Verso le elezioni europee. L’importanza della rule of law: capire di più per un voto consapevole
La rule of law, o Stato di diritto, non è questione per soli giuristi e iniziati. Essa concentra la radice delle nostre democrazie e riguarda la nostra vita quotidiana. L’esperienza di questi anni fuori e dentro l’Europa ci dimostra che, togliendo poco a poco garanzie e controlli, nella stanchezza e nell’indifferenza dei più e grazie alla concentrazione del potere in poche mani, le “democrazie illiberali” stanno trasformando le persone da cittadini liberi e responsabili delle proprie scelte in sudditi poco informati e scarsamente consapevoli.
Comprendere che questo sta accadendo e può accadere è il primo antidoto verso derive populiste e, in fondo, aggressive, che svuotano la Carta europea e le Costituzioni nazionali su cui si è fondata per l’Europa una lunga epoca di pace e di democrazia.
1. Premessa / 2. La rule of law e lo Stato di diritto nel contesto globale / 3. La rule of law nel contesto delle Nazioni Unite / 4. La rule of law nella dimensione europea / 5. La rule of law nel contesto italiano
1. Premessa
Con l’approssimarsi delle elezioni europee aumenta la percezione di essere davanti a una sorta di spartiacque che marcherà in modo molto significativo il futuro dell’Unione europea e dei suoi cittadini. Con tutte le conseguenze che questo avrà nel più vasto contesto internazionale segnato da guerre, conflitti non dichiarati e crescenti ingiustizie.
A questa percezione si accompagna la constatazione che il dibattito politico in corso in Italia appare molto lontano dalla dimensione delle scelte che siamo chiamati a compiere, concentrato più su obiettivi nazionali che sulla reale posta in gioco a livello internazionale.
La circostanza che il dibattito pre-elettorale si muova attorno a stereotipi e vicende di piccolo cabotaggio, senza mettere gli elettori in condizione di conoscere le proposte avanzate sui temi reali che l’Europarlamento e le istituzioni europee hanno davanti, ha in sé una profonda valenza politica e culturale: veniamo considerati sempre meno come cittadini europei e sempre più come figli delle “nostre” questioni domestiche. Da questa tendenza, certo non iniziata adesso, discende un grave impoverimento collettivo, del tutto funzionale all’idea che l’Europa debba collocarsi ai margini della nostra vita e non essere, come invece è sul piano obiettivo e ideale, la dimensione odierna in cui viviamo e operiamo.
Tornare a riflettere sui temi fondamentali delle elezioni europee appare, dunque, necessario. Questo l’obiettivo di due seminari ravvicinati che MEDEL, Magistratura democratica, la Fondazione Lelio e Lisli Basso, il Movimento Europeo e la rivista Questione giustizia hanno organizzato il 5 aprile, con la collaborazione e l’ospitalità del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università fiorentina, e il 12 aprile, con la collaborazione e l’ospitalità della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. Il primo incontro ha avuto come oggetto «Democrazia e rule of law in Europa»; il secondo è stato dedicato a «Immigrazione in Europa e diritti fondamentali».
Al di là della natura tecnica propria di temi complessi come lo Stato di diritto, l’immigrazione e i diritti fondamentali, questi possiedono una radicale valenza politica che va al cuore della costruzione europea e delle istituzioni nazionali e che condiziona altrettanto profondamente la vita quotidiana delle persone, la loro cultura e le loro relazioni: spesso ben oltre la percezione che abbiamo di quei temi e dei loro contenuti. Di questo intendiamo parlare[1].
La Rivista ha ritenuto necessario mettere subito a disposizione, e non solo dei giuristi, le informazioni e gli spunti di riflessione emersi nel dibattito fiorentino dedicato alla rule of law. Un tema che riceve nel dibattito pubblico un’attenzione minore e, soprattutto, disorganica, cosa che non consente di cogliere con immediatezza la portata decisiva di quanto sta avvenendo sulla qualità complessiva della democrazia in Italia e in Europa. Perché di questo si tratta: chi vuole un’Europa più debole e, parallelamente, vuole sistemi nazionali che scivolano verso la concentrazione del potere in poche mani sta mettendo in crisi l’intero sistema di valori che ha garantito all’Europa 80 anni di pace e di miglioramento della qualità della vita di (quasi) tutti coloro che vi abitano.
