Magistratura democratica

Democrazia deliberativa e Stato democratico di diritto

di Nello Rossi

La difesa dello Stato di diritto in Europa sarà vincente solo se le forze democratiche si misureranno apertamente con le cause della crisi democratica e della sfiducia verso la politica, ormai largamente diffuse tra i cittadini europei, e sapranno integrare e rinvigorire – con istituti di partecipazione diretta e di democrazia deliberativa –  le strutture della democrazia rappresentativa nell’Unione e nei singoli Stati membri.  

1. Difendere lo Stato di diritto rilanciando la democrazia / 2. In Europa c’è un caso italiano / 3. La crescita dell’apatia politica / 4. La democrazia deliberativa: le ascendenze teoriche / 5. I documenti e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa / 6. Gli esperimenti francesi delle Convenzioni sul clima e sul fine vita / 6.1. La Convenzione sul clima del 2019 / 6.2. La Convenzione sul fine vita del 2022 / 6.3. Natura e funzione della Convenzione / 6.4. I risultati della Convenzione / 7. La realtà italiana 

 

1. Difendere lo Stato di diritto rilanciando la democrazia

L’efficace difesa dello Stato di diritto dalle pulsioni antidemocratiche e illiberali che percorrono alcuni Paesi europei reclama grande attenzione al corretto funzionamento della democrazia rappresentativa e una costante azione di vigilanza a tutela del ruolo delle istituzioni di garanzia quali una magistratura indipendente, le corti costituzionali, una informazione libera e plurale. 

Ma la difesa sarà vincente solo se le forze democratiche si misureranno apertamente con le cause della crisi democratica e della sfiducia verso la politica, ormai largamente diffuse tra i cittadini europei, e sapranno integrare e rinvigorire – con istituti di partecipazione diretta e di democrazia deliberativa – le strutture della democrazia rappresentativa nell’Unione e nei singoli Stati membri. 

L’esperienza storica attesta che, se è governato solo dall’alto, da vertici il cui potere non ha adeguati contrappesi, lo Stato di diritto rischia di veder compromessi i suoi tratti democratici e liberali e può subire insidie e arretramenti su tutti i terreni decisivi per il suo corretto funzionamento democratico. 

Di qui l’esigenza di vivificare e rivitalizzare la democrazia rappresentativa non solo garantendo i tradizionali canali di partecipazione politica dei cittadini – come i partiti politici –, ma anche promuovendo nuove forme di coinvolgimento diretto e di ascolto delle persone sulle grandi scelte politiche. 

 

2. In Europa c’è un caso italiano

Ragionando in quest’ottica non si tarda a scoprire che in Europa c’è, ormai, un “caso italiano”. 

In molti Paesi europei la partecipazione politica tradizionale realizzata attraverso i partiti politici è stata almeno in parte salvaguardata e “funziona”, mentre è in corso – sia pure faticosamente – la ricerca di nuovi modi per far esprimere le collettività su questioni di interesse comune. 

In Italia si assiste a un vistoso regresso della democrazia rispetto al quadro di altri, più avanzati, Paesi europei, segnatamente sul versante dei partiti politici e del sistema per le elezioni del Parlamento nazionale. 

I partiti politici – strumento indispensabile per consentire una effettiva e costante partecipazione dei cittadini alla vita politica – sono oggi in Italia assai meno organizzati, regolati, vitali, in una parola “democratici”, di quelli operanti in altre grandi democrazie dell’Unione. 

Il panorama politico è infatti caratterizzato dalla prevalenza di “partiti personali”, o comunque dalla presenza di formazioni politiche che, anche quando non hanno una impronta interamente personale, non vivono una vita democratica intensa e partecipata e non conoscono una reale dialettica interna paragonabile a quella delle formazioni politiche presenti in altri contesti come la Germania, l’Inghilterra o la stessa Spagna. 

Come è noto, è in corso da tempo una riflessione critica sui partiti italiani e sulla loro democrazia interna e si ragiona di una legge quadro che dia attuazione all’art. 49 della Costituzione.

Si pensi agli scritti di Enzo Cheli[1] nei quali si sostiene che – dopo la lunga evoluzione dei partiti politici italiani dal dopoguerra in poi – il metodo democratico di cui parla l’art. 49 non debba essere riferito solo all’azione esterna dei partiti, ma anche alla loro vita interna, e si ragiona della fisionomia di una legge quadro. 

Si pensi, ancora, all’elaborazione della Fondazione Basso, culminata in un documento del 2 aprile 2015: «Separare i partiti dallo Stato. Un progetto della Fondazione Basso: per l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione», e nella redazione di un testo di disegno di legge intitolato: «Norme di attuazione dell’art. 49 della Costituzione».

Testi nei quali è svolta una lucida analisi della crisi della partecipazione politica e del ruolo dei partiti e sono indicate le vie di una loro innovativa regolamentazione diretta a favorire processi di rivitalizzazione e rigenerazione. 

