- Fonte Csm.it: “Parere ai sensi dell'art. 10 L. 24.3.1958, n. 195, sul decreto legge 113 del 4 ottobre 2018” - Delibera consiliare del 21 novembre 2018
- Fonte Quirinale.it: “Decreto Sicurezza e Immigrazione: Mattarella emana e scrive a Conte” - 4 ottobre 2018
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Il voto parlamentare sul decreto sicurezza è stato uno sfregio alla Costituzione. Per la forma e per il merito.
a) Per la forma
Il Governo, scegliendo di porre la fiducia, ha impedito al Parlamento di discutere delle palesi incostituzionalità delle norme – da più parti denunciate − che si sono dovute obbligatoriamente votare nella versione imposta dal Consiglio dei Ministri. La richiesta della fiducia è stata posta dal Governo in primo luogo al Senato per arginare i dissensi interni alla maggioranza, reiterata poi alla Camera – ove non vi erano problemi di “numeri” – solo per impedire di discutere modifiche al testo predisposto: si esprime così, con evidente plasticità, la crisi del nostro sistema parlamentare, costantemente impedito dal Governo di svolgere le sue funzioni costituzionali. Dopo la conversione in legge spetterà ora alla Consulta esprimersi sulla costituzionalità delle norme. Questioni di legittimità costituzionale che non tarderanno ad essere sottoposte al giudice delle leggi in sede incidentale, ma che potrebbero anche pervenire alla Consulta in via diretta ove le Regioni – come hanno già preannunciato – si attivassero. Non è detto dunque che la ferita inferta dal Parlamento alla Costituzione non possa essere almeno in parte riassorbita. Rimane in ogni caso il fatto inquietante che l’attuale maggioranza non sembra preoccuparsi minimamente dei limiti che la Costituzione impone.
In questa vicenda, infatti, esso si è mostrato sordo anche ai richiami più autorevoli. Sono stati in molti prima della conversione in legge, a dubitare della legittimità costituzionale e del rispetto degli obblighi internazionali. Non solo avvocati, magistrati, costituzionalisti, studiosi di diverse discipline o personalità politiche varie, ma anche organi dello Stato. Il Consiglio superiore della magistratura ha elaborato uno specifico parere sul decreto legge originario, reso ai sensi dell'articolo 10 della Legge n. 195/1958, ed è stato espresso a seguito di una nota del Guardasigilli dell’11 ottobre 2018. Nel documento, approvato dal Plenum il 21 novembre 2018, si rileva esplicitamente come la normativa non sia pienamente rispettosa «degli obblighi costituzionali derivanti dagli articoli 10 e 117 della Costituzione». Nell’approfondita e articolata analisi l’organo di autogoverno della magistratura ha segnalato una quantità di incongruenze e pericoli nel caso la normativa trovi applicazione. Credo che ora tale parere, sebbene sia stato del tutto disatteso dal Governo e dal Parlamento in sede di conversione, dovrà essere preso in seria considerazione da tutti, dagli organi di giustizia (ordinari e costituzionale) in primo luogo.
Ancor più rilevante è stato un altro monito rimasto senza alcun seguito, quello formulato dal Presidente della Repubblica, il quale aveva ammonito il Governo e, indirettamente, il Parlamento dei rischi. Infatti, l’emanazione del decreto “sicurezza”, il 4 ottobre del 2018, è stata accompagnata da una lettera rivolta al Presidente del consiglio nella quale Mattarella scriveva: «Avverto l’obbligo di sottolineare che, in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia».
Ciononostante, il Governo e la maggioranza parlamentare, nonostante le sollecitazioni presidenziali, non hanno avuto remore o ripensamenti, non hanno dato alcuna risposta (neppure formale) ai rilievi espressi dal Capo dello Stato. Che fossero preoccupazioni fondate è stato suffragato da tanti, s’è detto. La virulenza con cui si è voluta imporre una decisione controversa ad un Parlamento esautorato delle sue prerogative (come ahimè è ormai abitudine), contingentando tempi, limitando la discussione, facendo prevalere la disciplina al libero mandato, non gioca a favore della democrazia e deve indurre ad un attento esame nel merito.
b) Per il merito
Il decreto sicurezza è una summa di incostituzionalità che potrebbe essere portato ad esempio di ciò che non può essere fatto in materia di migrazioni.
Anzitutto lo stesso strumento prescelto vìola la Costituzione e la giurisprudenza costituzionale in materia. Illegittimo è infatti l’uso del decreto legge per regolare fenomeni − quali le migrazioni − di natura strutturale che non rivestono alcun carattere di straordinarietà ed urgenza. Né può farsi valere in questa materia un’interpretazione estensiva dei presupposti costituzionali, che altre volte ha portato ad abusare dello strumento del decreto legge, poiché i dati relativi al calo dell’80% degli sbarchi, vanto dell’attuale Governo, in caso dimostrano la cessazione dell’emergenza. Si deve anche dubitare che siano stati rispettati due altri caratteri ritenuti essenziali dalla Corte costituzionale e dalla legge 400 del 1988: l’omogeneità e l’immediata applicabilità di tutte le disposizioni del decreto.