2. La rule of law e lo Stato di diritto nel contesto globale
Nel contesto internazionale, l’espressione “rule of law”, nella sostanza coincidente con quella italiana di “Stato di diritto”, esprime un punto di approdo del percorso verso la costruzione di società e istituzioni democratiche. Potremmo dire che non esiste sistema di democrazia (in particolare, di democrazia costituzionale) che non contempli i principi e le pratiche di rule of law quali elementi essenziali. A questo si accompagna la constatazione che la compressione della rule of law impatta decisamente e concretamente sui livelli di reale democraticità del singolo Paese così come delle istituzioni sovranazionali.
In estrema sintesi, il sistema di rule of law si basa sull’idea che le istituzioni democratiche, cioè fondate sulla volontà popolare e sulla libera dialettica tra i cittadini e le istituzioni, esigono un rapporto di mutua indipendenza tra i tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo e giudiziario. Potremmo aggiungere che alla reciproca indipendenza devono accompagnarsi il reciproco rispetto e la pari dignità, così che, è bene chiarirlo subito, il mandato elettivo conferito ai rappresentanti parlamentari non legittima poteri e facoltà che vadano oltre i limiti fissati dalle regole fondamentali su cui l’intero impianto istituzionale si regge. Ciò è tanto più vero e cogente in sistemi di democrazia costituzionale, quale la stessa Unione europea può considerarsi alla luce dei valori fissati nella sua Carta[2]. Allo stesso tempo, il potere esecutivo e quello giudiziario devono operare entro i limiti che il sistema costituzionale fissa per assicurare una corretta ed efficace dialettica fra le istituzioni. Senza dimenticare che alla base della convivenza civile di una comunità esistono principi fondamentali e un sistema di diritti e doveri delle persone che rappresentano il riferimento imprescindibile delle scelte che i singoli poteri dello Stato possono effettuare.
3. La rule of law nel contesto delle Nazioni Unite
Prima di affrontare sinteticamente i contenuti del seminario fiorentino, credo possa essere utile un cenno alla dimensione internazionale del concetto di rule of law e allo stato di salute che esso conosce.
È sufficiente leggere (tra gli altri) gli artt. 7, 12 e 92-96 della Carta delle Nazioni Unite del 1945 per rilevare che, pur con tutte le sue specificità, il sistema delle istituzioni Onu si regge su un rapporto dialettico fra i vari organismi, in particolare fra Assemblea generale, Consiglio di sicurezza e Corte internazionale di giustizia e che, pur in assenza di ogni riferimento esplicito ai principi di rule of law, il rispetto delle reciproche competenze (vds. per tutti l’art. 12 e il richiamo alla Corte internazionale) è considerato essenziale per il corretto ed efficace funzionamento del sistema nel suo complesso.
Ma è nello sviluppo delle iniziative e delle deliberazioni assunte nel corso di questi quasi 80 anni che il sistema delle Nazioni Unite ha fatto propri i principi essenziali della rule of law quali strumento per lo sviluppo sostenibile, il rispetto dei diritti umani, la creazione di relazioni non violente – tutti elementi essenziali per quell’obiettivo di mantenimento della pace attorno a cui la Società delle Nazioni venne istituita. Mi limito qui a richiamare l’Agenda 2030 (cioè il programma di lavoro comune adottato dall’Assemblea generale nel 2015) e, in particolare il Goal 16[3], che individua una stretta e irrinunciabile correlazione fra libertà fondamentali, istituzioni democratiche («efficaci, responsabili, inclusive, trasparenti»), Stato di diritto, accesso alla giustizia, accesso all’informazione. Non c’è qui spazio per affrontare il pur interessantissimo tema del rapporto fra il Goal 16 e alcuni degli altri obiettivi dell’Agenda[4], ma possiamo dire che il messaggio che viene dal sistema Onu, attraverso un progetto complessivo adottato dall’Assemblea generale con la risoluzione n. 1 della settantesima sessione (anno 2015), non lascia dubbi sulla centralità che la rule of law assume a livello politico internazionale.
Purtroppo, l’attuazione di questi principi è molto meno consensuale di quanto le parole dicano. La distanza fra sistemi democratici, autocratici e semi-dittatoriali che governano i singoli Paesi ha ricadute importanti su tutta l’azione delle Nazioni Unite (che è una comunità di Stati) e attiva rapporti di forza complessi con esiti disomogenei. A tacer d’altro, la freddezza con cui l’amministrazione Usa iniziò ad approcciare i temi del multilateralismo dopo le elezioni del 2016 portò a un netto sbilanciamento nei rapporti fra le varie regioni del mondo e le relative politiche, indebolendo moltissimo le politiche che vedevano nella crescita di istituzioni democratiche e nella libera partecipazione dei cittadini alla vita pubblica gli strumenti per uno sviluppo equo e sostenibile nel tempo.