«La crisi della politica e della partecipazione alla politica dipende», si legge nel documento da ultimo citato, «dal venir meno, a livello sociale, della soggettività politica, che è sempre una soggettività collettiva che ha la sua insostituibile forma organizzata nei partiti politici. Tutti i partiti sono stati infatti investiti da processi di verticalizzazione e personalizzazione che hanno svuotato il ruolo decisionale dei loro organi collegiali e ancor più il loro carattere rappresentativo dei cittadini, trasformati in spettatori dei dibattiti e degli scontri interni al ceto politico messi in scena dalle televisioni. Il numero degli iscritti ai partiti è crollato e si è ridotta e svuotata l’attività delle loro organizzazioni di base. È cresciuto il numero di quanti si iscrivono semplicemente per ragioni di interesse: dai banali interessi dei giovani alla ricerca di un posto di lavoro agli interessi del mondo degli affari, talora connesso con organizzazioni mafiose. Conseguentemente, venuti meno i canali di selezione dal basso dei gruppi dirigenti, si è abbassata la qualità del ceto politico, reclutato in prevalenza per il tramite di rapporti clientelari o comunque extra-politici. I fenomeni di sistematica corruzione che in misura crescente infestano la politica sono solo la punta dell’iceberg di questa deriva. Simultaneamente, anche a causa della crescita delle disuguaglianze e della riduzione dei diritti sociali e del lavoro, si sono indeboliti il senso civico e lo spirito pubblico, sostituiti dalle passioni tristi della sfiducia, della diffidenza, dei rancori, del sospetto e, per altro verso, dall’aggressività generalizzata, dai razzismi, dalle paure, dal primato degli interessi privati e personali, dall’indifferenza per gli interessi comuni e dalla svalutazione della sfera pubblica. Sono infine venuti meno, con la crescita del qualunquismo, dell’antipolitica e degli egoismi, anche i vecchi legami di solidarietà sui quali si fondano la soggettività collettiva e la stessa azione politica, le quali sono sempre, per loro natura, animate dalla passione per gli interessi generali. Di fronte a questa crisi, che sta tramutandosi, non solo in Italia, in una crisi della democrazia, la Fondazione Basso ritiene opportuna ed urgente l’apertura di un dibattito pubblico che ponga all’ordine del giorno quella che oggi è la vera questione costituzionale: la riforma dei partiti sulla base di una legge di attuazione dell’art. 49 della Costituzione, che identifica nei partiti gli strumenti mediante i quali “i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente… per concorrere a determinare con metodo democratico la politica nazionale”».

Bisogna però prendere atto che, nella maggioranza di governo – e, a quanto risulta, anche nelle fila dell’opposizione –, nessuno pensa che alla rivitalizzazione dei partiti politici potrebbe quantomeno “concorrere” una legge quadro che fissi una cornice democratica per la loro esistenza e la loro attività, e li renda più aperti e contendibili (beninteso, da quanti partecipano attivamente alla loro vita interna e non da volenterosi simpatizzanti che votano una tantum per poi ritornare ad estraniarsi dalle scelte politiche). 

Per effetto del sistema delle liste elettorali bloccate, risalente al 2005, epoca del Governo Berlusconi, e mai seriamente rimesso in discussione dai partiti di ogni colore, l’Italia ha un sistema elettorale per le elezioni delle Camere che non consente al cittadino di scegliere i suoi rappresentati in Parlamento, giacché l’elezione è “totalmente” condizionata dalla posizione occupata dal candidato nella lista elettorale. 

L’accattivante parola d’ordine della campagna per l’introduzione del premierato elettivo – dare “un potere in più” ai cittadini attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio – continua a nascondere il fatto che, ormai da quasi vent’anni, gli elettori hanno “un potere in meno”, essendo stati privati della possibilità di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. 

Ed è sotto gli occhi di tutti quanto il Parlamento sia indebolito, fiaccato, mortificato, così che è difficile rivendicarne il primato, a causa della sua clamorosa crisi di rappresentatività, oltre che della sua riduzione a organo di ratifica di decreti legge e della sua incapacità a offrire soluzioni ai temi politici più controversi e spinosi, dalla disciplina del fine vita a quella dell’ergastolo ostativo. 

 

3. La crescita dell’apatia politica

Se questi sono divenuti i tratti propri della democrazia italiana non c’è da stupirsi che, nel giro di qualche decennio, il nostro sia divenuto un Paese politicamente apatico, connotato da un alto e preoccupante tasso di astensionismo nelle competizioni elettorali di diverso ordine e grado e da ridottissimi livelli di partecipazione politica. 

Dati allarmanti, questi, sinistri scricchiolii dell’edificio democratico che ci consegnano l’immagine di un Paese passivo, nel quale l’effettiva partecipazione alla vita politica è stata sostituita dai continui “sondaggi” elettorali, sempre più simili alle “sonde” che si inseriscono in un corpo malato per mantenerlo in vita in uno stato di passività, senza curarne i mali e senza promuoverne la guarigione. 

Nell’agenda politica della destra – e, per la verità, anche in quella delle forze di opposizione – mancano proposte puntuali e credibili di rinnovamento sui temi sin qui evocati. 

Ad occupare il campo sta invece il progetto di una forma di governo, formalmente ancora parlamentare, ma con forti tratti plebiscitari, personalistici, carismatici, che viene presentata come unico rimedio possibile alla crisi della democrazia e all’instabilità dei governi[2]

Al quadro sin qui velocemente tratteggiato va aggiunta la considerazione che il sistema dell’informazione e la giurisdizione sono, a loro volta, al centro di grandi tensioni. 

Il primo insidiato da concentrazioni che ne limitano libertà e pluralismo, la seconda investita a tutti i livelli – sino alla giurisdizione costituzionale – da attacchi e polemiche furibonde, dirette a minarne la credibilità e sminuirne la legittimazione. 

La somma di questi fenomeni negativi e delle tendenze regressive in atto hanno fatto sì che l’Italia, nel giro di alcuni decenni, abbia cessato di essere il vivace laboratorio di democrazia che era stato negli anni settanta e che abbia oggi un tessuto democratico impoverito e slabbrato. 

Per trovare pensieri ed esperienze indirizzati al rinvigorimento, attraverso la ripresa della partecipazione, dello Stato democratico di diritto bisogna guardare al di là dei confini nazionali. 

