Il 19 settembre scorso la Corte di Giustizia UE si è nuovamente pronunciata in materia di direttiva rimpatri, su rinvio pregiudiziale proveniente dalla Germania: in applicazione dell’art. 11, par. 2 della direttiva 2008/115, la durata del divieto di reingresso non può, per gli Stati della UE, superare i cinque anni.
La decisione della Corte non ha riflessi sull’ordinamento italiano: in ossequio all’art. 11 della direttiva, la legge n. 129 del 2011 ha ridotto da dieci a cinque anni il termine previsto dall’art. 13, comma 13 d.lgs. 286/1998, che sanziona penalmente il reingresso del cittadino di paese terzo.
Non rilevano neppure più, per noi, le interessanti osservazioni della Corte di giustizia in materia di diritto transitorio (violazione di un divieto d’ingresso nel territorio di uno Stato membro, emesso oltre cinque anni prima dell’entrata in vigore della normativa nazionale che recepisce la direttiva). Infatti, la Corte di cassazione aveva già affermato, con decisione atta a risolvere anche le questioni di diritto transitorio, (Sez. I, n. 8181/ 2011) che il rientro dello straniero espulso ‘’ non è più previsto come reato’’, ove avvenga oltre il quinquennio dall’espulsione, perché la norma incriminatrice, ponendo un divieto di rientro per un decennio, deve essere disapplicata per contrasto con le disposizioni della direttiva 2008/115/CE, in base alla quale il divieto di reingresso non può valere per un periodo superiore a cinque anni.
Molti speravano, invece, in una pronuncia della Corte di giustizia che applicasse alla condotta di reingresso dello straniero nel territorio di uno stato membro i principi affermati con la sentenza El Dridi del 28 aprile 2011 con riferimento ai reati ex art. 14 d.lgs. 296/199. La Corte di giustizia, come è noto, dichiarò incompatibile con la direttiva rimpatri la previsione stessa, nella legge italiana, della pena della reclusione per la violazione, da parte dello straniero, di un ordine di allontanamento.
Sembrava, ad alcuni, incoerente mantenere nell’ordinamento italiano una norma che punisce con la reclusione fino a quattro anni il reato di violazione del divieto di reingresso da parte dello straniero, una volta abrogato l’originario reato ex art. 14, comma 5 ter e quater (che nella attuale, diversa formulazione imposta dalla sentenza della Corte di Giustizia, prevede la pena della multa) sulla violazione dell’ordine di allontanamento
La cassazione, questa volta, non è stata di aiuto.
Decidendo sul ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Perugia, che chiedeva in via principale la disapplicazione del reato ex art. 13 comma 13 per contrasto con la direttiva rimpatri, ed in via subordinata il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, la S.C. ha, invero, stabilito che la fattispecie delittuosa in questione non contrasta con la direttiva n. 2008/115/CE ( Prima sezione, n. 1527/2012) .
Il ricorso prospettava la possibile incompatibilità con i principi fissati nella direttiva, visti alla luce della sentenza El Dridi, della normativa interna che prevede la pena della reclusione per la condotta di reingresso nel territorio dello stato. Si sosteneva, in buona sostanza:
Una volta rientrato nel territorio nazionale lo straniero si trova in una di quelle situazioni di ‘’irregolarità’’ che la direttiva stessa include tra i presupposti della propria applicazione. L’art. 3 n. 2 definisce infatti ‘’soggiorno irregolare’’ ‘’la presenza nel territorio di uno Stato membro di un cittadino di un paese terzo che non soddisfi le condizioni d’ingresso... di soggiorno o di residenza in tale Stato membro’’.Lo strumento si applica qualunque sia la fonte dell’irregolarità della presenza sul territorio: non vi sono disposizioni che distinguano tra situazione di irregolarità derivante dalla violazione di un divieto di ingresso e situazione di irregolarità derivante da inottemperanza alla misura di allontanamento; l’ipotesi in cui la violazione del divieto di reingresso segua ad un precedente ordine di rimpatrio, evidentemente ottemperato, rappresenta anzi una delle ipotesi tipiche contemplate dalla direttiva. Anche per la legge italiana, d’altra parte, lo straniero irregolarmente rientrato in Italia era trattato in modo identico a quello che non ha ottemperato ad un ordine di allontanamento
Nel ricorso si osservava che la sentenza El Dridi ha fissato un punto di assoluto rilievo nel caso di specie: l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per non aver ottemperato all’ordine di lasciare il territorio è incompatibile con la direttiva.