Non è un caso che alla debolezza delle posizioni Usa abbia fatto da contraltare una maggiore presenza dei più importanti Paesi autocratici, Russia e Cina in testa, che hanno agito sistematicamente per ridurre gli spazi di azione a difesa dei diritti fondamentali, dell’accesso alla giustizia, del sostegno a istituzioni pubbliche partecipate, del ruolo attivo della società civile[5].
Il modo anche aggressivo con cui i Paesi autocratici hanno cercato, negli ultimi lustri, di “neutralizzare” gli strumenti di rule of law, sostenuti invece con maggiore forza dai Paesi di tradizione democratica, deve allarmarci perché indica che i governanti dei primi temono la partecipazione libera dei cittadini alla vita politica (che non si esaurisce nelle elezioni), temono un accesso efficace alla giustizia e temono una giustizia non controllabile, temono una informazione libera e, ancor più, non sono disponibili a operare perché le istituzioni pubbliche siano trasparenti e controllabili.
Tale conclusione trova conferma nella sistematica richiesta di questi Stati di introdurre nei linguaggi delle risoluzioni Onu la seguente espressione: «the Rule of Law at the national and international levels». Questa distinzione, letta assieme al sistematico richiamo al principio di non interferenza, serve a sostenere posizioni secondo cui le regole operanti a livello internazionale non possono essere traslate all’interno dei sistemi nazionali, ai quali solo compete la definizione dei livelli domestici di garanzia propri dello Stato di diritto, non sindacabili da parte di altri[6]. Ed è evidente che il formarsi di livelli comuni e condivisi di rule of law sul piano internazionale risente profondamente di quelli che sono i livelli esistenti nei singoli Paesi membri.
Perché, è bene ribadirlo, i principi fissati sulla carta restano pura ipocrisia se vengono svuotati tanto nella fissazione delle regole attuative quanto nella vita delle istituzioni chiamate ad attuarli.
In un contesto di delicati equilibri internazionali, che vedono l’affermarsi di logiche di contrapposizione e di forza, nonché una maggiore debolezza della presenza statunitense, le posizioni europee dovrebbero conservare unitarietà e coerenza, in quanto rappresentano l’espressione più avanzata della cultura fondata sui diritti fondamentali e sullo Stato di diritto. Purtroppo, le posizioni di alcuni Stati europei rendono quelle posizioni più incerte e rafforzano la pressione di coloro che mirano ad arretrare gli equilibri faticosamente raggiunti negli scorsi decenni[7].
Nel corso di un recente incontro dedicato alla figura di Sergio Trentin[8], che, giovane cattedratico di diritto amministrativo, nel 1926 rinunciò al proprio incarico per non sottomettersi allo statuto fascista e si rifugiò in Francia, sono stato colpito dalla citazione di un passaggio in cui si afferma che i giuristi fedeli al fascismo avevano inventato il «diritto dittatoriale» e che questo percorso era avvenuto attraverso la «progressiva sottrazione» di singoli diritti e di singole libertà: un meccanismo che conta su una progressiva erosione delle libertà, spesso poco evidente ma dagli esiti complessivamente drammatici. È, questo, un meccanismo con cui abbiamo a che fare ancora oggi in ambito internazionale e in un numero crescente di contesti nazionali[9], e su cui torneremo.
4. La rule of law nella dimensione europea
I caratteri essenziali della rule of law nel contesto dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa hanno una radice storica che Virgilio Dastoli ci ricorda e sono descritti nell’intervento di Gualtiero Michelini, che possiamo adottare come base di partenza.