 

4. La democrazia deliberativa: le ascendenze teoriche

Nella grande Europa – parliamo del complesso dei Paesi che partecipano del Consiglio di Europa – si ragiona da tempo di democrazia deliberativa come correttivo della crisi della democrazia. 

Come è noto, il concetto di “democrazia deliberativa” – oggetto di un noto saggio di Joseph M. Bessette: Deliberative Democracy. The Majority Principle in Republican Government[3] – ha risalenti e nobili ascendenze teoriche e ha trovato la sua formulazione, oltre che nel saggio citato, anche negli scritti successivi di importanti studiosi. 

Essa è una forma di democrazia nella quale la volontà dei cittadini non si traduce nell’elezione dei rappresentanti, ma viene espressa attraverso un processo basato sulla discussione pubblica tra individui liberi ed eguali. 

Diversa dalla democrazia partecipativa e non alternativa alla democrazia rappresentativa, la democrazia deliberativa si fonda sulla discussione e sul confronto delle opinioni “informate” per favorire la risoluzione di problemi politici e amministrativi. 

Come ha osservato Luigi Bobbio, secondo questa teoria «l’essenza della democrazia non consiste nella conta dei voti tra posizioni precostituite, secondo il principio di maggioranza, o nella negoziazione tra interessi dati, ma nella discussione fondata su argomenti (deliberation, in inglese) tra tutti i soggetti coinvolti dal tema sul tappeto. Le numerose esperienze pratiche che si richiamano alla democrazia deliberativa si fondano perciò su due pilastri: da un lato l’uso del confronto argomentato, dall’altro l’inclusione di tutti gli interessi e i punti di vista che sono toccati dall’oggetto della discussione. La democrazia deliberativa è, quindi, una forma di democrazia partecipativa, ma i suoi contorni sono più circoscritti e più definiti. Esclude la pura e semplice azione di pressione dei movimenti o delle associazioni sulle istituzioni (che invece la democrazia partecipativa sembrerebbe ammettere) e pretende che tra i diversi punti di vista si instauri un confronto dialogico»[4]

 

5. I documenti e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa

Passando dal campo delle riflessioni teoriche a quello degli atti e dei documenti politici, va registrato che, nel report del Consiglio di Europa del 31 gennaio 2023 (elaborato per rispondere alla richiesta del Comitato dei ministri di un rapporto «sulle nuove forme di democrazia deliberativa e partecipativa»[5]), si parte da una diagnosi pessimista sullo stato della democrazia in Europa e segnatamente dalla «frustrazione e dal disimpegno nei confronti dei processi democratici tradizionali». 

Negli ultimi anni – scrivono gli autori del rapporto – la democrazia è stata messa in discussione da una serie di sviluppi deleteri e si è registrata una preoccupante tendenza all’arretramento democratico e alla diminuzione della fiducia nelle istituzioni e nei processi democratici. 

Disaffezione e sfiducia evidenziate «tra l’altro dall’apatia degli elettori, dall’ascesa del nazionalismo, dalla disgregazione della società attraverso la disinformazione, dal clientelismo politico e dalla corruzione».

Di qui l’esigenza che gli Stati membri del Consiglio d’Europa rinnovino il loro impegno a salvaguardare e promuovere un’autentica democrazia, basata sui principi della libertà individuale, della libertà politica, degli altri diritti umani e dello Stato di diritto, come sancito dallo Statuto del Consiglio d’Europa (ETS n. 001), affrontando al contempo le cause profonde dell’arretramento democratico.

La via indicata per il superamento della crisi democratica è quella di «un aumento dell’uso di metodi partecipativi e di iniziative deliberative, in cui i cittadini stessi sono in grado di discutere attivamente le questioni e di fornire raccomandazioni ai governi». 

Non si tratta di una novità – si aggiunge. Già in passato, il Consiglio d’Europa aveva osservato che le aspettative dei cittadini stavano cambiando e che vi era la necessità di un approccio più «diretto» e «consapevole» al tema dell’assetto democratico e di «metodi di partecipazione più diretti, flessibili e ad hoc» che promuovessero il dialogo tra i cittadini e i loro rappresentanti. 

Nel report si ricorda che il lavoro nel campo della democrazia partecipativa è stato condotto per decenni sotto l’egida del Consiglio d’Europa, che ha riconosciuto l’importanza della partecipazione civile al processo democratico, in particolare nel preambolo della Carta europea dell’autonomia locale (ETS n. 122) e nel Protocollo aggiuntivo sul diritto di partecipazione agli affari di un’autorità locale (CETS n. 207).

La democrazia – si afferma nel rapporto – è una delle pietre miliari della pace in Europa e il suo rafforzamento è un fattore di stabilità, insieme allo Stato di diritto e ai diritti umani. 

All’interno del quadro democratico, la democrazia rappresentativa fa parte del patrimonio comune ed è ben consolidata come base per la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica a livello nazionale, regionale e locale.

A sua volta, la “democrazia deliberativa” è una forma di partecipazione a disposizione dei politici e dei legislatori che vogliono ascoltare la voce dei cittadini ed è un modo per dare voce a voci altrimenti inascoltate.

Essa è approfondita e profondamente coinvolgente, e permette ai cittadini di sviluppare raccomandazioni tangibili su ciò che le autorità, a tutti i livelli, dovrebbero fare. 

I metodi deliberativi non sono destinati a sostituire le norme e le pratiche democratiche esistenti, ma possono migliorarle e informarle, se usati correttamente. Essi offrono infatti l’opportunità di aprire il processo democratico a un maggiore coinvolgimento dei cittadini come modo per migliorare i risultati politici e legislativi e per aumentare la fiducia nel processo democratico.