Ciò impone di verificare se gli stessi argomenti valgano anche con riferimento alla diversa condotta ex art. 13 co. 13, nel qual caso la stessa previsione di reato sarebbe incompatibile con lo strumento europeo.
La riposta al quesito potrebbe essere negativa solo ove si ritenesse, sulla base dei criteri ermeneutici stabiliti dalla Corte di giustizia per l’art. 14 co. 5, che il ragionamento della Corte si applichi esclusivamente al caso in cui la presenza irregolare dello straniero derivi dalla violazione di un ordine di allontanamento e non anche al caso in cui essa derivi dalla violazione di un divieto di reingresso. Ove cioè si ritenesse che sulla base del principio di proporzionalità e di efficacia nell’uso di misure coercitive l’irrogazione della sanzione detentiva sia incompatibile con la direttiva nel primo caso, e non nel secondo.
Ciò non può affermarsi, secondo il ricorrente. Anzitutto perché le due situazioni sono identiche, dal punto di vista della direttiva : in entrambi i casi lo straniero irregolare deve essere sottoposto alla procedura indicata dalla direttiva, procedura che non contempla, secondo la Corte, l’utilizzo della sanzione penale.
In secondo luogo, perché la violazione di un divieto di ingresso non ha un maggior disvalore della violazione di un divieto di allontanamento, e quindi il principio di proporzionalità nell’utilizzo delle misure coercitive che permea la direttiva (13° considerando) se è violato dalla prima lo è anche dalla seconda, e con la stessa intensità. Dal punto di vista soggettivo, infatti, la condotta ex art 13 non dimostra una maggior pervicacia o riluttanza ad adempiere all’ordine di rimpatrio: lo straniero, infatti, ha adempiuto, in precedenza, all’ordine di allontanamento (la norma non distingue tra precedente allontanamento volontario o forzato).
La condotta in questione, d’altronde, non compromette maggiormente lo scopo perseguito (il por fine al soggiorno irregolare dello straniero: 6° considerando) e quindi è analoga dal punto di vista del principio dell’efficacia, parimenti richiamato dalla direttiva (13° considerando ) e dalla Corte.
Pertanto, alla luce dei principi di proporzionalità e di efficacia nell’uso di misure coercitive nella procedura di allontanamento, non vi sono motivi per ritenere che l’utilizzo della sanzione detentiva sia incompatibile con la direttiva in un caso e non nell’altro.
D’altra parte, dopo la sentenza interpretativa della Corte di giustizia e la disapplicazione dell’art. 14 da parte della stessa cassazione, non pervenire alle stesse conclusioni anche con riferimento al reato ex art. 13 significherebbe introdurre una ingiustificata disparità di trattamento tra due stranieri in posizioni analoghe
La cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo che, contrariamente a quanto affermato dal PG, la direttiva non equipari, in realtà, le diverse situazioni di irregolarità e che, inoltre, il riferimento alla violazione delle condizioni di ingresso non comprenda anche il caso del divieto d’ingresso che correda una decisione di rimpatrio.
Le cause della presenza irregolare dello straniero sul territorio degli stati membri non sono riconducibili ad un’unica categoria di ‘’irregolarità’’ ma si fondano piuttosto su presupposti differenti, rispetto ai quali l’ordinamento statuale è legittimato ad adottare, secondo un criterio di progressività, diverse categorie di provvedimenti.
In tale contesto, per la S.C. è pienamente legittimo e logicamente plausibile il differente trattamento riservato a chi non soddisfi le condizioni di ingresso o di soggiorno nello stato, rispetto a colui che, senza autorizzazione e in violazione di uno specifico divieto, faccia nuovamente ingresso nel territorio dello stato dopo esserne stato allontanato. Per tale motivo la Corte ritiene anche infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 comma 13 con riferimento all’art. 3 della costituzione, avanzata in via subordinata dal ricorrente, secondo il quale non si potevano punire in modo diverso – l’una con la multa, l’altra con la reclusione – condotte connotate da identico disvalore ed infatti già punite, prima della sentenza El Dridi, con la stessa pena.
In conclusione, la cassazione non ha inteso proseguire sulla strada segnata dalla pronuncia del 10 marzo 2011 della prima sezione, con la quale l’analoga questione posta per l’art. 14 commi 5 ter e quater è stata rimessa alla Corte di giustizia, benché , sembra, sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia con la sentenza El Dridi vi fosse più di un motivo per dubitare dell’adeguatezza della disciplina italiana in materia di divieto di reingresso dello straniero.