Dopo aver chiarito come i principi di rule of law siano stati progressivamente inclusi in modo sempre più cogente tra quelli fondamentali della Carta e dei trattati europei[10], Michelini evidenzia come questa scelta sia coessenziale alla costruzione di un sistema complesso, che, attese le diverse caratteristiche degli Stati membri, ha avvertito la necessità di fissare gli elementi che fondano il mutuo riconoscimento, la mutua fiducia e la necessaria cooperazione[11]. Fa parte di questi elementi anche l’indipendenza dei sistemi giudiziari nazionali, quale presupposto del mutuo riconoscimento delle decisioni delle corti nazionali e l’accettazione delle decisioni delle corti europee. Principi che trovano chiara conferma nella comunicazione della Commissione del 2014 (Un nuovo quadro UE per rafforzare lo Stato di diritto), e nelle comunicazioni del 2019 (Rafforzare lo Stato di diritto nell’Unione; Il contesto attuale e possibili nuove iniziative), che mettono in evidenza come solo livelli comuni di rispetto dello Stato di diritto da parte di tutti i Paesi membri consentano che una sentenza civile o commerciale, così come una misura cautelare penale, emesse dall’autorità giudiziaria di un Paese possano trovare diretta applicazione negli altri Paesi. La possibilità che il mutuo riconoscimento dei provvedimenti giudiziari avvenga in modo diretto e senza la mediazione governativa discende dal grado di integrazione europea, molto più elevato rispetto ad altre organizzazioni regionali, e dall’esistenza di un dialogo fra le corti nazionali ed europee basato su principi di fiducia e pari dignità e tale da avere creato, non solo fra i giudici ma anche tra i giuristi, un diritto e un sistema di giustizia “europeo”, intrinsecamente collegato ai sistemi nazionali anche attraverso gli strumenti di lavoro della Corte europea di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Si deve dunque concludere che anche le istituzioni europee, al pari di quelle delle Nazioni Unite, considerano strettamente connessi tra loro i valori ricordati dall’art. 21 del Trattato dell’Unione: «democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale». Il che significa che la messa in discussione di uno di quei valori riverbera i propri effetti su tutti gli altri.
Sono, purtroppo, noti i “casi” politici e giuridici originati dalle riforme interne che hanno avuto luogo in Polonia e Ungheria (Guglielmi ci ricorda anche le criticità presenti in altri Stati membri, in particolare Romania e Grecia).
Casi complessi, che, al netto di differenze ed evoluzioni, hanno portato all’attenzione delle istituzioni europee il fatto che i livelli di rispetto della rule of law che giustificano la mutua fiducia e il mutuo rispetto non sono affatto acquisiti una volta per tutte e che i rischi di involuzione sono attuali e gravi. Come ci ricordano, tra gli altri, gli interventi di Michelini[12], Frąckowiak, Guglielmi[13], Ippolito e Dastoli, la gravità dell’arretramento democratico ha fatto sì che sia il Parlamento europeo sia la Corte di giustizia non siano rimasti inerti nel rilevare e denunciare l’incompatibilità delle riforme adottate nei due Paesi con i valori fondanti del sistema europeo. Ancora il 24 aprile scorso il Parlamento ha assunto una netta condanna delle riforme ungheresi[14] e lo ha fatto con un’ampia maggioranza (399 favorevoli, 117 contrari - tra cui tutto il raggruppamento cui appartengono Lega e FdI - e 28 astensioni), che tuttavia non ci esime dal constatare che i gruppi parlamentari di matrice sovranista hanno sostenuto il Governo ungherese, nonostante la gravità della vicenda sia obiettivamente palese in quanto oggetto di un giudizio di «violazione persistente, sistemica e deliberata» dei valori comunitari. Sul punto è bene notare che la gravità dei profili di contrasto con i valori e le regole europee probabilmente oggi non consentirebbe a Polonia e Ungheria di essere ammesse tra i Paesi membri[15]. A tale proposito, voglio qui ricordare l’articolato e puntuale intervento di Sara Cocchi, dedicato all’allargamento dell’Unione. Nel contesto di un più ampio ragionamento, l’Autrice, da un lato, richiama il cambio di prospettiva adottato recentemente dal Parlamento europeo[16] circa il rapporto fra Stati membri e Stati candidati (chiamando anche i primi a una costante verifica del rispetto dei valori dell’Unione e alla ricerca di strumenti più avanzati – punti 17 e 33 della risoluzione) e, dall’altro, ricorda che l’approccio più flessibile e progressivo adottato dall’Unione ha un solo limite «non negoziabile»: «il rispetto dei valori dell’Unione di cui all’articolo 2 TUE», che «non dovrebbe essere soggetto ad alcuna deroga o clausola di non partecipazione e che l’adesione all’Unione deve comportare l’obbligo di un forte impegno a rispettare integralmente il diritto dell’UE» (punto 34).