Per garantire che la democrazia deliberativa possa offrire tali benefici è, però, importante che vengano seguiti alcuni principi e standard essenziali che il rapporto si sforza di identificare e descrivere. 

In primo luogo, si mette l’accento sul fatto che il reclutamento dei soggetti coinvolti nelle esperienze di democrazia deliberativa deve garantire che le voci delle minoranze siano presenti, ascoltate e rispettate.

Si sottolinea, poi, che i metodi di lavoro devono essere trasparenti, verificabili e responsabili per garantire che la selezione dei partecipanti sia appropriata, che le prove non siano distorte e che i risultati non siano falsati.

Si ricorda infine che, quando si utilizzano metodi deliberativi, è essenziale che siano adeguatamente finanziati e pianificati. 

Le iniziative deliberative – ribadisce il rapporto – non sono soluzioni perfette da sole. 

Sono necessarie linee guida per supportare i decisori politici e gli operatori del settore nell’utilizzo delle nuove pratiche.

Per i cittadini, inoltre, le iniziative deliberative sono un’esperienza di apprendimento e la loro progettazione deve consentire uno spazio e un tempo sufficiente per l’apprendimento, basato su una solida educazione civica. 

Da ultimo, è fondamentale che venga fornito un riscontro sulle azioni che sono scaturite dalle raccomandazioni.

Il rapporto si conclude affermando che, se fatte bene, le iniziative di democrazia deliberativa possono essere compatibili con una buona governance democratica e possono offrire uno strumento per rendere i risultati delle politiche più rispondenti alle esigenze e alle preoccupazioni delle persone e delle comunità, incoraggiando la fiducia nell’azione pubblica.

Su questa base il Comitato dei ministri del Consiglio di Europa ha adottato due nuove raccomandazioni rivolte agli Stati membri. 

La prima sulla buona governance e la seconda sulla democrazia deliberativa[6]

Mentre la prima raccomandazione «definisce le basi della buona governance democratica e comprende la protezione e la promozione della democrazia, il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, l’etica e l’integrità pubblica, la buona amministrazione e la fornitura di servizi pubblici di alta qualità» e fornisce ulteriori dettagli «sulla base dei 12 principi chiave per guidare le azioni degli organi decisionali e delle istituzioni pubbliche a tutti i livelli e per chiarire gli standard attesi», la seconda ha l’obiettivo di «aiutare gli Stati membri a salvaguardare l’integrità e l’efficacia della democrazia deliberativa e a garantire che i processi deliberativi integrino la democrazia rappresentativa», fornendo principi che riguardano il quadro giuridico, la chiarezza del mandato e della progettazione, l’equa rappresentazione e la responsabilità. 

 

6. Gli esperimenti francesi delle Convenzioni sul clima e sul fine vita

In questi anni, su impulso del Presidente Emmanuel Macron, la Francia è divenuta il più importante laboratorio europeo nel campo della democrazia deliberativa.

 

6.1. La Convenzione sul clima del 2019

Il primo esperimento è stato quello – non particolarmente fruttuoso – della Convenzione cittadina sul clima del 2019. 

Alla Convenzione è stata posta la domanda sulle modalità con cui ridurre, in uno spirito di giustizia sociale, le emissioni “climalteranti” almeno del 40%, entro il 2030. 

Nell’ottobre 2019, aprendo i lavori della Convenzione, Macron chiese ai partecipanti di elaborare proposte di legge sul tema e si impegnò a farle giungere in Parlamento senza filtri, a patto che fossero di qualità e corrette sotto il profilo della tecnica giuridica. 

L’esperimento della Convenzione sul clima si è, però, rivelato particolarmente problematico perché dai suoi lavori sono scaturiti «un programma e una politica per il momento non compatibili con il programma e la politica del potere» (in questi termini si è espresso Loïc Blondiaux, docente di Scienze politiche alla Sorbona, esperto di pratiche deliberative e membro del Comitato di governance). 

Con il risultato che le proposte della Convenzione sul clima non sono state recepite – come ritenuto necessario – nella loro globalità[7]

 

6.2. La Convenzione sul fine vita del 2022

Più incisivo e produttivo di maggiori risultati è stato il successivo esperimento di democrazia deliberativa attuato con la Convenzione sul fine vita. 

Varata il 13 settembre 2022 dal Presidente della Repubblica, la Convention citoyenne sur la fin de vie, gestita dal CESE (Conseil économique, social et environnemental), è stata chiamata a dare risposta alla seguente domanda: il quadro di sostegno del fine vita è adeguato alla diversità di situazioni che si riscontrano nella realtà o dovranno essere introdotte eventuali modifiche[8]?

Claire Thoury, membro del CESE e presidente del Comitato per la governance della Convenzione, ha così illustrato le ragioni dell’istituzione del nuovo organismo:

«Il tema del fine vita richiede l’apertura di un dibattito nazionale, un dialogo tra cittadini di diversa estrazione, rappresentativo delle diverse sensibilità che si esprimono all’interno della società francese, il più vicino possibile alla complessità degli interessi e delle opinioni. Lo strumento della convenzione dei cittadini è l’ideale per condurre questo dibattito e permettere a tutti di esprimere le proprie opinioni, per arrivare a proposte comuni nel rispetto di ogni libertà di parola. La responsabilità nei confronti dei cittadini sarà una pietra miliare del nostro lavoro: questa convenzione deve riportare i cittadini al centro del dibattito pubblico per informare la legislazione futura. Il comitato di governance della Convenzione sul fine vita, garante di dibattiti sereni, sarà particolarmente vigile sul modo in cui le autorità pubbliche assumeranno questo compito».

