Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Diario di un giudice del lavoro

di Gaetanino Zecca
Consigliere corte di Cassazione
Nelle parole di un ex pretore la giurisdizione del lavoro dal difficili anni '60 alla stagione dei diritti degli anni '70
Diario di un giudice del lavoro

Il diritto del lavoro dei primi anni Sessanta (e fino all'entrata in vigore della legge 14/7/1966 n. 604 sulla giusta causa e il giustificato motivo di licenziamento) era legato ad un insegnamento universitario spesso complementare e comunque ritenuto sottosettore del diritto civile.

Il testo più noto era un libretto (di altissimo profilo ancorchè tributario di ideologie non necessariamente convinte della immediata precettività delle regole della carta costituzionale del 48) firmato da Francesco Santoro Passarelli.

La contrattazione collettiva era essenzialmente attenta ai temi della retribuzione e i giudici del lavoro, laddove erano costituite le sezioni del lavoro di primo grado, erano in ragione del valore della controversia o il Pretore o le sezioni di Tribunale lavoro e previdenza.   

Giudice di appello era una sezione della Corte di Appello (altro giudice collegiale talora di educazione giuridica precostituzionale). Il tema di frontiera era a quel tempo e a fronte della inflazione post bellica, quello della retribuzione sufficiente, in un sistema di contrattazione collettiva che, in regime di abrogazione dell’ordinamento corporativo e di sua conservata ultra attività, poteva riconoscere ai nuovi contratti collettivi di diritto comune solo una efficacia limitata alle parti stipulanti.

Era un diritto del lavoro più che mai di transizione che utilizzava allo stesso tempo vecchi principi di disparità (gabbie salariali nord-sud con trattamenti deteriori per i lavoratori del sud; retribuzioni secondo fasce di età e secondo il sesso con trattamenti deteriori per i giovani e per le donne) ma conteneva i lieviti di una regolazione spinta dalla crescente importanza del lavoro (subordinato) quale fattore decisivo di un programma economico di ricostruzione e di sviluppo del paese.

Per inciso quei vecchi principi di disparità sono oggi riproposti come novità salutari. Quel diritto del lavoro aveva un complesso sistema di fonti legali e contrattuali di diversa origine storica e di non agevole applicazione in contestuale. I contratti corporativi, dopo la abrogazione dell’ordinamento corporativo, erano dotati di ultra attività con la loro efficacia erga omnes, ma le clausole economiche da essi stabilite erano praticamente travolte dalla dinamica dell’economia generale fondata su inflazione programmata che favoriva la competitività dell’industria e aggiustava - costantemente e automaticamente - al ribasso la capacità di acquisto dei salari.

L’innesto delle clausole dei contratti di diritto comune, man mano sopraggiunti, consentiva, ma solo per gli iscritti alle associazioni stipulanti ex art. 1372 del codice civile, l’applicazione di tariffe retributive aggiornate. La applicazione di un principio generale di eguaglianza fu compito della giurisprudenza nata intorno all’art. 36 della Costituzione repubblicana. Il contratto collettivo con efficacia erga omnes, previsto dall’ultimo comma dell’art. 39 della Costituzione, non ebbe vita alcuna, posto che le forze politiche di maggioranza non intesero lasciare il primato della rappresentanza dei lavoratori e la contrattazione, in mano al sindacato maggioritario che era la CGIL ritenuta cinghia di trasmissione della politica dei partiti di opposizione di sinistra (PCI e PSI).

Fino al 1966 la storia del lavoro nelle fabbriche italiane (Fiat in testa) è una storia ricca (e documentata anche sul piano giudiziario), di discriminazioni, con schedature dei lavoratori, reparti di punizione o di isolamento per i lavoratori “scomodi”, con vere e proprie condotte di sistematica repressione contro il sindacato e i suoi associati.

IL PRETORE DEL LAVORO

Con la legge 604/1966, considerata la possibilità di espulsione (del lavoratore), a capriccio del datore di lavoro secondo la disciplina del codice del 1942,  fu introdotto un parziale limite, peraltro coerente ai principi comuni del diritto civile, al potere del datore di lavoro di chiudere il rapporto subordinato con licenziamento individuale senza giusta causa o senza giustificato motivo. 