La posizione assunta dal Parlamento in aprile con riguardo all’Ungheria è importante anche perché richiama la rilevanza di uno degli strumenti a disposizione delle istituzioni europee in caso di violazioni sistematiche: il meccanismo di condizionalità, con il quale il trasferimento di fondi a un Paese membro può essere subordinato alla cessazione di quelle che vengono considerate violazioni sistemiche ai valori e alle regole europee[17]. Si tratta di questione affrontata in modo efficace e originale da Martina Coli nell’intervento che pubblichiamo, così che mi limito a ricordare che il Parlamento ha criticato la Commissione e il Consiglio europeo per avere sbloccato il trasferimento di circa 10,2 miliardi di euro in favore dell’Ungheria nonostante le risposte e le azioni di quel governo non avessero (ancora?) corrisposto alle richieste di intervento sulle modifiche in contrasto con i principi di rule of law. Si tratterebbe, cioè, di una scelta di mera realpolitik (condizionata dall’utilizzo da parte ungherese del meccanismo di unanimità riguardo alle scelte di inviare aiuti all’Ucraina) e, insieme, di un precedente pericoloso che pesa e potrà pesare sulla difesa effettiva di valori fondanti l’intera Unione europea.
5. La rule of law nel contesto italiano
Il collegamento fra le criticità che abbiamo ricordato e quanto avviene in Italia forma oggetto di più di un passaggio dell’intervento di Franco Ippolito, secondo cui alcuni atti di governo e di indirizzo adottati nel nostro Paese non rappresentano ancora quella violazione sistemica e deliberata dei valori dell’Unione che registriamo in Polonia e Ungheria e, tuttavia, vanno inseriti in un contesto politico più ampio di progettate riforme costituzionali. Un progetto cui si affiancano forme di pressione su tutte le manifestazioni di critica e dissenso, di reazione alle pur legittime interpretazioni giudiziali, di delegittimazione degli organi di controllo e delle autorità indipendenti. Così che, conclude l’A., «è agevole constatare che il modello polacco-ungherese costituisca per il Governo italiano un punto di riferimento e di ispirazione, per sintonia di vocazione nazionalistica e sovranistica, comprensiva della pretesa del primato del diritto interno sul diritto dell’Unione».
Come ci ricordano gli interventi che pubblichiamo, a partire da quello della presidente di MEDEL, l’indipendenza degli organismi giurisdizionali e l’efficacia della loro azione costituiscono garanzie indispensabili non solo per i singoli cittadini, ma per la vita stessa delle istituzioni democratiche. In effetti, un sistema può dirsi “democratico” solo se assicura alle persone e ai soggetti collettivi un reale accesso alla giustizia, assieme alla sicurezza che le decisioni saranno assunte da giudici indipendenti sul piano istituzionale, non condizionati nei fatti e messi in grado di operare efficacemente. Al fine di bilanciare indipendenza e responsabilità della magistratura e dei singoli organi giudicanti, la nostra Costituzione repubblicana ha adottato soluzioni avanzate, che altri Paesi hanno in tutto o in parte ripreso. Difendere quelle soluzioni e chiedere che vengano attuate pienamente non è scelta di conservazione, ma applicazione di quei principi di rule of law che l’Italia e l’Europa presentano come frutto di civiltà.
E, ancora, chiedersi quale accesso alla giustizia abbiano nei fatti i cittadini meno fortunati, le vittime di violenze e soprusi, coloro che non parlano la nostra lingua, coloro che vengono avviati ai CPR senza un’idea dei propri diritti[18], chiedersi questo significa avere a cuore i valori su cui la nostra Costituzione, la Carta e i Trattati si fondano.
Ma “rule of law” non è solo assetti delle istituzioni e funzionamento della giurisdizione. Come ci ricordano gli obiettivi delle Nazioni Unite, i principi europei e quelli della Costituzione italiana, l’assetto democratico di una comunità ha bisogno irrinunciabile di una libera stampa[19] e di una società civile attiva e partecipe[20].