Alla guida della Convenzione è stato posto un Comitato di governance, con l’incarico di assicurare il monitoraggio metodologico del sistema e garantire i principi di trasparenza e neutralità; comitato presieduto da Claire Thoury, che ha riunito membri del CESE, membri del Comitato consultivo nazionale di etica, una filosofa specializzata in etica della salute, un membro del Centro nazionale per le cure palliative e di fine vita, esperti di partecipazione cittadina e cittadini che hanno partecipato al precedente esperimento della Convenzione cittadina sul clima[9]

A comporre la Convenzione sono stati chiamati 184 cittadini, riuniti per informarsi in modo illuminato, dialogare, dibattere e infine delineare prospettive e ipotesi di soluzione condivise sulla problematica del fine vita. 

I componenti della Convenzione sono stati scelti – questa una delle principali e più qualificanti novità della Convenzione – per sorteggio. 

Un istituto di ricerca e sondaggi, Harris Interactive, è stato incaricato di estrarre a sorte numeri di telefono generati casualmente (85% da cellulare e 15% da rete fissa) e di effettuare telefonate per identificare il numero necessario di cittadini rappresentativi della diversità della società francese.

Per garantire il fedele rispecchiamento, in seno alla Convenzione, delle diversità della società francese, il Comitato di governance ha deciso di adottare sei criteri di selezione e di provvista del nuovo organismo: il sesso; l’età (con la definizione di sei fasce, a partire dai 18 anni, proporzionali alla distribuzione della popolazione in classi di età); il territorio di residenza (centri urbani, periferie interne, comuni rurali, etc.); la regione di origine (tenendo conto del differente peso demografico di ciascuna di esse); il livello di istruzione (articolato in sei categorie); la categoria socio-professionale (lavoratori, impiegati, dirigenti, etc.). 

La Convenzione è stata dunque concepita e attuata come un microcosmo rappresentativo della società francese, come un campione – il più possibile fedele – del corpo sociale, da mettere al lavoro sul tema del fine vita. 

E di un vero e proprio lavoro si è trattato, fatto di audizioni, discussioni, deliberazione e votazione di “proposizioni” sul quesito posto. 

Nel corso di nove sessioni, ciascuna della durata di tre giorni, svoltesi lungo l’arco di 27 giorni tra il dicembre 2022 e l’aprile 2023, i componenti della Convenzione sono stati impegnati nell’ascolto di esperti francesi e internazionali operanti in campi differenti (giuridico, medico, religioso, filosofico) e nell’acquisizione, in un contesto di pluralismo ideale e culturale, delle conoscenze necessarie per maturare un’opinione informata, formulare meditate risposte al quesito posto e deliberare proposizioni sul fine vita.

 

6.3. Natura e funzione della Convenzione

Nel valutare la natura e le funzioni della Convenzione, va sottolineato che essa non è un organismo consultivo classico, perché non è portatrice di uno specifico sapere giuridico o tecnico da trasfondere ai decisori politici. 

Al suo interno possono ben essere presenti, come nel corpo della società civile francese, detentori di specifiche competenze (di volta in volta scientifiche, economiche, giuridiche, tecniche); ma, nel dare risposta al quesito posto sul fine vita, gli apporti dei “competenti” sono destinati a fondersi con le opinioni e i punti vista di tutti gli altri membri della Convenzione, al pari di quanto accade nella vita sociale. 

Per altro verso, non essendo eletta da appartenenti a categorie socio-professionali né espressa dalle loro associazioni, la Convenzione non può neppure essere considerata come un organismo rappresentativo degli interessi e degli orientamenti di gruppi sociali ed economici. 

Né la Convenzione può essere annoverata, sic et simpliciter, tra gli strumenti di democrazia diretta o partecipativa perché la sua azione non è indirizzata a promuovere il voto popolare su di una legge (come nei casi del referendum abrogativo o confermativo) o a stimolare l’intervento del legislatore (come nel caso dell’iniziativa legislativa popolare) e neppure costituisce parte integrante, sotto il profilo strettamente istituzionale, del processo di adozione di una decisione politico-amministrativa. 

Infine, nonostante la procedura per la sua provvista sia affidata alla sorte, l’organismo non può neppure essere qualificato come espressione della “democrazia del sorteggio”. 

Al sorteggio, infatti, non si fa ricorso per realizzare una selezione di governanti o comunque di soggetti chiamati a esercitare pubblici uffici, con lo scopo di dar vita a una «rappresentanza non politica che si proponga come specchio della società, che selezioni casualmente le opzioni, gli umori, le stesse inadeguatezze degli attori sorteggiati a partire da una rappresentazione statistica delle varie situazioni sociali»[10].

Si è voluto, invece, ricreare una agorà, costruire un luogo di discussione e di confronto per favorire la libera espressione di opinioni al fine di far conoscere ai decisori politici gli orientamenti della popolazione su di un tema potenzialmente divisivo. 

Le peculiari caratteristiche della Convenzione – che la collocano al di fuori degli schemi tradizionali della funzione consultiva, della rappresentanza di interessi e della democrazia diretta e partecipativa – vanno ricercate altrove: 

- nelle modalità della sua formazione: un sorteggio attuato con tecniche dirette a dar vita a un campione stratificato, in grado di rispecchiare fedelmente la popolazione;

- nel metodo di lavoro adottato: il dialogo informato, svolto in uno spazio neutrale e garantito dalle istituzioni, nel quale vengono fornite ai partecipanti informazioni e testimonianze di esperti e si assicurano le condizioni di un ampio confronto delle idee e delle opinioni;

- nella funzione svolta: potenziamento dell’opinione dei cittadini, garanzia di ascolto della loro voce da parte delle istituzioni, ausilio democratico ai processi decisionali. 

