L’inafferrabile Stato di diritto
Il seminario fiorentino che è alla base di questo “Speciale” di Questione giustizia è stato ideato e progettato in tempi molto ridotti, e ancora più breve è stato il tempo a disposizione per la “lavorazione” dei contributi di relatrici e relatori, una volta che la redazione si è posta l’obiettivo di chiudere e pubblicare tutto prima delle elezioni per il Parlamento europeo. Obiettivo simbolico e culturale, naturalmente, visto che – mi permetto di credere – nessuno tra coloro che hanno partecipato ha un livello di autostima così elevato da pensare di poter spostare masse di elettori con la forza delle proprie parole… Ma i valori in gioco sono tali da rendere una testimonianza comunque importante.
La velocità è stata resa possibile dalla somma di due fattori. Il primo, decisivo nel rush finale, è costituito dall’energia dei redattori di Questione giustizia, Sara Cocchi, Alice Metulini e Mosè Carrara. Il secondo va cercato ripercorrendo all’indietro gli ultimi anni, durante i quali vi sono state più occasioni di collaborazione, a differenti livelli, tra il Dipartimento di Scienze giuridiche di Firenze, Questione giustizia e MEDEL, che hanno permesso di valorizzare le competenze di un numero rilevante di giovani studiosi che ruotano attorno al Dipartimento e di creare occasioni di dialogo tra magistrati e accademici, altrimenti non così frequenti come sarebbe auspicabile.
È significativo che, nell’ambito di questa collaborazione, per la seconda volta ci si ritrovi a organizzare un’iniziativa nel cui titolo compare l’espressione “Stato di diritto” o “rule of law”. Chi legge ricorderà, infatti, l’iniziativa di grande respiro – oggettivamente innovativa – che portò al Convegno internazionale del settembre 2020 su «Public prosecution and rule of law in Europe», che apriva una finestra su una dimensione poco studiata dello Stato di diritto, la cui rappresentazione è tradizionalmente sbilanciata verso la figura del giudice. Già in quell’occasione era vivo l’allarme (pensiamo al caso polacco) per il rischio che, passando dalla poca sorvegliata porta del pubblico ministero, le cittadelle degli ordinamenti giuridici espressi dalle democrazie europee potessero essere espugnate dalle variegate legioni delle “democrazie autoritarie” in essere o in the making.
In questo caso lo sguardo è stato ancora più alto, visto che si sono andati abbracciando interrogativi sullo stato delle democrazie in generale, sui quali mi guardo bene dall’aggiungere anche solo una parola di circostanza, vista la difficoltà del tema. Una brevissima riflessione mi viene spontanea, invece, sull’altro dei due assi portanti della discussione svolta a Firenze, ossia quello dello Stato di diritto, a partire da quanto osservato svolgendo il mestiere di comparatista.
Più il dibattito sulla crisi dello Stato di diritto in Europa diventa ricco e articolato, più appare chiara la difficoltà della sfida raccolta da chi lo vuole difendere, non solo per l’aggressività degli avversari, ma per il suo carattere massimamente sfuggente, una volta che lo si osservi nelle sue declinazioni nazionali. Le vicende polacche e ungheresi, con le strategie elaborate dai Governi per difendere in sede europea gli interventi volti a controllare la magistratura, lo hanno mostrato con brutale evidenza. Pescando nella varietà dei modelli organizzativi del potere giudiziario esistenti in Europa è, infatti, relativamente semplice trovare soluzioni che implicano potenzialmente le stesse criticità emerse in Polonia e Ungheria, ma che – di fatto – non sono state utilizzate per squilibrare il rapporto tra potere esecutivo e giudiziario. Chi andasse, ad esempio, a vedere il modello di reclutamento e progressione in carriera dei magistrati nelle democrazie nordiche, e lo pensasse in mano a certi decision makers nostrani, suderebbe freddo, un po’ come avveniva, prima del Constitutional Reform Act del 2005, agli osservatori continentali del Lord Chancellor inglese, quando si scherzava sulle sue caratteristiche di “negazione vivente della separazione dei poteri”.
Le vicende di questi ultimi anni hanno certo permesso di distillare – non senza fatica – un concetto di rule of law ancorato nelle carte europee, che appare – forse – sufficiente a servire da parametro per battaglie giudiziarie che poi, inevitabilmente, devono essere combattute anche su un piano politico. Ma “cristallizzare” lo Stato di diritto è oggettivamente difficile. Le democrazie occidentali, e la stessa Europa, hanno ad esempio inevitabilmente dovuto, nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, maneggiare visioni della rule of law assai differenti tra di loro, già a partire dal filone di studi su law & development fiorito negli anni cinquanta e sessanta[1]. In una classica storia intellettuale della rule of law, Brian Tamanaha non a caso scriveva che «esistono altrettante concezioni della rule of law quante sono le persone che la difendono»[2]. Per certi versi si potrebbe utilizzare una metafora organicista, in cui l’organismo è rappresentato dall’ordinamento giuridico osservato nella sua effettività, a prescindere da ogni giudizio di valore, “alla Santi Romano”. Così visto, lo Stato di diritto potrebbe avere la stessa funzione descrittiva dell’idea di “salute”, quella che la Treccani definisce come «stato di benessere (…), espressione di normalità strutturale e funzionale dell’organismo considerato nel suo insieme». Come la “salute”, anche lo “Stato di diritto” è molto legato alla sua percezione soggettiva, e tipicamente comincia a ricevere cure e attenzioni quando lo si avverte in bilico, magari sulla base di sintomi poco chiari, non ancora riconducibili a una specifica patologia, e dopo averlo trascurato pensando ad altro.