Il “recesso” di ciascuna delle parti del rapporto di lavoro collegato dal codice civile a una eguale facoltà del datore di lavoro e del dipendente, era diventato francamente “licenziamento”. Il linguaggio delle legge si misurava con la realtà e i diversi rapporti di forza esistenti tra le parti del rapporto di lavoro subordinato. La competenza a giudicare dei licenziamenti individuali era attribuita in primo grado al Pretore (in appello al Tribunale) e dunque a generazioni di magistrati di recente immessi in magistratura e provenienti da classi sociali “nuove” dopo corsi universitari e talora rapidi percorsi concorsuali che consentivano l’ingresso nell’ordine giudiziario anche di soggetti meritevoli provenienti da famiglie di non elevato reddito. Non è possibile tacere che le attuali procedure di accesso in magistratura costituiscono fattore di grande limitazione all’ingresso in magistratura di giovani che non possono essere per lunghi anni sostenuti  da famiglie che non siano economicamente forti. 

La nuova regolazione giuridica, nonostante i limiti dell’apparato sanzionatorio e di effettività della legge (si continuò a scrivere a lungo di ineseguibilità degli obblighi di fare), ebbe effetti non solo sul piano dei rapporti individuali ma anche sul piano generale delle relazioni industriali.

Le reazioni contro la legge e spesso contro i Pretori che la applicavano (non si muove solo sul piano del folclore politico-giudiziario-scientifico la sulfurea invettiva del Prof. Pera contro il Pretore del lavoro di Milano Romano Canosa, per un caso di licenziamento semplificato come licenziamento per corna) furono forti, e si può anzi constatare che quella “partita” è ancora oggi giocata nel paese fra tutti i protagonisti istituzionali dell’epoca, ma con rapporti di forza che sono sempre meno favorevoli per i gruppi sociali sottoprotetti.

Il potere datoriale non abbisogna oggi di catene gerarchiche e si avvale di altri meccanismi di controllo del fattore lavoro e della sua stessa allocazione territoriale sicché abbandonata l’organizzazione fordista del lavoro, la rete di protezione giuridica, faticosamente costruita negli anni 60/70 su quel modello di organizzazione produttiva, è sempre meno efficace.

Nel 1966 la competenza a decidere delle cause di licenziamento fu attribuita esclusivamente al Pretore, giudice del lavoro monocratico in primo grado (restano tutte da analizzare le ragioni del pendolo processuale in punto di rotazione periodica della allocazione della competenza presso i diversi giudici di merito) .

Il Pretore del lavoro nasce con la legge Bosco del 1966 sul giustificato motivo, e dunque prima della legge 533/73 .

Il legislatore dello Statuto (ministro del lavoro Brodolini, Gino Giugni principale ideatore del testo di legge) volle completare il percorso di delimitazione dei poteri datoriali e - come fu fortemente sottolineato allora - volle portare dentro le fabbriche (che nel 1970 erano elemento costitutivo dello stesso paesaggio italiano oggi fortemente mutato) i diritti garantiti a ogni cittadino da quella costituzione che fino al 1970 era stata tenuta fuori dai cancelli.

Gli anni 70 furono gli anni della promozione dei diritti e delle garanzie, e tutta  la cultura giuridica si arricchì di prospettive come quelle offerte da “Quale Giustizia” una rivista diretta da Federico Governatori, pretore in Bologna, e dalla giurisprudenza dei pretori. “Quale Giustizia” (sostituita nel 1982 da Questione Giustizia) si mosse su un piano di verifica degli interessi in gioco e di ricerca degli elementi di fatto che dovevano essere assunti a fondamento di ogni operazione astratta di interpretazione a fine di applicazione, si mosse sul piano dell’analisi dei linguaggi, sulla divulgazione della giurisprudenza di merito e dei fermenti che  in quel momento essa particolarmente portava ad emersione.

Romano Canosa e Pietro Federico a Milano, Angelo Converso a Torino, Sergio Mattone a Napoli, Gaetanino Zecca a Bari (mi scuso qui per i molti nomi egualmente  importanti che la rapidità di questa nota non mi consente di ritrovare nelle mie carte di allora) furono alcuni dei giudici che, al Nord come al Sud, furono attivi in questa primavera dei diritti. La previsione, da taluno di loro formulata, del carattere regionale degli ordinamenti statuali del lavoro in un mondo produttivo che già allora costituiva una realtà globale, fu pretesto per inserire taluni pretori negli elenchi di “enucleandi” per Gladio, elenchi successivamente sequestrati a tale signor Gelli in Castiglion Fibocchi. 