In luogo del classico sondaggio – che registra l’opinione pubblica “grezza” del cittadino, espressa a partire dalle informazioni di cui egli autonomamente dispone –, nell’esperimento della Convenzione si realizza un “sondaggio deliberativo”[11] connotato dall’offerta di informazioni ai componenti di un “campione”[12] rappresentativo della popolazione e dall’invito rivolto ai partecipanti al sondaggio a dibattere, ed eventualmente a modificare, le posizioni di partenza sul tema oggetto di discussione. 

Si è dunque di fronte a un esperimento di democrazia deliberativa, imperniato sull’uguaglianza effettiva dei partecipanti (nel contesto della Convenzione), sull’accettazione delle diversità delle opinioni e sulla equità e neutralità delle condizioni in cui si svolge il processo deliberativo. 

La Convenzione si pone così come strumento di integrazione della democrazia rappresentativa, che dai modelli partecipativi di ispirazione deliberativa riceve nuova linfa. 

Se in una democrazia rappresentativa «che rispetti quanto più possibile i suoi principi normativi, partecipazione e deliberazione si manifestano in forme libere e spontanee, all’interno di una sfera pubblica critica e di una società civile ben articolata» è possibile incanalare, come avvenuto con la Convenzione, «partecipazione e deliberazione in specifici spazi e momenti, istituti e procedure progettati ad hoc, che connettano in modo sistematico e strutturato i processi di formazione delle opinioni politiche e dei giudizi dei cittadini, da un lato, e le procedure istituzionali di formazione delle decisioni politiche amministrative, dall’altro»[13].

In questo schema rientrano i Deliberative Polling, le giurie cittadine e le numerose varianti di mini-publics[14] destinate a svolgere una funzione di ausilio democratico nei processi decisionali dei tradizionali istituti rappresentativi. 

Nel caso della Convenzione francese sul fine vita, il ricorso alla democrazia deliberativa ha uno specifico valore aggiunto, che consiste nella possibilità di superare – grazie al senso della realtà e al pragmatismo dei cittadini comuni – eventuali pregiudiziali culturali e ideologiche delle forze politiche sull’eutanasia e sull’aiuto al suicidio. 

 

6.4. I risultati della Convenzione

Al termine di un dibattito definito “vivace e rispettoso”, la Convenzione dei cittadini ha votato a maggioranza (75,6% dei votanti) a favore dell’assistenza attiva nel morire, ritenuta il modo più appropriato per rispettare la libertà di scelta dei cittadini e per rimediare alle carenze del quadro giuridico, in particolare ai limiti della sedazione profonda e continua. 

Inoltre – ha soggiunto la maggioranza della Convenzione –, questa soluzione porrebbe fine all’ipocrisia con cui ancora viene affrontato il tema del fine vita. 

È emersa, dunque, in seno alla Convenzione una posizione maggioritaria sulla «necessità di introdurre sia il suicidio assistito che l’eutanasia, nella misura in cui il suicidio assistito da solo o l’eutanasia da sola non danno risposte soddisfacenti all’insieme di situazioni riscontrate».

Per una parte dei componenti della Convenzione, il 28,2%, «il suicidio assistito dovrebbe prevalere e l’eutanasia dovrebbe rimanere un’eccezione». Per altri, il 39,9%, «il suicidio assistito e l’eutanasia dovrebbero essere l’oggetto di una libera scelta».

Circa un quarto dei cittadini (il 23,2%) si è dichiarato contrario all’introduzione di forme di assistenza attiva nel morire, sottolineando la mancanza di conoscenza e la scarsa applicazione della legge “Claeys-Leonetti” del 2016 e ritenendo preferibile puntare sulla piena applicazione della normativa già in vigore. 

Particolarmente forti, nei sostenitori di questa posizione, sono stati i timori di possibili abusi ai danni di persone vulnerabili (non autosufficienti, disabili o con deficit di discernimento, etc.) e di destabilizzazione del sistema sanitario in conseguenza delle resistenze degli operatori sanitari. 

Nel definire le situazioni che possono dare accesso all’aiuto attivo a morire, si è naturalmente posto l’accento sul prerequisito indispensabile della volontà del paziente e sono stati individuati i principali criteri cui fare riferimento: la capacità di intendere e di volere, la consapevolezza[15], l’incurabilità[16], la prognosi vitale, la sofferenza (refrattaria, fisica, psicologica, esistenziale), l’età[17].

Da ultimo, la Convenzione ha delineato il percorso da seguire per ottenere l’assistenza attiva nel morire individuando una sequenza, che prevede: 

- l’ascolto della richiesta, che deve garantire che la volontà espressa sia libera e informata; 

- un supporto medico e psicologico completo, che includa una valutazione della consapevolezza del richiedente dell’assistenza; 

- una convalida attraverso una procedura collegiale e multidisciplinare; 

- l’esecuzione della procedura sotto la supervisione della professione medica (anche in caso di suicidio assistito) in un luogo scelto dalla persona (sia esso una struttura medica o il domicilio); 

- l’istituzione di una commissione di monitoraggio e controllo che garantisca il rispetto della procedura.

La grande maggioranza dei membri della Convenzione (il 78%) ha infine ritenuto che debba essere riconosciuto agli operatori sanitari il diritto all’obiezione di coscienza, con il conseguente indirizzo dei pazienti a un sanitario non obiettore. 

Dopo la consegna del rapporto della Convenzione, è iniziata una nuova fase contrassegnata dal confronto con la politica, le istituzioni, i media

Riassumendo l’iniziativa, il Presidente Macron ha dichiarato di volere un progetto di legge sul fine vita «entro la fine dell’estate 2023» – progetto poi effettivamente presentato – e, intervenendo dinanzi alla Convenzione civica nazionale sul fine vita, ha promesso un «piano decennale nazionale per l’assistenza al dolore e per le cure palliative che verrà accompagnato dai “necessari investimenti”». 

