«Visti da dentro», come recita il titolo di una coinvolgente raccolta di racconti sulla vita in carcere[1], è tutta un’altra cosa.
Se poi a verificare con gli occhi – toccare con mano, secondo il rivoluzionario pensiero dell’apostolo dell’incredulità – le condizioni detentive della popolazione carceraria italiana è un gruppo di magistrati, convocatisi appositamente per questo, siamo davvero davanti a un’altra cosa. Un’iniziativa inedita – almeno di questi tempi, occorre tornare indietro a Igino Cappelli, Sandro Margara, le visite alle carceri speciali della “controriforma” –, necessaria e importante.
La scelta di Magistratura democratica di promuovere una serie di visite negli istituti penitenziari – il 25 novembre scorso si è iniziato dall’ingresso a Sollicciano da parte della Sezione toscana – merita di essere seguita anche da questa Rivista. Per più di un motivo.
In primo luogo, nell’anno record dei suicidi in carcere, comprendiamo con evidenza fotografica che nel nostro Paese, accanto a istituti di eccellenza, covano e si incistano situazione di assoluto degrado.
Leggiamo alcuni brani del report: la popolazione detentiva è disposta «in camere con due o anche tre letti, con uno spazio calpestabile minore dei necessari tre metri quadri a testa e un piccolo vano destinato a bagno ove sono presenti un lavandino e un water e dove, su una mensola, vengono spesso sistemati dei fornellini a gas per cucinare il c.d. “sopravvitto” […]. L’umidità portata dalla pioggia e dagli scarichi difettosi pervade l’ambiente. In tutto l’edificio, nelle camere e sui balconi sono evidenti infiltrazioni di acqua, muffe, crepe e intonaco cadente. La presenza di acqua calda nelle docce e il funzionamento dei radiatori non sono costanti né garantiti, così come non lo è l’erogazione della corrente elettrica, spesso resa impossibile dalla rottura di lampadine e plafoniere […]. La situazione igienica è scadente, è diffusa da tempo, in tutti i reparti, la presenza di cimici e parassiti che infestano i materassi e rendono difficile anche il sonno (i detenuti anche in inverno portano le tracce delle punture). I sanitari sono spesso privi di tavoletta o tappo, le docce non sono tutte funzionanti, le tubature fatiscenti, i neon rotti».
Quanta distanza dalla legge, dalla Costituzione, dalla conquista di un ordinamento penitenziario che nel 1975 prometteva che «i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale» (art. 6).
A immergersi nel report sembra di tornare a prima della riforma, alle pagine della celebre inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria di Ricci e Salierno, Anno Domini 1971: «Vitto, barba, aria, acqua ecc., sono tutte “conquiste” da parte del recluso. Ci sono voluti decenni prima che nel nostro paese ci si decidesse a concedere al detenuto due pasti giornalieri e altri lustri per fornirgli lenzuola e cuscino. L’edilizia penitenziaria costituisce di per sé stessa un fenomeno di sadismo oppressivo; come se non bastassero le celle piccole, sporche, prive di luce, d’aria e di servizi igienici, si vuole che il recluso mangi poco e male, non si lavi e dorma scomodo»[2].
Cosa significa oggi questa realtà sbattuta davanti gli occhi, questo passato che non scompare e ritorna?
Per prima cosa che non ci possiamo adagiare sul fulgore nitido dei testi di legge e delle sentenze delle Corti nazionali e sovranazionali.
Occorrono battaglie politiche, culturali e sociali oltre che giuridiche per adeguare la realtà alla Costituzione e alle leggi che la rispecchiano in maniera fedele. Per rendere attuali e concrete le promesse normative e giurisprudenziali occorre che l’obiettivo di un carcere migliore, rispettoso dei diritti e includente (non puramente correzionale) torni a sgorgare da un ‘clima sociale’ in grado di mobilitare la coscienza collettiva (o, meglio, le coscienze collettive). In altre parole, bisogna provare a uscire da quello “stato di depressione profonda” in cui versa la narrativa penologica progressista della penalità penitenziaria che, come avvertiva Massimo Pavarini, «si esprime prevalentemente sulle riviste scientifiche, nel linguaggio della giurisprudenza, nella voce di chi ha responsabilità istituzionali” e “sopravvive raccontando la propria nevrosi: il lamento di fronte a una pena che nei fatti non è come avrebbe dovuto essere»[3].
Uscire dagli uffici, mettere piede tra la carne viva della pena e poi raccontarla, interrogarsi in pubblico su come migliorane il destino, è il segno di una irrequietezza dinamica. A quella nevrosi si risponde con il dinamismo in luogo del lamento.
È qui, in fondo, che si coglie e si ritrova anche il senso primigenio e contemporaneo di Md, del suo modo di stare al mondo.
L’iniziativa, inoltre, mette in risalto un fattore metodologico e culturale di decisivo rilievo. Non si è trattato di una visita al carcere con intento commiserevole, l’ennesimo grido di disperazione (sempre necessario e utile, per carità), l’ulteriore buona intenzione rafforzata da un pellegrinaggio militante. Nulla di “ritualistico”, per dirla con i sociologi dell’istituzione totale. Entrare in carcere, in questo caso, ha significato studiarlo, capire come “vederlo” prima ancora di metterci piede dentro. Il carcere può essere muto se non si impara ad ascoltarlo e leggerlo. E il progetto proprio questo insegna. La visita è stata preparata attraverso incontri e scambio di materiali con l’Osservatorio dell’Associazione Antigone. Un’esperienza, quella degli Osservatori, che viene da lontano e che muove dalle premesse scientifiche e metodologiche dei lavori di Massimo Pavarini, Mauro Palma, Alessandro Margara.
Ancor più importante, per certi versi, è che la visita sia stata effettuata insieme agli avvocati, alla Camera Penale della Toscana e ai suoi Osservatori sul carcere, nonché insieme al Presidente del Tribunale di Sorveglianza, alla Direzione e al personale della polizia penitenziaria e del personale amministrativo. Al di là dell’evidente riflessione sul fatto che si tratta di soggetti che vivono il carcere nel quotidiano, è importante sottolineare che le battaglie per adeguare il carcere alla Costituzione possono trarre linfa soltanto da una cultura giuridica estesa, frutto dello sforzo di costruire saperi condivisi e spazi comuni dove comporli. Anche qui sembra di poter dire che il senso dell’iniziativa travalichi i confini della materia penitenziaria, per porre una domanda di senso a tutto il mondo istituzionale, giudiziario e forense.
Un ultimo rilievo. Le riforme in procinto di entrare in vigore, che consentiranno ai giudici di cognizione di applicare direttamente pene sostitutive del carcere nei limiti di quattro anni di pena, libereranno dalla necessità del carcere soltanto se la cultura della magistratura sarà in grado di riflettere criticamente su sé stessa, di porsi domande su quanto sia influenzata dalle ragioni mondane, sul proprio tasso di conoscenza della realtà, sulle precondizioni dell’esercizio del suo potere, sull’esito finale di quell’esercizio. La visita a Sollicciano sembra costruire una tappa di questo percorso culturale. È questa auto-analisi ad essere ancora davvero eretica e ancora terribilmente necessaria.
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[1] P. Bellotti, Visti da dentro, Castel Bolognese, Itaca, 2015.
[2] A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria, Torino, Einaudi, 1971, p. 184.
[3] M. Pavarini, Governare la penalità. Struttura sociale, processi decisionali e discorsi pubblici sulla pena, Bologna, Bononia University Press, 2013, p. 127.