La legge sui licenziamenti chiarì la efficacia mistificante di certi linguaggi e impose a tutti noi l'esplorazione degli spazi normativi e degli spazi di efficacia ed effettività della nuova normazione. Tutto il territorio tra vecchio sistema di leggi e più ancora tra vecchio sistema di lettura delle leggi e novità legislative quantitativamente esigue ma fortemente innovative rispetto alle prospettive di inveramento della costituzione (tutela del lavoro, tutela della parità, tutela della salute, tutela dei diritti individuali di associazione e collettivi della associazione), obbligò i pretori del lavoro ad una ridefinizione dei significati del linguaggio giuridico, e ad una ricerca degli strumenti di effettività di quanto era predicato in linea di principio. In punto di metodo della interpretazione si doveva scegliere ogni momento, procedimento per procedimento, se ridurre il nuovo delle leggi  e delle “lotte” che le avevano prodotte alle vecchie lettura di sistema, o se si doveva illuminare il vecchio sistema con la luce delle innovazioni portate dalla pur scarsa novellazione nella prospettiva della Costituzione.

A questo grande compito la giurisprudenza dei Pretori del lavoro dette una risposta della massima ampiezza consentita in un ordinamento di diritto scritto e in una situazione storica nella quale i datori di lavoro erano, come i loro dipendenti, radicati sul territorio nazionale e sottoposti alla legislazione nazionale (sul piano del diritto penale dell’economia non accadeva allora che l’art. 517 cp - che punisce la vendita e la messa in commercio di prodotti con segni mendaci- dovesse essere applicato contro la pratica di produrre fuori dell’Italia beni ad alto impegno di lavoro manuale e di contrassegnare poi quei beni col marchio del “made in Italy”).

Col Pretore del lavoro si affermò fortemente un diritto giurisprudenziale che cercò di colmare le distanze tra legislazione ordinaria e carta costituzionale, e impose alla dottrina giuslavoristica un lungo periodo di “inseguimento”. I Pretori del lavoro formularono un diritto del lavoro allora solo accennato dalle fonti, e dettero luogo ad una nuova fonte (il diritto giurisprudenziale appunto – sul quale furono scritti saggi memorabili) che di più potè affermarsi perché la Corte di Cassazione confermò gli indirizzi più fecondi di quella giurisprudenza, somministrando con la propria nomofilachia (ma il nomos era “solo” la Costituzione e qualche rara legge) principi certi e consolidati al punto da richiedere negli anni a venire (che sono gli anni presenti) interventi legislativi di vera e propria  controriforma per sovvertirli. 

PRETORI D’ASSALTO E STATUTO DEI LAVORATORI

Il racconto di un frammento di storia.

I primi giorni dell’ottobre del 1970 fu portata in decisione davanti alla Pretura di Bari una controversia ex art. 28 legge 20/5/70 n. 300,  legge nota come Statuto dei lavoratori. Il caso sottoposto al Pretore riguardava un ragguardevole numero di licenziamenti singolarmente adottati dal datore di lavoro mediante consegna, all’uscita della prima assemblea indetta dalla Fillea Cgil nella azienda di quel datore di lavoro, di lettere preconfezionate di licenziamento tutte eguali e inserite in una in busta sulla quale all’uscita dall’assemblea, dopo apposita interrogazione formulata da una impiegata del datore di lavoro, veniva scritto il nome del singolo destinatario individuato quale partecipante all’assemblea sindacale. 

Il provvedimento pretorile, stabilì che tra le condotte antisindacali sanzionabili attraverso misure interdittive e ordini innominati o a forma libera, di cui all’art. 28 legge 300/70, dovevano essere ricompresi i licenziamenti di ritorsione o di discriminazione intesi a colpire la libertà e l’attività sindacale e, dati i provvedimenti inibitori, aggiunse l’ordine per il datore di lavoro di operare la immediata revoca dei licenziamenti e la reintegrazione dei lavoratori.. (Per la cronaca quell’ordine non fu osservato e dall’inosservanza scaturì un processo penale che si concluse in cassazione con la conferma della condanna del datore di lavoro per il reato individuato dal PM per quella inosservanza).

Ma quello che interessa nell’economia di queste pagine di memoria, e ai fini della individuazione del ruolo effettivo svolto dai Pretori dello Statuto e della percezione consolidata nel sociale di quel ruolo, è il fatto che il padre dello statuto, Gino Giugni, salvo a cambiare valutazioni in un trattatello da lui scritto a due mani con Antonino Freni qualche mese dopo, affermò, a caldo , che la “sua” legge non prevedeva affatto che l’art. 28 potesse essere invocato a tutela contro il licenziamenti di semplici operai non sindacalisti, giusto il tenore letterale del seguito della legge.  