 

7. La realtà italiana

Nel nostro Paese non è mancata la riflessione sul principio costituzionale di partecipazione e sulle forme di realizzazione di una democrazia partecipativa, mentre sulla democrazia deliberativa la riflessione teorica è ancora agli inizi e mancano, tranne qualche modesto esperimento, realizzazioni significative. 

L’impressione è che la parabola discendente della partecipazione abbia compromesso e scoraggiato anche l’analisi teorica e la sperimentazione di forme di democrazia deliberativa che pure trovano nell’art. 3, comma 2 della Costituzione la loro piena legittimazione.

Nella lettura dell’art. 3 cpv della Costituzione si è soliti porre l’accento sulla innovativa formulazione del principio di eguaglianza sostanziale. 

Ma non meno rilevante è il nesso che la Carta istituisce tra eguaglianza di fatto ed effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 

L’impegno della Repubblica – cioè dello Stato apparato e dello Stato comunità – alla rimozione degli ostacoli all’eguaglianza sostanziale è, infatti, indicato in Costituzione come condizione necessaria per assicurare l’«effettiva partecipazione» dei lavoratori alla vita economica, sociale e politica del Paese e tale partecipazione, a sua volta, è strumento indispensabile per la realizzazione di una politica di eguaglianza. 

In sostanza, a venire in primo piano, nel fondamentale art. 3, è il nesso inscindibile tra democrazia economica e sociale e una democrazia politica che non si esprime solo nel voto e attraverso la rappresentanza, ma è integrata e arricchita da ulteriori strumenti di coinvolgimento dei cittadini nel governo della società e delle istituzioni. 

Ed è stato sotto l’egida di questa “apertura” costituzionale che si sono svolte le esperienze di partecipazione diretta degli anni settanta e ottanta che hanno immesso libertà ed eguaglianza tanto in settori della società – come la fabbrica e la scuola – in precedenza connotati da un rigido assetto gerarchico, quanto nelle istituzioni, arricchite da forme di decentramento dirette a creare un rapporto più ravvicinato tra cittadini e amministrazione. 

Nonostante quella stagione abbia prodotto modificazioni profonde nel tessuto democratico del Paese, ad essa ha poi fatto seguito un lungo inverno di depressione democratica, caratterizzato dai fenomeni involutivi prima richiamati: degrado e crisi dei partiti politici, personalizzazione della politica, introduzione di norme che hanno distorto e mortificato il sistema per l’elezione del Parlamento nazionale… 

Il declino della partecipazione politica non può però essere considerato ineluttabile e passivamente accettato da quanti ancora credono nella democrazia e non si sono rassegnati a viverne una versione impoverita e minore, governata da pochi leader o da oligarchie interne ai partiti, che hanno nelle loro mani tutto il potere di formazione delle rappresentanze politiche.

Se è vero che la partecipazione dei cittadini alla politica e all’amministrazione non potrà rinascere per decreto ma solo per effetto di una forte domanda popolare proveniente dalla società civile, le istituzioni repubblicane – prime tra tutte le amministrazioni dei Comuni e delle Regioni – possono sin d’ora stimolare un più diretto intervento degli amministrati nelle decisioni riguardanti la cosa pubblica attraverso il canale della democrazia deliberativa. 

Essenziale per garantire le forme di partecipazione politica diretta, l’apertura costituzionale dettata dall’art. 3 della Costituzione offre infatti piena legittimazione anche alle sperimentazioni di democrazia deliberativa, che potrebbero essere modellate sulle più significative esperienze straniere, opportunamente adattate al contesto economico, sociale e politico del nostro Paese.

 

 

1. E. Cheli, Una legge quadro per i partiti, Il Mulino, n. 6/2011 (novembre-dicembre), pp. 923-928; Id., La democrazia interna dei partiti politici: un percorso solo avviato, ivi, n. 6/2019 (novembre-dicembre), pp. 902-907. 

2. Nel panorama, ormai molto vasto, degli scritti sul premierato elettivo, mi sia consentito di richiamare in questa sede il mio articolo, Presidenzialismo e premierato: i riflessi sul giudiziario (già in Questione giustizia online, 17 maggio 2023, ora in questa Rivista trimestrale, n. 1/2023 - Editoriale -, pp. 4-9, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1065/1_2023_qg_editoriale.pdf), che analizza l’impatto della prospettata riforma sugli organi del giudiziario. 

3. Il saggio è stato pubblicato nel 1980 dall’American Enterprise Institute (Washington D.C.), nella raccolta di saggi dal titolo How Democratic is the Costitution?. Dello stesso A. vds. The Mild Voice of Reason Deliberative Democracy and American National Government, University of Chicago Press, 1994, pp. XVI, 289; J.M. Bessette e J.J. Pitney, American Government and Politics: Deliberation, Democracy and Citizenship - No Separate Policy Chapters, Cengage Learning, Boston (MA), 2013. 

4. L. Bobbio, Dilemmi della democrazia partecipativa, in Democrazia e diritto, n. 4/2006, pp. 11-26. 

5. Il report aveva lo scopo di integrare la raccomandazione CM/Rec(2018)4 del Comitato dei ministri agli Stati membri sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica locale, tenendo conto delle linee guida del 2017 sulla partecipazione civile ai processi decisionali. 

