L’improvvido annuncio della presentazione, da parte del Ministro della giustizia, di un emendamento al disegno di legge n. 1189 “Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione”, finalizzato alla sospensione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, è stato seguito dall’effettiva predisposizione di un testo da parte dei Presidenti delle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati che prevede l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e il ritorno alla disciplina precedente al 2005 quanto agli effetti della prescrizione sul reato continuato. Soluzioni devastanti, contrarie ai principi costituzionali della ragionevole durata del processo e della presunzione di non colpevolezza.
La sede per la proposta di riforma è certamente impropria, atteso il carattere di previsione generale. Il testo, nella sua laconicità, ha il sapore del colpo di mano.
L’iniziativa, comunque, ha riacceso la discussione sul disegno di legge presentato alla Camera dei deputati il 24 settembre 2018 dallo stesso Ministro.
Come è noto il ddl n. 1189/2018, prendendo le mosse dall’impianto introdotto dalla legge n. 69/2015, intende nuovamente intervenire sui reati dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. Amplificato dalla grancassa mediatica, il progetto si risolve nella proposizione del solito armamentario repressivo organizzato intorno all’aumento delle pene, al restringimento di benefici e garanzie, alla costruzione di strumenti di investigazione inquietanti, quali l’agente provocatore; tutte soluzioni prive di qualsiasi effetto deterrente.
Primo passaggio significativo è l’aumento della pena per il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, attualmente punito con la reclusione da uno a sei anni che viene portata da tre a otto, con il corollario dell’ulteriore aumento della prescrizione.
Il disegno di legge estende poi le pene accessorie della interdizione dai pubblici uffici e della capacità a contrarre con la Pubblica Amministrazione a tutti i reati contro la PA, e, quanto al tempo della loro durata, essa può essere perpetua quando la pena principale superi gli anni due di reclusione. Evidente il contrasto con il dettato costituzionale di una sanzione senza fine, violativa dei principi di proporzione e ragionevolezza.
L’intervento sul cd. “patteggiamento” è tale da stravolgerne la natura. Si introduce, infatti, la possibilità per il giudice di applicare le pene accessorie anche nella ipotesi in cui la pena principale irrogata non superi gli anni due di reclusione e sia stato riconosciuto il beneficio della sospensione condizionale. Si tratta di una immotivata deroga al sistema che prevede l’estensione della sospensione condizionale alle pene accessorie.
È addirittura previsto che alla riabilitazione sopravvivano effetti penali.
Nella fase dell’esecuzione è reso più difficile l’accesso all’affidamento in prova ai servizi sociali, annoverando ora i reati contro la PA tra quelli ostativi alla concessione dei benefici ex art. 4-bis legge n. 354 del 1975.
Ridimensionata rispetto agli annunci ma con una soluzione di gran pasticcio, è la vicenda dell’agente infiltrato nelle pubbliche amministrazioni. Si afferma nella relazione di accompagnamento al ddl che deve «in ogni caso escludersi la possibilità dell’agente sotto copertura di provocare la consumazione di un reato», dal momento che «le condotte non punibili restano confinate a quelle necessarie per l’acquisizione di prove relative ad attività illecite già in corso e che non istighino o provochino la condotta delittuosa, ma s’inseriscano in modo indiretto o meramente strumentale nell’esecuzione di attività illecita altrui».
Si dovrà trattare insomma dei tipici casi di consegna controllata di denaro, di utilizzo di false identità, di godimento di beni strumentali a far emergere la consumazione dei reati oggetto di intervento.
Allo stesso tempo è introdotta una speciale causa di non punibilità in caso di volontaria, tempestiva e fattiva collaborazione da parte di uno dei concorrenti nel reato.
L’autore del delitto dovrà attivarsi entro limiti temporali strettissimi dalla commissione di taluno dei fatti previsti dalla disposizione, «prima dell’iscrizione a suo carico della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. e, comunque, entro sei mesi dalla commissione del fatto», dovendo inoltre denunciare il fatto «volontariamente» fornendo altresì «indicazioni utili per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili».
Questa causa di non punibilità che richiede un comportamento volontario, tempestivo, concretamente antagonista alla condotta delittuosa, così come formulata, rischia di potenziare l’effetto deflagrante delle operazioni sotto copertura. Essendo infatti vietata l’attività di istigazione e provocazione il rischio è che la stessa trovi modalità di realizzazione proprio attraverso i comportamenti di uno dei concorrenti del reato.
Ancora, è previsto il mantenimento della confisca nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione.
L’Unione delle Camere Penali Italiane ha espresso una posizione assai critica sulla iniziativa governativa. In sede di audizione davanti alle Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali della Camera dei deputati i suoi rappresentati hanno confermato la ferma contrarietà dei penalisti italiani ad un intervento in linea con la logica che contraddistingue l’azione, nel campo della Giustizia, dell’attuale maggioranza di Governo ispirata ad una idea populista che travolge i limiti del diritto ed il significato delle garanzie nel processo.
L’Avvocatura è impegnata a resistere a tali derive, ponendo al centro della propria iniziativa politica la promozione dei valori del diritto penale liberale e del giusto processo dando vita ad un confronto con tutta la comunità degli operatori del diritto per specificare i contenuti di un nuovo patto.
I più autorevoli studiosi hanno preso netta posizione contro il ddl anticorruzione e, in queste ore, anche contro l’iniziativa sulla prescrizione.
E la Magistratura associata?
Per il momento i segnali non sono confortanti. Ci si è addirittura spinti a richiedere misure ancor più draconiane: oltre al blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, l’eliminazione del divieto di refomatio in peius in appello ed il recupero probatorio nel caso di cambiamento del giudice in sede di dibattimento. L’auspicio è che il confronto sul ddl possa essere l’occasione perché la magistratura italiana superi logiche giustizialiste contribuendo ad impedire che finisca all’angolo la cultura dei diritti e delle garanzie.