Forse, in questi tempi di urne prossime all’apertura e scenari internazionali turbolenti, varrebbe la pena di capire se esiste un’idea complessiva di Stato di diritto che possa trasmettere, anche a chi non si appassiona all’elaborazione teorico-giuridica, la percezione di cosa sia effettivamente in gioco. Rimanendo alle parole, la migliore sintesi dello “Stato di diritto” direi che ce la forniscono sempre quelle della Costituzione del Massachusetts del 1780, dove parla di «governo di leggi, non di uomini»[3] («government of laws, not of men»). Ma la sua vera sostanza è – crediamo – nella percezione che quando ci troviamo soli e inermi di fronte a un’autorità di qualunque tipo non siamo alla mercé di questa, perché da qualche parte è stato deciso cosa è giusto o meno, senza che ciò possa cambiare per l’umore o le preferenze del giorno di chi veste un’uniforme o pensa – a torto o a ragione – di essere “nell’esercizio delle proprie funzioni”.
Quella dello Stato di diritto è, naturalmente, una storia che ha un mainstream nella cultura giuridica e nei grandi testi costituzionali europei e americani, ma che ha ramificazioni anche in luoghi e momenti che non ci aspetteremmo. La Turchia, che dello Stato di diritto ora sta facendo strame, ha ad esempio una sua nobile storia di modernizzazione giuridica con le Tanzimat, le “riforme benefiche” avviate nel 1839 con il “rescritto di Gülhane”, che porteranno all’istituzione di corti moderne, nella struttura e nelle funzioni, nel 1864. Un processo, questo, a lungo considerato come una semplice imitazione acritica di modelli occidentali, e che gli storici più avveduti stanno ora invece rileggendo in modo molto più complesso[4]. Le caratteristiche e la specificità dello “Stato di diritto ottomano” sono state oggetto di uno studio molto interessante a partire da un famoso processo politico[5], ma possiamo trovare anche un’inattesa emersione nella cultura generale, in un testo teatrale messo in scena a Istanbul nel 1874, per diventare poi un passaggio importante nella costruzione dell’identità nazionale albanese (la “rinascita nazionale” – Rilindja kombëtare) nell’ultima fase dell’Impero ottomano. Si tratta di Besâ yâhut Âhde Vefa (“La besâ o della lealtà a un giuramento”) dello scrittore, drammaturgo e lessicografo Şemseddin Sami Bey, noto come Sami Frashëri. In uno dei passaggi del complesso intreccio di vicende legate all’onore e alla fedeltà assoluta alla parola data, il principale personaggio, Zübeyr, è minacciato da tale Demir Ağa che vuole costringerlo, in quanto di rango sociale inferiore, a dare la figlia in sposa contro la sua volontà al “cattivo” della storia, Selfo. Già il titolo “ağa” (“signore”, “superiore”, “padrone” o ”fratello maggiore”), che fa parte del suo nome, ci dice che questo Demir Ağa è un ufficiale o un funzionario o comunque “uno che conta”. Ciò nonostante, Zübeyr non ha timore a rifiutare di obbedire, proprio perché si sente protetto dal “nuovo diritto” del padiscià, del sultano: «Una volta potevate fare queste cose, ma non oggi (…). Questa è l’era delle Gloriose Tanzimat. Oggi è il nostro padiscià che si dà molta pena per proteggere la nostra vita, il nostro onore e le nostre fortune. I tempi che conoscevate sono passati»[6]. Erano d’altronde trascorsi dieci anni dalla realizzazione del nuovo ordinamento giudiziario, e Sami Frashëri può quindi ormai scrivere sapendo che delle corti con dei giudici che si pensano indipendenti ci sono. Ma ovviamente, allora come oggi, quelli che si sentono “ağa” rispetto a qualcun altro sono tanti. E non è escluso che – con gli strumenti della democrazia – non riescano a far uscire dalle urne un nuovo “padiscià”, mal disposto verso i giudici.
1. La classica ricostruzione critica è quella di D. Trubek e M. Galanter, Scholars in Self-Estrangement: Some Reflections on the Crisis in Law and Development Studies in the United States, in Wisconsin Law Review, n. 4/1974, pp. 1062-1102.
2. B.Z. Tamanaha, On the Rule of Law: History, Politics, Theory, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 2004, p. 3.
3. Vds. la prima parte («Declaration of the Rights of the Inhabitants of the Commonwealth of Massachusetts»), all’art. XXX. Per un uso di questa famosa frase, vds. W.T. Gaynor, A Government of Laws, Not of Men, in North American Review, vol. 176, febbraio 1903, pp. 282 ss.
4. L’opera di riferimento è, in questo caso, A. Rubin, Ottoman Nizamiye Courts. Law and Modernity, Palgrave Macmillan, New York, 2011.
5. Sempre A. Rubin, Ottoman Rule of Law and the Modern Political Trial: The Yildiz Case, Syracuse University Press, Syracuse (NY), 2018.
6. G. Gawrych, The Crescent and the Eagle. Ottoman Rule, Islam, and the Albanians, 1874-1913, Tauris, Londra-New York, 2006, p. 10.