Per chi avesse bisogno di una dimostrazione di quanto conti – e quanto sia in pericolo nel mondo – la libera stampa, sarebbe sufficiente ricordare che, secondo un rapporto specializzato, nel 2013 sono stati uccisi nel mondo 120 i giornalisti e lavoratori dei media[21], mentre – e il dato appare altrettanto significativo – rimane altissimo il numero di giornalisti incarcerati nel continente europeo[22]: 15 in Azerbaijan, 32 in Bielorussia, 1 in Polonia, 23 in Russia, 17 nelle zone occupate in Ucraina, 13 in Turchia, cui si aggiunge il caso di Julian Assange, detenuto in Inghilterra in attesa della decisione sulla richiesta di estradizione avanzata dagli Usa. Ed è, soprattutto, l’identificazione dei Paesi europei che usano il carcere contro decine di giornalisti a farci apprezzare lo stretto legame fra regimi autocratici (o solo formalmente democratici) e compressione della libertà di stampa e di opinione, con il complemento delle iniziative adottate per ridurre il pluralismo dell’informazione nei settori della stampa, della televisione e dei media (il blocco o l’applicazione di filtri ai servizi internet e ai social non è una prerogativa soltanto di Russia e Cina). Limitazioni che vanno di pari passo con la riduzione della trasparenza delle istituzioni, da un lato, e il fastidio verso un’opinione pubblica attiva e critica, dall’altro[23].
In conclusione, possiamo tornare alle parole di Sergio Trentin, che individuava nella «progressiva sottrazione» di singoli diritti e singole libertà il meccanismo utilizzato negli anni venti del secolo scorso per attuare il passaggio dal pluralismo politico e culturale al pensiero unico e alla successiva dittatura. Un meccanismo riconoscibile ancora oggi, nel mondo che viviamo, e che consiste nell’indebolire via via i singoli gangli che sorreggono la rule of law, operando tanti e separati interventi istituzionali, legali e culturali, nessuno dei quali in sé drammatico, e così preparare, nella scarsa attenzione di tutti (salvo pochi e scarsamente rilevanti irriducibili), il cambio di paradigma che apparirà, a quel punto, come inevitabile o addirittura scontato.
Sono, questi, concetti che possiamo rinvenire anche nel breve ma intenso intervento della giudice polacca Monika Frąckowiak, che descrive come la maggioranza allora al potere abbia agito in modo sistematico per indebolire o asservire gli organi di controllo, a partire dalla Corte costituzionale, dal pubblico ministero e dalla televisione pubblica; una politica che è stata compresa in ritardo e che ha richiesto forme di reazione originali, incluso il recupero del dialogo fra le cd. “élites” (indicate dal Governo come le responsabili della crisi in atto nel Paese) e la popolazione. Ma su questo e sull’evoluzione della situazione in Polonia rinvio al testo di Frąckowiak, da leggere anche alla luce del difficile recupero di assetti rispettosi dello Stato di diritto con cui si sta confrontando la nuova maggioranza che governa il Paese.
La necessità di contrastare il cammino verso le “democrazie illiberali”, di cui abbiamo molti esempi negli ultimi lustri, troverà nelle elezioni europee di giugno una verifica assolutamente importante. Non sappiamo se le elezioni costituiranno lo spartiacque cui si accennava all’inizio di queste pagine, ma certamente l’assetto che il Parlamento e le istituzioni europee assumeranno nei prossimi anni peserà moltissimo sullo scacchiere mondiale e segnerà profondamente la vita dei cittadini europei e delle persone che in Europa vivono e vorrebbero vivere.
Esserne consapevoli aiuterà a scegliere meglio come orientare il proprio pensiero e il proprio voto.
1. In modo analogo, Questione giustizia ha scelto di recensire rapidamente il volume Quale Europa. Capire, discutere, scegliere (a cura di E. Granaglia e G. Riva, Donzelli, Roma, aprile 2024) e immettere così nel dibattito pubblico le idee e le proposte che i saggi contenuti nel volume dedicano a questioni istituzionali, economiche e sociali fondamentali e che dovrebbero essere conosciute da chi è chiamato a confrontarsi con il voto dell’8 e 9 giugno (www.questionegiustizia.it/articolo/quale-europa-capire-discutere-scegliere).
2. Rinvio qui al sintetico e chiarissimo intervento di P.V. Dastoli, pubblicato in questo numero.
3. «Obiettivo 16: Promuovere società pacifiche e inclusive orientate allo sviluppo sostenibile, garantire a tutti l’accesso alla giustizia e costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli.
16.1: Ridurre ovunque e in maniera significativa tutte le forme di violenza e il tasso di mortalità ad esse correlato.
16.2: Porre fine all’abuso, allo sfruttamento, al traffico di bambini e a tutte le forme di violenza e tortura nei loro confronti.
16.3: Promuovere lo Stato di diritto a livello nazionale e internazionale e garantire un pari accesso alla giustizia per tutti.
16.4: Entro il 2030, ridurre in maniera significativa il finanziamento illecito e il traffico di armi, potenziare il recupero e la restituzione dei beni rubati e combattere tutte le forme di crimine organizzato.