Ma è nel merito del provvedimento che si riscontrano le più insidiose incostituzionalità. In materia di migrazioni la nostra Costituzione pone un principio fondamentale che non può essere in nessun caso disconosciuto: l’articolo 10 assicura allo straniero il diritto d’asilo. Secondo la consolidata giurisprudenza dei giudici ordinari esso si configura come diritto soggettivo perfetto attribuito direttamente dalla Costituzione. Un Parlamento costituzionalmente orientato dovrebbe dare la massima attuazione del principio costituzionale, ma con i tempi che corrono ci si accontenta di molto meno. Ecco perché, in assenza di una normativa adeguata, la Cassazione ha indicato nella misura del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie la “forma di attuazione” del principio costituzionale (da ultimo sez. I, n. 4445/18). Una soglia minima, dunque. Non si può certo impedire che la normativa vigente sia precisata e, magari, migliorata; quel che si deve però senz’altro escludere è che essa possa essere eliminata. Ebbene il primo articolo del decreto sicurezza invece proprio questo fa: abroga la protezione umanitaria, sostituita da casi tassativi di permessi di protezione speciale. In tal modo si viola l’articolo 10.
Quante volte abbiamo sentito ripetere da esponenti politici di ogni tendenza che una indagine giudiziaria non può essere pregiudizievole. La presunzione di non colpevolezza è un principio di civiltà, prima ancora che giuridico, di enorme valore, scolpito nel testo della nostra legge suprema all’articolo 27. E la nostra Costituzione non fa certo differenza tra cittadini e stranieri (si riferisce in generale all’«imputato»). Il decreto, invece, in evidente violazione con la richiamata disposizione costituzionale, permette la lesione dei diritti degli stranieri relativi alla difesa e impone l’obbligo di lasciare il territorio nazionale qualora essi siano sottoposti a procedimento penale per una serie di reati. Come se si fossero riscritti in un colpo solo tre articoli della Costituzione (24, 27 e 113) ritenendo che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, senza poter essere considerati colpevoli prima della sentenza definitiva e senza limitazioni particolari per determinate categorie di atti. Tutti, salvo gli stranieri.
D’altronde la discriminazione nei confronti degli stranieri nel decreto non viene meno neppure quando questi abbandona il proprio status. Anche qualora riuscisse ad ottenere la cittadinanza italiana, non sarà mai considerato alla pari degli altri, a rischio di revoca nei casi di condanna definitiva per determinati reati. Questa previsione appare in contrasto con due principi. Quello d’eguaglianza, introducendo nel nostro ordinamento una irragionevole discriminazione tra cittadini, e contravvenendo all’espressa indicazione di divieto della perdita della cittadinanza per motivi politici (articoli 3 e 22).
È stato poi previsto il prolungamento della detenzione amministrativa nei centri di permanenze per il rimpatrio. In questo caso già la normativa che fissava in 90 giorni il limite di soggiorno coatto è apparsa di dubbia costituzionalità e oggetto di numerose e controverse decisioni da parte sia della Consulta, sia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Eravamo al limite (e forse già oltre) della durata compatibile con una misura restrittiva della libertà personale. Il raddoppio del periodo di detenzione rende assai dubbio che si possa ancora sostenere che non si violi l’articolo 13 della nostra Costituzione, legittimando la troppo lunga costrizione della libertà personale in ragione del compito riconosciuto in capo allo Stato di presidiare le proprie frontiere e far rispettare le regole stabilite in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza. Palese diventa, inoltre, la violazione dell’articolo 5 della Cedu sul diritto alla libertà e sicurezza. Attendiamo dunque che a pronunciarsi sia anche la Corte di Strasburgo.
Sono da ricordare, infine, le molte disposizioni del decreto che, riducendo le garanzie sino a ieri assicurate dai sistemi di accoglienza pubblica (Sprar), confliggono con il principio di solidarietà e che finiscono per ledere diritti inviolabili dell’uomo. Quei diritti fondamentali che la nostra Costituzione, nonché una consolidata giurisprudenza costituzionale, garantiscono a tutte le persone senza distinzione di status o di cittadinanza. In particolare, sono da considerare non solo le lesioni di diritti costituzionalmente protetti frutto diretto della normativa, ma anche quelle che conseguono all’applicazione di certe misure di natura amministrativa. È il caso dell’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs n. 142 del 2015, che prevedeva le modalità d’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. Al di là degli effetti concreti che si produrranno e della controversa questione interpretativa sugli obblighi che gravano sull’ufficiale d’anagrafe (a mio modo di vedere questi è tutt’ora tenuto a procedere all’iscrizione, anche d’ufficio, in forza dell’art. 4 della legge n. 1228 del 1954, che non è stata abrogata), ciò che deve considerarsi sono i rischi di effetti a cascata, conseguenti all’eventuale non iscrizione con le possibili limitazione del godimento di diritti fondamentali, quali quello alla salute e quello all’istruzione.
Avremmo tempo per approfondire tutti i profili di una normativa che sarà certamente oggetto di una infinità di controversie di fronte ai giudici di ogni tipo e grado. Quel che per ora si voleva solo richiamare è lo iato che si registra tra la Costituzione e la nuova normativa in materia di immigrazione.