del regolamento di applicazione delle norme sulle iniziative di cittadini europei (ICE), una proposta motivata della Commissione europea relativa alla constatazione di un rischio chiaro di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori iscritti nell’art. 2 TUE potrebbe essere attivata da un milione di cittadini europei provenienti da almeno sette Stati membri, poiché il meccanismo di allerta è politico e non giurisdizionale.
Così sarà possibile affrontare le criticità e le sfide della democrazia europea in statu nascendi all’inizio della prossima legislatura europea, in attesa che si apra una fase costituente per superare il Trattato di Lisbona.