16.5: Ridurre sensibilmente la corruzione e gli abusi di potere in tutte le loro forme.
16.6: Sviluppare a tutti i livelli istituzioni efficaci, responsabili e trasparenti.
16.7: Garantire un processo decisionale responsabile, aperto a tutti, partecipativo e rappresentativo a tutti i livelli.
16.8: Allargare e rafforzare la partecipazione dei Paesi in via di sviluppo nelle istituzioni di governance globale.
16.9: Entro il 2030, fornire identità giuridica per tutti, inclusa la registrazione delle nascite.
16.10: Garantire un pubblico accesso all’informazione e proteggere le libertà fondamentali, in conformità con la legislazione nazionale e con gli accordi internazionali.
16.a: Consolidare le istituzioni nazionali più importanti, anche attraverso la cooperazione internazionale, per sviluppare ad ogni livello, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, capacità per prevenire la violenza e per combattere il terrorismo e il crimine.
16.b: Promuovere e applicare leggi non discriminatorie e politiche di sviluppo sostenibile».
4. Mi riferisco in particolare ai Goal 4 (diritto all’istruzione), 5 (parità di genere) e 10 (contrasto alle disuguaglianze), ma è l’intera Agenda a delineare la necessità che le istituzionali nazionali e sovranazionali si dotino di istituzioni disegnate per la partecipazione libera e consapevole delle persone alla vita pubblica e per la tutela dei loro diritti e delle libertà fondamentali, quali presupposti per sviluppo sostenibile e per la pace.
5. La durezza e la sistematicità con cui gli Stati autocratici contrastano la presenza e la partecipazione delle organizzazioni della società civile ai lavori degli organismi Onu costituisce un fattore di perenne tensione, a fronte dell’altrettanto costante insistenza in direzione contraria degli Stati di tradizione democratica.
6. Si tratta di un approccio che non solo contesta ogni sindacato sui livelli nazionali di rispetto della rule of law e di tutela dei diritti fondamentali, ma, ad esempio, sottopone a critica i progetti di sviluppo avviati e gestiti da UNDP («United Nations Development Program») laddove il sostegno finanziario e organizzativo ai Paesi più deboli viene affiancato da programmi di rafforzamento della trasparenza delle istituzioni e dal coinvolgimento della società civile (in particolare delle ong e delle associazioni locali che mirano al rafforzamento del ruolo delle donne e dell’educazione).
7. Per onestà devo ricordare che la fragilità delle posizioni europee nel più vasto contesto globale e la percezione che di esse si ha nelle altre regioni del mondo ha concause importanti, che vanno dalla assenza di politiche europee coerenti e solide verso l’esterno a evidenti contraddizioni nelle posizioni assunte verso le diverse aree di crisi (il che facilita l’accusa di “doppia morale”), per giungere alla episodicità di interventi strutturali e finanziari anche importanti, privi però delle necessarie lungimiranza e coerenza.
8. Convegno tenutosi presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso il giorno 18 aprile scorso.
9. Rinvio qui, per la situazione europea, all’intervento della presidente di MEDEL, Mariarosaria Guglielmi, in questo numero.
10. Il rinvio è al preambolo della Carta dei diritti fondamentali, ove si afferma: «l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto»; al preambolo e agli artt. 2, 19 e 21 del TUE; alle comunicazioni del 2014 e 2019 della Commissione europea; ai lavori della Commissione di Venezia.
11. Si è così formato un contesto culturale in cui la “cittadinanza europea” si affianca e complementa le singole cittadinanze.
12. A titolo di esempio, la crisi costituzionale del sistema polacco a partire dal 2015 ha visto, con riferimento al sistema giudiziario, una serie di modifiche per le quali, tra l’altro: il Ministro della giustizia ha cumulato la carica e le funzioni di Procuratore generale dello Stato, con poteri di intervento nei singoli casi; sono stati alterati il sistema di elezione dei Consigli superiori di giudici e pubblici ministeri, il meccanismo di nomina dei giudici della Corte costituzionale, nonché la composizione della Corte suprema (mediante abbassamento dell’età pensionabile dei suoi componenti con effetto retroattivo ed eventuale trattenimento in servizio a discrezione del Presidente della Repubblica); è stata approvata la cd. “legge museruola”, che prevede la responsabilità disciplinare del giudice che solleva una questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, e sono stati promossi numerosi procedimenti disciplinari; non sono state pubblicate alcune sentenze della Corte costituzionale e il presidente della Corte costituzionale è stato nominato con una procedura al di fuori della Costituzione.