Si sentì rispondere che i giovani Pretori si identificavano secondo un motto di inimmaginabile provenienza militare; il motto recitava “noi che prendiam d’assalto come trincea la vita”. Nel dibattito politico allora in voga secondo il quale i giovani pretori volevano praticare una via giudiziaria al socialismo, la inaspettata citazione tratta dalla storia del paracadutismo italiano suscitò tale sorpresa che qualche giorno dopo  uscì su Repubblica nelle pagine centrali, un articolo di Gino Giugni titolato “I Pretori d’assalto”. La formula ebbe grande  successo al punto che ancora oggi  è nella memoria e nell’immaginario del paese tutto.

I Pretori d’assalto scrissero i loro provvedimenti  ex art. 28 legge 300/70 dando concretezza al  passaggio dal delitto di sciopero al diritto di sciopero. Non mancarono anche in giurisprudenza posizioni come quella del Pretore omnibus di Trinitapoli - evidentemente antagonista dello sforzo di ricostruzione-creazione che caratterizzò la giurisprudenza specializzata del lavoro -, il quale  affermò, a fronte di un protestato vuoto legislativo costituzionale e a un vuoto della normazione ordinaria, che il diritto di sciopero era una locomotiva senza binari, cioè un diritto non diritto.

La Corte Costituzionale investita da un provvedimento che tanto voleva accreditare, lo smentì. Le questioni allora più frequenti riguardarono la possibilità di definizione e classificazione di quel diritto di sciopero, e giustapposero al tradizionale se non arbitrario metodo classificatorio e pseudosillogistico che si muoveva sul versante della ricerca dei limiti dello sciopero affermati come “insiti” in ogni concetto di diritto, una lettura storicistica che ancorava il diritto di sciopero alla autonomia sindacale e ai suoi strumenti di “lotta”. Allora nei cortei gli operai scandivano: “Diritto o non diritto, lo sciopero non si tocca” .

Il lavoro di interpretazione e applicazione dello Statuto dei lavoratori metteva in evidenza il rapporto tra diritto e forza che caratterizzava un sistema policentrico di fonti del diritto e affiancava al diritto statuale un diritto dei corpi intermedi e delle autonomie, destinato ad arricchirlo e vivificarlo.

La via era quella di una flessibilità dello strumento giuridico che invece si trasformò in una rigidità su controversie di posizione (si pensi a tutte le questioni di mansioni e qualifica nelle aziende partecipate degli enti territoriali, controversie attraverso le quali fu tentato l’uso del Pretore del lavoro come notaio di operazioni clientelari sviluppate a spese del contribuente). Al sindacato poi impegnato in una politica di concertazione e talora appesantito da logiche di acquisizione di benefici per i suoi quadri, mancò la possibilità di spingere sul versante della autonomia policentrica. La presentazione di ricorsi per condotta antisindacale proposti contro datori di lavoro e sindacati non minori, ad essi consociati, segnò il punto più alto della crisi sociale in arrivo e individuò il limite dello strumento processuale a fronte di situazioni di massa.

La lezione fu invece ben capita da altri gruppi intermedi (o era la Fiat e la corporazione imprenditoriale?) solo che si pensi ai quarantamila della marcia di Arisio e alla  successiva intitolazione del diritto di sciopero a  notai, farmacisti, avvocati e altre categorie che man mano si appropriavano delle tutele in origine destinate ai sottoprotetti.   

Per dare una provvisoria conclusione, circa il ruolo svolto nella società italiana dai Pretori d’assalto nei primi anni 70” (nel 73 anche dopo la legge sul nuovo processo del lavoro lo scenario generale è totalmente cambiato), il linguaggio di quegli anni fu chiaro e i Pretori d’assalto costituirono un elemento, tra i molti, che favorì la crescita della istituzione giudiziaria e della politica generale del  paese.

Numerose riflessioni in punto di metodo della interpretazione, di incontro/scontro di culture e di incidenza dei linguaggi, in punto di ruolo della magistratura del lavoro nella crescita civile del  paese, di ancora attuali riflessioni in punto di rapporto tra crisi italiana e profonda destrutturazione del linguaggio (politico prima che giuridico) portatrice della più impensabile equivalenza di significati opposti, in punto di clandestinizzazione dei centri di responsabilità e di regionalizzazione degli ordinamenti statuali degli stati periferici (contrapposti alla centralità di Stati Uniti, Cina, Russia e India) richiedono altri spazi che potranno, permettendolo la pazienza del lettore, essere in altro momento tempo percorsi.

  

27/10/2014
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