6. Preparate dal Comitato europeo per la democrazia e la governance (CDDG), queste due raccomandazioni contribuiscono a mettere in pratica le decisioni prese al 4° Vertice dei Capi di Stato e di governo del Consiglio d’Europa (Reykjavík, 16-17 maggio 2023), in particolar modo la Dichiarazione di Reykjavík: Uniti attorno ai nostri valori (https://rm.coe.int/4th-summit-of-heads-of-state-and-government-of-the-council-of-europe/1680ab40c1), e i Principi di Reykjavík per la democrazia, in cui gli Stati membri si sono impegnati a «garantire e rafforzare la democrazia e la buona governance a tutti i livelli in Europa» e a «consentire e incoraggiare attivamente la partecipazione democratica a livello nazionale, regionale e locale attraverso elezioni libere ed eque. Se opportuno, possono essere incoraggiate forme di democrazia partecipativa, compresa la democrazia deliberativa» (Principio 1 – vds. link cit., Appendice III, p. 15). 

7. Su questi aspetti vds. A. Bertello, Cittadini per il clima, Il Mulino, 30 settembre 2020. 

8. Questo il testo del quesito sottoposto alla Convenzione: «Le cadre d’accompagnement de la fin de vie est-il adapté aux différentes situations rencontrées ou d’éventuels changements devraient-ils être introduits?» (https://conventioncitoyennesurlafindevie.lecese.fr/).

9. Nel Comitato di governance erano presenti:

- sei rappresentanti del CESE (Claire THOURY, presidente del Comitato di governance; Fanny ARAV, gruppo UNSA del CESE; Michel CHASSANG, gruppo delle libere professioni del CESE; Benoît GARCIA, gruppo CGT del CESE; Jacques LANDRIOT, gruppo di cooperazione del CESE; Kenza OCCANSEY, gruppo delle organizzazioni studentesche e dei movimenti giovanili del CESE); 

- tre rappresentanti della comunità di ricerca universitaria (Cynthia FLEURY, docente del Conservatorio Nazionale di Arti e Mestieri; Hélène LANDEMORE, docente di Scienze politiche alla Yale University; Sandrine RUI, docente e sociologia, ricercatrice presso il Centro “Émile Durkheim”, Università di Bordeaux, Facoltà di Sociologia); 

- due rappresentanti del Comitato consultivo nazionale di Etica per le Scienze della Vita e della Salute (Jean-François DELFRAISSY e François STASSE); 

- un rappresentante del Centro nazionale per le Cure palliative e di fine vita – CNSPFV – (Giovanna MARSICO, direttrice del Centro); 

- due cittadini che hanno partecipato alla Convenzione sul clima (Jean-Pierre CABROL e Matteo SANCHEZ).

10. Così N. Urbinati e L. Vandelli, La democrazia del sorteggio, Einaudi, Torino (Introduzione), p. 46. Sul tema dei limiti della democrazia rappresentativa vds. anche, sempre di N. Urbinati, Representative Democracy. Principles and genealogy, University of Chicago Press, 2006, e Democracy Disfigured: Opinion, Truth, and People, Harvard University Press, Cambridge (MA), 2014. 

11. Sulla democrazia deliberativa c’è una ampia letteratura. Per una compiuta analisi della teoria, cfr. J. Fishkin, La nostra voce, Marsilio, Padova, 2003. Tra gli autori italiani, vds. D. Della Porta, Democrazie, Il Mulino, Bologna, 2011. 

12. Il ricorso al campionamento e al sorteggio connota la democrazia deliberativa tutte le volte che si varca la soglia delle piccole assemblee che dibattono e decidono questioni amministrative locali e si entra nelle democrazie dei grandi numeri. 

13. Così A. Floridia, Democrazia partecipativa e democrazia deliberativa: una risposta plausibile alla “crisi della democrazia?”, apparso sul sito web della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 29 marzo 2019.

14. Le deliberative mini-publics sono tutte le istituzioni nelle quali un corpo differenziato di cittadini è selezionato a caso per discutere insieme una questione di interesse pubblico. Sul tema, vds. G. Smith e M. Setälä, Mini-Publics and Deliberative Democracy, in Aa.Vv., The Oxford Handbook of Deliberative Democracy, Oxford Academic, Ed. online, 2018 (uscita: 9 ottobre), parte III, cap. 18, pp. 300-318. 

15. Secondo i componenti della Convenzione, la capacità di intendere e la consapevolezza della scelta da compiere devono essere sistematicamente prese in considerazione e analizzate, in modo da garantire il rispetto della volontà libera e informata del paziente. Esse possono essere espresse direttamente o indirettamente, attraverso le direttive anticipate o la persona di fiducia. 

16. I criteri di incurabilità, sofferenza refrattaria e sofferenza fisica sono considerati di primaria importanza. È stata posta anche la questione della prognosi vitale. Per la minoranza che sostiene una forma di accesso universale (senza condizioni, se non la volontà del paziente – 21,7%), l’accesso all’assistenza attiva nel morire è subordinato a un processo e a un sostegno, senza che si tenga conto di alcuna condizione medica. Questo modo egualitario e universale di pensare all’assistenza attiva nel morire potrebbe consentire di rispondere a tutte le situazioni, comprese le condizioni di accesso, le garanzie e i meccanismi di controllo. 

17. Sulla questione dell’età, e in particolare sull’accesso all’assistenza attiva nel morire per i minori, dai lavori della Convenzione non sono emerse considerazioni conclusive. I favorevoli all’accesso dei minori sottolineano che essi possono trovarsi in situazioni di malattia e di sofferenza intrattabili, al pari del resto della popolazione. Altri ritengono che la volontà sia più complessa da determinare nel caso dei minori, le cui volontà devono essere conciliate con quelle dei loro rappresentanti legali.