13. Le prime deliberazioni del Parlamento che riguardano la crisi ungherese risalgono al 2013.
14. Va rilevato che oggetto delle critiche mosse alle riforme ungheresi non è soltanto la creazione dell’Ufficio per la protezione della sovranità (espressione di una politica che, al pari di quella del precedente governo polacco, nella sostanza rivendica il prevalere del diritto interno su quello unionale), ma l’insieme di carenze che riguardano l’indipendenza e la funzionalità del sistema giudiziario, i conflitti di interessi, il contrasto alla corruzione, l’indipendenza dei media, la libera espressione della società civile, etc. Data la gravità delle violazioni ancora in atto, il Parlamento «è arrivato recentemente al punto di portare la Commissione davanti alla Corte di giustizia per la mancata applicazione di quelle condizionalità nei confronti dell’Ungheria» (Dastoli, in questo numero).
15. Allorché negli anni 2006-2007 coordinai in Albania il progetto “Twinning”, che il Csm si era aggiudicato e aveva ad oggetto il “rafforzamento” del Consiglio superiore e dell’Ispettorato ministeriale, lavorammo a lungo sulla composizione del Consiglio, sui meccanismi di nomina dei giudici, sui livelli di formazione iniziale, sui criteri di funzionamento della carriera e sui procedimenti disciplinari. Il progetto si inseriva nel contesto della procedura di avvicinamento e ingresso dell’Albania nell’Unione europea e intendeva assicurare che il sistema giudiziario presentasse livelli di autonomia reale, di trasparenza e di accountability del sistema giudiziario e dei singoli giudici compatibili con gli standard europei. Livelli che il sistema albanese ancora non garantiva e che, adesso, alcuni Paesi che sono già membri non presentano più oppure stanno mettendo in crisi.
16. Il riferimento è alla risoluzione del Parlamento Approfondimento dell’integrazione dell’UE in vista del futuro allargamento, del 29 febbraio 2024 (www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2024-0120_IT.pdf), che riprende ed amplia alcune posizioni già espresse e sviluppate nella risoluzione Imprimere nuovo slancio alla politica di allargamento dell’UE, approvata il 13 dicembre 2023 in occasione del trentennale dei criteri di Copenaghen (www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2023-0471_IT.pdf).
17. È qui importante rilevare che la Corte di giustizia, con due decisioni del 2021, rigettando i ricorsi di Polonia e Ungheria, ha dichiarato il meccanismo di condizionalità conforme ai principi europei e strumento fondamentale per garantire il rispetto dei valori essenziali su cui l’Unione si fonda. Rinvio sul punto, e sul possibile utilizzo di strumenti quali l’art. 11 TUE, all’intervento di P.V. Dastoli.
18. Di questo si è parlato approfonditamente nel seminario romano del 12 aprile, dedicato a immigrazione e asilo, i cui atti formeranno oggetto di futura pubblicazione.
19. Non a caso l’esame dei livelli di libertà dell’informazione fa parte del rapporto annuale che la Commissione europea dedica all’attuazione dei principi di rule of law.
20. Meriterebbe, ad esempio, un’attenta riflessione quanto avvenuto con la banalizzazione e la criminalizzazione (poi smentita dalle decisioni giudiziali) delle Ong operanti nel Mediterraneo per il soccorso ai migranti in difficoltà.
21. Rapporto 2023 della International Federation of Journalists (IFJ): se è vero che quasi il 70% delle uccisioni sono avvenute nel contesto del conflitto di Gaza e in quello siriano, mentre 3 sono le persone morte nel contesto ucraino, ben 12 uccisioni sono registrate nella regione Asia-Pacifico, 10 in quella americana, 8 in Africa e 1 in Europa (Albania). Fra i Paesi interessati, segnalo: India, Afghanistan, Pakistan, Cina, Messico, Guatemala, Honduras, Sudan, Mali, Nigeria.
22. Rapporto datato gennaio 2024 della European Federation of Journalists (EFJ).
23. Occorrerà prestare attenzione agli indirizzi che stanno emergendo anche in Italia nei settori della comunicazione pubblica, dell’informazione giudiziaria, del proposto ritorno alla pena detentiva per alcune condotte di giornalisti e operatori dei media, del diritto di associazione e manifestazione del pensiero.